1. Il radical feminist chic. Perché se sei di sinistra sei femminista per forza, il che si traduce in un sostegno incondizionato alle battaglie femminili portate avanti dagli uomini e in un sostegno tiepido venato di paternalismo e infarcito di buoni consigli quando le stesse battaglie le conducono direttamente le donne.
2. Il testosterone è mio e me lo gestisco io. Perché le femministe hanno bisogno di te. Donne, fate largo, arrivo io, i vostri problemi stanno per finire. Sono già finiti. Sarebbero già finiti, se mi deste retta e faceste come dico io.
3. Il cattofemminista. Perché essere femminista ci rende tutti più buoni. Certo che servono più diritti per le donne. Del resto, una brava moglie e una brava madre non si merita forse una ricompensa, ogni tanto? Io per esempio lavo il bagno ogni sabato, niente specchio e niente water, che a tutto c’è un limite, ma il mio contributo simbolico lo do, eccome.
4. Me too, bellezza. “Che begli occhi che hai”, non si può più dire, va a finire che ti accusano di molestie. Ma con due slogan femministi diventi irresistibile e fra un “no è no” e “certo che le donne devono lavorare”, ti aprono le gambe in men che non si dica.
Ma allora, perché un uomo dovrebbe essere femminista?
1. Perché non si può essere brave persone e non desiderare un mondo più giusto.
2. Perché il talento delle donne non è una minaccia, ma una risorsa per tutti.
3. Per le stesse ragioni per cui non siete razzisti (o non dovreste esserlo).
4. Perché non si sono ancora registrati casi di perdita di virilità istantanei al pronunciare le parole “sono” e “femminista” nella stessa frase. Non è una guerra, non contro di voi, quella che combattiamo è una mentalità, un modo di pensare e di vivere che ci vede cittadine di secondo piano con diritti di seconda mano.
Essere femminista e uomo non è una resa, ma una vittoria.
E quindi, alla fine dobbiamo esserlo o no?
Alcune donne rifiutano che un uomo possa dirsi femminista. Perché vedono in questo, un camuffamento o un’indebita appropriazione maschile del pensiero delle donne. Un altro argomento, sostenuto pure da maschi progressisti, è che un uomo non può darsi quel nome, sarebbe ridicolo o ipocrita da parte sua mettersi a fare il femminista, perché non vive l’esperienza di una donna. Di recente, lo ha scritto Guido Viale sul Manifesto.
Si potrebbe risolvere dicendo che si tratta di “essere” e non di “dirsi”, però la questione intorno al nome significa qualcosa.
Di norma, mi definisco con parsimonia. Preferisco lasciarmi definire. Se mi danno del “femminista” lo prendo come un bel complimento.
In origine, preferivo “antisessista”. Mi sembrava più neutro. Poi questo neutro ha cominciato a sembrarmi un difetto. E’ stato iniziando a frequentare le femministe. Ho capito che per me c’era problema con la radice “fem”. Ed il problema era essenzialmente di fronte agli altri uomini, come se mettersi addosso qualcosa di femminile, anche solo una definizione politica, fosse inferiorizzante. Quindi, ho scelto di indossare questo nome.
Rimane il problema della non totale autorizzazione femminile, che si esprime anche nel tuo post.
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Hai ragione sul fatto che esistono posizioni diverse al riguardo, ma nel mio post l’autorizzazione c’è eccome. Quando è un’adesione sincera e non di comodo o prevaricatrice. Anzi, per me è fondamentale. Ma il tuo commento mette in luce alcuni dei punti critici della questione, secondo me. Che andrebbero affrontati di più e in modo più inclusivo. Almeno nella mia opinione.
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Cosa dovrei affrontare? Ne ho scritto un paio di volte https://wp.me/p8myjZ-iC – https://wp.me/p8myjZ-2KZ a distanza di quattro anni. Nella prima mi sentivo più prossimo al femminismo materialista, nella seconda più prossimo al femminismo della differenza. Non so dire però se ho risolto i punti critici.
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Non tu. Intendevo che andrebbero affrontati con una riflessione generale. Leggerò il post con interesse, grazie.
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