
“Non ho detto niente, perché credevo di essere scema io. Mi ripeteva che non ero abbastanza rilassata e che dovevo lasciarlo fare.”
“Mi sembrava strano e non mi sentivo comoda, ma pensavo di non capire il suo metodo.”
“Era la prima volta che andavo da un massaggiatore e non sapevo che cosa dovevo aspettarmi.”
Quando abbiamo di fronte un medico o un fisioterapista, ci troviamo nella situazione non sempre comoda di dover cedere a qualcun altro il diritto di decidere, entro determinati limiti, del nostro corpo. Ne sanno più di noi sul nostro organismo, lo capiscono meglio e dipendiamo da loro per essere curate. Cedere il controllo su di sé quindi fa parte di quella relazione e la definisce, entro determinati limiti, da cui lo squilibrio di potere che la caratterizza. Fare chiarezza su quei limiti dunque diventa fondamentale, aiuta a capire quando siamo state vittime di violenza e contribuisce a prevenirla.
Una paziente consapevole dei propri diritti, inoltre, è una paziente più disponibile a collaborare, più serena, più fiduciosa. Anche per questo esigere chiarezza non è un atto d’accusa alla categoria, tutto il contrario, è uno strumento comune che va a beneficio di entrambi. A rimetterci, tutt’al più, è quell’alone di onnipotenza che una minoranza di specialisti sfoggia insieme ai titoli alle pareti, che intimidisce e confonde, e che non è quasi mai la strada per il rispetto reciproco. Nel momento in cui entriamo nello studio di un medico, di un fisioterapista, di un osteopata o di un massaggiatore non lasciamo i nostri diritti fuori dalla porta. E per quanto insolito o alternativo sia il trattamento a cui ci sottoponiamo, non prevederà o giustificherà mai la sensazione di essere state violate.
Ecco allora alcuni punti che può essere utile tenere a mente.
Non siamo ingenue, sprovvedute o stupide se ignoriamo l’opportunità o la necessità di quello che sta per succedere. Semplicemente, abbiamo alle spalle un percorso professionale diverso. Quindi chiedere è nel nostro diritto. Abbiamo il diritto di chiedere quanto dovremo spogliarci prima che inizi la visita, per esempio, e di esporre i nostri limiti e manifestare le nostre riserve, nel caso ne avessimo. Se il massaggiatore o il fisioterapista li riterrà inconciliabili con la terapia di cui abbiamo bisogno potrà spiegarci perché e darci la possibilità di capire e decidere, prima di cominciare.
Abbiamo il diritto di interrompere un massaggio se ci sta procurando dolore, imbarazzo o disagio, o se non capiamo che cosa sta succedendo. La comunicazione e il consenso sono fondamentali, in qualunque momento della visita. Abbiamo il diritto di essere infastidite da battute, allusioni e commenti di natura sessuale, da qualunque tipo di corteggiamento o malizia. Abbiamo il diritto di spogliarci con discrezione, senza essere tenute a farlo sotto gli occhi del medico.
Non è necessario che ci sia violenza perché si tratti di un abuso. Non si accende una spia rossa a confermare i nostri dubbi e il nostro disagio. Forse il fisioterapista è un amico di famiglia o è lo stesso da cui sono andati i tuoi genitori o è una persona molto conosciuta. Magari ha la fama del donnaiolo e quando lo racconterai in giro ti risponderanno ridendo che lo sanno tutti e che dovresti sentirti onorata. Magari hai provato perfino piacere e non osi confessarlo a nessuno, neanche a te stessa. Così alla fine ti convinci che non è successo niente di male, forse doveva toccarti per forza il seno in quel modo, forse si è messo in quella posizione dietro di te perché doveva fare così, forse quelle non erano carezze insistenti, voleva solo toglierti quella brutta contrattura muscolare, forse non si è avvicinato troppo all’inguine e te lo sei solo immaginato. Forse gli piacevi, in fondo, è un uomo anche lui. Forse sei stata troppo sfacciata tu, forse sei tu a suscitare certi comportamenti, a provocarli. Ti senti sporca, ti senti violata, ti senti vulnerabile, e ti senti sbagliata.
Se la violenza la raccontassero più spesso le donne, sapremmo che non è sempre fatta di urla e di schiaffi e di minacce. Che avviene molto più spesso nel silenzio, nella confusione, che è fatta di mani che si ritirano in fretta o che si soffermano più a lungo del dovuto, di sguardi sporchi, di permessi mai chiesti, di limiti spostati lentamente in avanti, molto lentamente, quella lentezza che ci convincerà poi di essere state complici, di non avere fatto abbastanza per evitarlo. La violenza è fatta di giochi di potere sottili, di situazioni ambigue, di reggiseni tolti per curarti un ginocchio, di insinuazioni, di sguardi che si saziano in silenzio.
Per combattere gli abusi, insieme, professionisti e pazienti, l’arma più efficace è quella della chiarezza, della comunicazione e del consenso. Ricordare alle pazienti i loro diritti, con un cartello in sala d’attesa, per esempio, o con un messaggio in calce alla posta elettronica o sulla propria pagina web, è un modo efficace per isolare i comportamenti scorretti e impostare una relazione serena e senza zone d’ombra. Informare le pazienti della procedura che si seguirà e chiedere il loro permesso è un segno di serietà e di professionalità, come rispettare i loro limiti e la necessità di spiegazioni e chiarimenti.
Chiarezza, comunicazione e consenso sono fondamentali, ma non dimentichiamo che non sono le uniche armi a disposizione. Che un massaggio invasivo sia reato lo dice la legge, come ha ricordato la sentenza di Cassazione numero 42518/19, depositata il 16 ottobre del 2019, che ha condannato un medico di famiglia a diciotto mesi di reclusione per reato di violenza sessuale, in seguito alle “palpazioni invasive” eseguite durante un trattamento estetico-sanitario.
Chiarezza, Comunicazione, Consenso. Sono le tre C che dovremmo tenere a mente ogni volta che ci sottoponiamo alle cure di uno specialista, per contribuire a combattere gli abusi e le violenze sessuali. Rilassarsi e cedere parzialmente il controllo del nostro corpo perché possa essere curato non passa mai dalla sensazione di essere state violate. Quando succede non è una terapia, è un abuso.