Che fine hanno fatto le bambine?

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Alle elementari ci sono, attente, creative, partecipi, dotate. Sfido chiunque a entrare in una classe e non notarle. Sono brillanti, motivate, determinate. Sembra che non possa fermarle nessuno.

Alle medie e al liceo ci sono. Ambiziose, ingegnose, studiose, geniali, ribelli, pronte a conquistarsi il mondo.

Stop. Avanzamento veloce. Vent’anni dopo.

Un consiglio di amministrazione a caso. Dove sono? Ci sono? Niente. Proviamo con un altro. Niente. Un altro ancora. Sì! Eccola, ce n’è una! Trovata! È intelligente, brillante, creativa, pragmatica e risolutiva. Eppure qualcosa di diverso c’è. A guardarla bene, sembra che si scusi. Che si scusi per avere successo, per avere potere, per avere ragione. Dove i suoi omologhi maschili hanno l’aria tronfia e compiaciuta, lei è dura e affilata, con l’aria di chi ha imparato a difendersi.

Stop. Avanzamento veloce. Vent’anni dopo.

Un evento culturale qualsiasi. Uh, ma è pieno, eccole, sono ovunque. No, proprio ovunque no, in realtà. Sono quasi tutte davanti al palco, non sopra. Sono la quasi totalità del pubblico, ma fra gli oratori sono mosche bianche.

Che cosa è successo? Che cosa ne è stato di tutte quelle bambine brillanti delle elementari? Che fine hanno fatto le loro idee, la loro preparazione, i loro progetti, la loro sicurezza?

Facile.

Una parte se n’è andata con il primo ciclo mestruale, se l’è mangiata la vergogna, l’imbarazzo, la sensazione di avere qualcosa di sporco, qualcosa da nascondere, qualcosa che non va. Assorbente dopo assorbente, abbiamo capito che giocavamo in un campionato diverso, per cui valevano regole diverse.

Poi sono arrivate le curve e lì ci siamo giocate un’altra gran parte di quelle bambine. Perché per ogni curva abbiamo perso un po’ della nostra libertà. A ogni taglia di reggiseno in più ci hanno insegnato a essere prudenti, a non farci notare, ad abbassare lo sguardo e le gonne, a rientrare a casa presto, a occupare meno spazio possibile e il meno possibile da sole.

E infine sono arrivati i figli, a portarsi via il resto. Anzi, no, non i figli. Il mito di una maternità perfetta e idealizzata che non ci apparteneva. A inghiottire i nostri sogni non sono stati i figli, ma i bisogni e le aspettative altrui, i giudizi, le critiche, i confronti di chi confonde la maternità con il nostro valore di donne.

E così, un assorbente, un reggiseno e un pannolino dopo l’altro ci hanno rinchiuse in un’idea di femminilità che non ci appartiene e non ci riguarda, costruita a uso e consumo di una società maschile terrorizzata e minacciata dalla nostra libertà. Si sono presi i nostri sogni, i nostri progetti, le nostre idee. Si sono presi il potere e la luce del palcoscenico e ci hanno dato in cambio segreti e paure e sensi di colpa.

Che fine hanno fatto le bambine? Quella che il mondo degli uomini aveva già deciso per loro.

 

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