Frasi che sembrano romantiche e invece sono comportamenti tossici che dovrebbero farvi correre nella direzione opposta. O almeno obbligarvi a una riflessione e a un cambiamento. Perché l’amore è sempre e prima di tutto libertà, mai il suo opposto.
“Sono l’unico a volere davvero il tuo bene.”
“Continuerò a dirtelo ogni giorno, finché non capirai che siamo fatti per stare insieme.”
“Resta tranquilla a casa con i bambini che ci penso io a te.”
“Non importa se dici di non amarmi più, io ti amo abbastanza per tutti e due.”
“Non sono geloso, è che non mi fido degli altri uomini.”
“Sei tutto per me. Senza di te la mia vita non ha più senso.”
“Stasera ti avrei voluta qui, tutta per me. Divertiti con le tue amiche.”
“Tu non sei come le altre donne, le altre sono tutte puttane.”
“Sei mia. Tornerai sempre da me, e lo sai.”
“Non hai bisogno del trucco. Poi ti guardano tutti perché sei troppo bella.”
“Tu non pagare niente, pago tutto io.”
“Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa.”
“Chiudi il tuo conto in banca tanto gestisco tutto io, anche le bollette, non preoccuparti.”
“Con tutto quello che ho fatto per te.”
“Non troverai mai nessuno che ti ami quanto ti amo io.”
“Quando arrivi al lavoro avvisami.”
“Eri fuori a cena e non mi hai messaggiato neanche per una volta, vuol dire che non stavi pensando a me.”
“Ho il diritto di saperlo.”
“Ti farò da amico, padre, fratello, confidente, sarò tutto per te, non ti servirà nessun altro.”
“Fatti carina per me.”
“Sei la mia donna.”
“Devo sapere sempre dove sei, mi preoccupo per te.”
“Ti coprirò di regali.”
“Ti accompagno, non ti ci faccio andare da sola.”
“A te ci penso io.”
Grazie come sempre alla pagina facebook del blog, dove trovate molti altri esempi e dove i commenti restano aperti, per raccoglierne sempre di nuovi.
Quando mi resi conto che un giorno mia figlia avrebbe potuto bloccarmi su Instagram la trovai una metafora crudelmente perfetta dell’adolescenza. Poi scoprii che poteva fare di meglio e tagliarmi fuori solo da alcune storie (perché a quell’età Instagram sono le storie, punto), non da tutte e la metafora si fece davvero perfetta. Migliora soltanto quando sento qualche genitore dire che lui il cellulare del figlio lo controlla eccome, ci mancherebbe altro. A quel punto c’è davvero tutto, la vita dei nostri figli che scorre a sprazzi accanto alla nostra, un po’ dentro e un po’ fuori, sotto uno sguardo più o meno autorevole, più o meno complice, più o meno vigile, ma sempre pateticamente miope.
Questo esercito di genitori che si illude di controllare i propri figli è quasi sempre il primo a lanciare giudizi e accuse davanti a una tragedia adolescenziale qualsiasi, pur di non ammettere che se non è successo a loro non è per merito e non è certo perché conoscevano la password del cellulare, è perché sono stati fortunati. È solo per quello che possono continuare a confondere i bisogni dei figli con le proprie paure.
Ci sforziamo di essere presenti, in realtà siamo acquattati dietro lo schermo di un social che ci mostra solo quello che vogliamo e possiamo vedere, senza immaginare il resto. Perché non siamo più giovani, perché quella non è più la nostra età e non è la nostra vita. La presenza quando è necessaria sa fermarsi un attimo prima dell’illusione di conoscere e controllare, dove diventa superflua e ridicola. Se amare significa non dover mai dire mi dispiace, forse significa anche non dover chiedere a tua mamma o a tuo papà di uscire da ogni foto della tua vita. Smettiamola di parlare al plurale con le esistenze dei nostri figli. “Abbiamo il compito di matematica, abbiamo fatto la maturità, compiamo diciotto anni, dobbiamo studiare storia.” No, non è un segno d’amore. All’amore basta il singolare, il plurale non serve. Io amo è una dichiarazione. Noi amiamo è un’ipotesi.
“Che cosa li hai fatti a fare i figli, se non vuoi fare i compiti con loro?” mi sono sentita chiedere una volta. Non li ho fatti, li ho solo messi al mondo, e il mondo è tutto loro, ce l’hanno nel palmo, e si meritano di poter stringere quel palmo, ogni tanto, e non trovarci dentro le dita sudaticce e ansiose di mamma e papà. Saper riconoscere il momento in cui avranno davvero bisogno di chiudere la mano e trovarci la nostra, quegli attimi rari e imprescindibili in cui ci si gioca tutto quanto, eccola l’arte di essere genitori. Eccola, la misura di tutta la fortuna di cui abbiamo bisogno.
Non inseguire le maestre fra le spunte blu della giungla di Whatsapp per sapere quando ci faranno lezione online e quando ci daranno i compiti e se i voti valgono lo stesso e perché non studiamo più flauto traverso che nella vita non serve a un piffero, lo dicevi sempre, ma in quarantena a quanto pare è diventato indispensabile “perché la maestra di musica a fine mese lo stipendio lo prende lo stesso”.
Non organizzarmi una festa di compleanno con zii e cugini di secondo grado di cui fino a ieri ignoravo l’esistenza e che adesso sono tutti spiattellati sull’iPad come tanti quadratini di Minecraft, e non chiedermi di vedere spettacoli teatrali e film in bianco e nero e balletti e concerti “che adesso sono gratis”; se fino a ieri il picco intellettuale delle mie giornate era Lisa nella Casa dei Loud, che cosa ti fa pensare che restare chiusa in casa per settimane senza vedere la luce del sole mi abbia trasformata nella versione con le treccine dell’Enciclopedia britannica?
Papà, confinati.
Lo so che la quarantena è un’occasione fantastica per scrivere un fumetto, per imparare a suonare il piano, per tenere un diario, per fare karate, per scrivere haiku, per scoprire i miei chakra, per rimettere in ordine la stanza, per dipingere casa, per imparare il portoghese, per fare addominali, per studiare i decimali usando gli spaghetti, per imparare le costellazioni usando i piselli e stuzzicadenti, e per scoprire il senso della vita usando i meme, ma fra HouseParty e la lezione online di hip hop e la merenda virtuale con i nonni e il ripasso di solfeggio via Zoom e la app per ripassare matematica e le fiabe in diretta Instagram e quelle in differita su YouTube e quelle al telefono e quelle sull’iPad, ieri davanti alla porta del bagno sono rimasta ferma a chiedermi che password mi serviva per entrare.
Io non lo so che cos’è che deve andare bene e spero che la nonna guarisca ed esca dall’ospedale e che non le succeda come al nonno di Mario che un giorno l’hanno portato via e poi non hanno potuto fare il funerale neanche se si mettevano la mascherina e i guanti, e Mario gli aveva fatto un disegno e voleva darglielo, però sua mamma ha detto che bisogna aspettare di poter andare al cimitero, ma lui ci aveva già scritto Guarisci presto e non sa se lasciarlo o no. E spero che la mamma e il papà della maestra stiano bene, perché un giorno durante la videolezione è scoppiata a piangere, ma poi si è soffiata il naso come un elefante e ha detto che piangeva perché eravamo dei somari e noi l’abbiamo capito tutti che non era vero, che lo diceva solo per farci stare tranquilli, perché è meglio avere una maestra che ti dà del somaro che una maestra triste, anche se in quel momento è a casa sua e dietro c’è un mobiletto montato storto e il suo cane ogni tanto abbaia come un pazzo.
Quindi non importa se mi annoio e se il nostro balcone è così stretto che a correre dopo un po’ mi gira la testa e se la torta del compleanno è venuta piccolina perché nel supermercato non si trova più il lievito. È un po’ come la nostra vita, che si è ristretta anche lei e adesso siamo sempre vicini e le giornate sembrano più corte e non ci sta più dentro niente. Ma a me non importa e non è perché ci sono le dirette Instagram e le zie in videochat o perché facciamo la focaccia. È perché in un mondo piccolo piccolo puoi stare fermo o correre velocissimo e arrivi comunque insieme. In un mondo piccolo piccolo quando ti perdi ti basta restare fermo per ritrovarti. In un mondo piccolo piccolo puoi anche tirare il fiato, ogni tanto, e nessuno si accorge che sei rimasto indietro. O che ti sei saltato una lezione online.
(Mamma, confinati è il capitolo in quarantena del precedente Mamma, mollami.)
Le bambine ribelli sono cresciute. E il femminismo non ha ancora trovato il modo giusto per parlare con loro. I toni infantili e le storie della buonanotte non servono più e per gli spunti adolescenziali più duri e senza filtro è ancora troppo presto. E così finiamo per lasciarle sole. Le lasciamo sole negli anni delle prime curve e delle prime mestruazioni, quando diventare donna rischia di sembrare una condanna, non un privilegio, quando la libertà ti si stringe addosso come il primo reggiseno. Rischiamo di lasciarle sole quando si affacciano alle relazioni di coppia e azzardano le prime definizioni dell’amore e del sesso.
Il discorso femminista non sempre arriva alle preadolescenti, non parla abbastanza il loro linguaggio, e le conseguenze iniziano a farsi sentire. Lo dimostra l’ultimo rapporto della fondazione spagnola ANAR (Ayuda a Niños y Adolescentes en Riesgo) che rivela come la violenza di genere aumenti fra preadolescenti e adolescenti in modo preoccupante. L’età dei minori che si rivolgono alla fondazione è sempre più bassa: la media sono 15,7 anni, contro i 16,1 dell’anno precedente, e il 17,6% rientra nella fascia fra i 12 e i 14 anni. Non solo, nell’1,8% delle situazioni l’adolescente convive con il suo aggressore.
“Io non so se la colpa è mia, se mi ama e mi odia. E la cosa peggiore è che se mi chiamasse tornerei fra le sue braccia, come faccio sempre.” “È geloso, non mi lascia uscire con le mie amiche, mi dà della puttana solo perché vado a farmi un giro. Mi ha detto che se lo denuncio mi ammazza.” “Mi insulta continuamente, mi dice che sono una zoccola, una schifosa… Io non lo so più chi sono.” “A volte devo farlo con lui perché se no si arrabbia e diventa violento.” “Io gli dico che non mi piace e lui mi risponde: dai, tranquilla, sopporta, abbiamo quasi finito.” Sono alcune testimonianze raccolte al telefono dell’associazione da ragazze di 15 e 16 anni.
Messaggi di WhatsApp dai toni sempre più violenti e minacciosi, l’obbligo di condividere la propria posizione in ogni momento, il controllo esercitato sul cellulare, la richiesta di fotografie intime come prova d’amore… Nel 67,5% dei casi le aggressioni avvengono per mano del fidanzato, nel 32,5 di un ex fidanzato. A quell’età le nuove tecnologie giocano ovviamente un ruolo rilevante, ma per il resto le dinamiche non cambiano. Se non fosse che nel 39,3% dei casi l’aggressore ha meno di 18 anni e in due casi su dieci le vittime hanno fra i 12 e i 14 anni.
Il dato più preoccupante però è quello sulla consapevolezza. Nel 53,5% dei casi, la minore che chiama al telefono dell’associazione non è cosciente di essere vittima di violenza. Nell’80,9% dei casi non ha alcuna intenzione di denunciare. Siamo abituati a leggere frasi e dati simili nel contesto della violenza di genere, ma quanto fa male scoprire che a quindici anni ancora oggi puoi cadere in una relazione tossica, essere isolata dalle tue amiche, essere sminuita, insultata, umiliata, controllata in modo ossessivo, presa a schiaffi, violentata, e non riuscire a dare un nome diverso dall’amore a quello che ti sta succedendo? Se la forma di violenza più frequente fra le adolescenti è quella psicologica, questo significa che c’è stato un vuoto preoccupante nel discorso femminista rivolto a quella fascia d’età. Ce la siamo cantata e suonata fra di noi, insomma, e anche quando eravamo convinte di rivolgerci a loro, parlavamo un linguaggio così distante e incomprensibile da non riuscire a farci sentire, o a far venire loro voglia di ascoltarci.
L’età anagrafica delle vittime della violenza degli uomini sta diminuendo più in fretta della nostra capacità di adattarci e imparare il loro linguaggio. C’è una nuova sfida all’orizzonte del nostro discorso femminista e dobbiamo raccoglierla il più in fretta possibile.
“Sarà sicuro?” è la domanda che ci poniamo davanti alle richieste social dei figli preadolescenti. “Mia figlia ha dodici anni e vuole installarsi Instagram, ma sarà sicuro?” ci chiediamo, chattando da un cellulare che usiamo come macchina fotografica con sveglia incorporata, mentre la figlia in questione lo usa per trovare informazioni, confrontarle, editarle e condividerle nel tempo che noi impieghiamo a decidere se qual è si scrive con l’apostrofo. La stessa figlia che forse non si porrà il problema sicurezza, ma che sa benissimo come filtrare i suoi contatti social con precisione chirurgica, a cominciare dalla madre. “Io controllo sempre il profilo Instagram di mia figlia, ci mancherebbe altro” mi ha detto un’amica. “Il profilo?” avrei voluto risponderle. “Quale, dei cinque che ha?”
“Allora facciamo così, vado in negozio e scatto una foto e te la mando e tu mi dici se ti piace” ho proposto a mia figlia, non senza sentirmi molto moderna. “Aspetta” mi ha risposto lei dall’altro angolo del divano. E dieci secondi dopo mi ha mandato le foto della maglietta che voleva, con il prezzo, la taglia, indirizzo e orario di apertura del negozio, scorte restanti e canzone preferita della commessa e un cuore rosso con la scritta “Graxx!!! Anche nera plis”.
Una delle ragioni per cui ho scritto “Fazzoletti rossi” è stata provare a capire TikTok. E c’è qualcosa di teneramente patetico in una generazione come la mia, cresciuta a colpi di “cogli l’attimo” e “nessuno può mettere Baby in un angolo”, e tutto il campionario di sfrontatezza ribelle da Roxy Bar, che adesso si ritrova alle prese con una generazione cresciuta a biberon di consapevolezza e rivendicazioni, per cui cogliere l’attimo è semplicemente assurdo, perché loro sono l’attimo, e la ribellione va bene sulle magliette ma non li rende più liberi di quanto non siano già. Guardano Facebook con la curiosità con cui guarderebbero un mucchio di vecchie riviste ingiallite, sono già oltre Instagram, che usano solo per le storie, sono precipitati nel flusso di TikTok e chissà in quanti altri social che ignoro e di cui scoprirò l’esistenza solo quando saranno diventati troppo vecchi per loro.
“Che scemenze” non posso fare a meno di commentare ogni volta che guardo TikTok. Certo che sono scemenze, lo sanno anche loro, non abbiamo cresciuto un esercito di decerebrati, su questo possiamo rassicurarci, è cazzeggio puro e dichiarato. Solo che noi cerchiamo significati a priori, abbiamo bisogno di agganciarci a quel che riteniamo importante, di usare punti fermi di senso per orientarci, loro no. E non perché siano privi di valori, come sostengono praticamente tutte le generazioni di quelle che vengono dopo, ma perché il significato delle cose è fare le cose, non può esistere a priori, si manifesta e si crea nell’azione stessa, come nei videogiochi. Non esiste un sistema di valori esterno o precedente al videogioco, e se esistesse, probabilmente sarebbe ingannevole e poco affidabile. L’etica di un videogioco emerge dalle scelte che sei portato a fare, dalle conseguenze delle sue regole nel corso della partita, dagli obiettivi che ti prefiggi e dalle strategie per conseguirli. Non è una dichiarazione di principi, è il principio di una dichiarazione.
Possiamo gridare ai nostri figli quanto vogliamo che dovrebbero pensare a cose più serie, ma è un po’ come dire loro di imparare a nuotare prima di azzardarsi a mettere un piede in acqua. Loro non imparano le cose importanti, lasciano che prendano forma mentre fanno tutt’altro, le scoprono per caso e soprattutto hanno imparato che non devono sembrare importanti, per esserlo davvero. Anzi, che il modo più sicuro per trovare qualcosa di serio e importante è rifuggire da tutto ciò che sostiene di esserlo. Del resto, sfido chiunque a guardarsi attorno e dire che hanno torto.
È una generazione dall’identità fluida, che scorre da una performance collettiva all’altra, che si nutre di hashtag e si lascia orientare e influenzare dagli algoritmi, gli influencer orwelliani del futuro. Ecco allora che in un mondo in cui plasmarsi sui contenuti altrui ti definisce, non per imitazione o per bisogno di omologazione, ma come attività ludica e creativa, come nuova modalità di relazione con un contesto sociale e social sfuggente, senza mappe e confini, il cyber bullismo va oltre le molestie e l’abuso. Non si tratta di una rete esterna a te che ti intrappola fra insulti e bugie, quel collettivo virtuale diventato improvvisamente ostile non è altro da te, quel collettivo sei tu. Non puoi ignorarlo, non puoi decidere che non ti interessa e passare oltre, perché per farlo devi prima cancellarti e diventare invisibile.
Siamo troppo pesanti per seguire gli adolescenti di oggi, non ci solleviamo abbastanza da terra, ci tiriamo dietro il peso delle nostre paure e della fatica che ci è costata sognare e di tutti gli sforzi che facciamo per non sembrare vecchi. Forse un giorno succederà anche a loro, un giorno scopriranno che sognare costa fatica e quanto è facile perdere tutto e quanto è rischioso navigare a vista. Fino a quel momento, si spostano liberi in un orizzonte in cui i punti di riferimento sono diventati utili come un faro in pieno giorno. Noi allontaniamo lo schermo del cellulare per riuscire a mettere a fuoco i meme che ci mostrano, loro a cinque anni scoprivano dal tg che la webcam può registrare a tua insaputa. Noi li avvertiamo che la ragazzina così simpatica con cui sta chattando potrebbe essere un cinquantenne che un giorno si inventerà un complesso sulle proprie tette inesistenti per convincerla a sollevarsi la maglietta, per loro l’identità della persona dall’altra parte si definisce in termini di popolarità, hashtag, effetti e canzoni, non di autenticità, e se si alzeranno o meno la maglietta dipenderà da tutto quello che abbiamo insegnato loro sulla vita, non sui social.
Stiamo scaricando le colpe degli adulti sul linguaggio usato dagli adolescenti. Dovremmo parlare meno dei pericoli dei social e di più dei pericoli per i social. Se TikTok è il “paradiso dei pedofili” il problema sono i pedofili, non le ragazze che decidono come divertirsi; se un cinquantenne si spaccia per dodicenne per convincere una ragazzina a spogliarsi dovremmo prendercela con il cinquantenne, non con il mezzo che glielo rende possibile. La mia infanzia era tempestata dai racconti di uomini che ti aprivano l’impermeabile davanti per mostrarti quel che avevano fra le gambe, eppure nessuno mai pensato di ritirare gli impermeabili dal commercio. Ecco allora che cosa ho capito di TikTok scrivendo “Fazzoletti rossi”: che non lo capirò mai. E che va bene così.
1. Per prima cosa, non cercate di “convincerlo” a leggere. La lettura è una delle attività più intime e private che esistano; se sente che non gli appartiene, che gli viene imposta, non diventerà mai un lettore.
2. “Mio figlio non legge.” Ne siete proprio sicuri? Vostro figlio legge eccome, solo che non legge quello che volete voi. Legge le istruzioni dei giocattoli, le scritte delle pubblicità, qualche ricetta di cucina se preparate insieme una torta. Legge tutto quello che lo incuriosisce. È circondato dalle parole, sta solo cercando quelle giuste per lui (o per lei).
3. Non ditegli che non legge abbastanza. Nell’istante in cui lo se lo sente dire diventa un non-lettore, non leggere sarà un tassello della sua identità e tutto il resto accadrà a partire da lì. Spiegategli perché per voi è importante leggere, piuttosto, che cosa lo rende così speciale.
4. Non date, vi prego, retta alle maestre che dicono di farlo leggere mezz’ora al giorno. Come si può amare qualcosa che sei costretto a fare mezz’ora al giorno? Io finirei per odiare perfino la Nutella, se mi obbligassero a mangiarne un cucchiaino al giorno. Tutto il tempo che non lo costringete a leggere vi sarà restituito, con gli interessi, quando lo vedrete prendere in mano un libro di sua iniziativa.
5. Circondatelo di libri. Non c’è bisogno di rimetterci uno stipendio, ci sono biblioteche magnifiche, librerie da visitare e in cui curiosare, ci sono i vostri libri. E non solo libri. I fumetti sono perfetti per iniziare a leggere, fra immagini e lettere maiuscole. L’importante è che la pagina scritta e illustrata diventi un’abitudine, una presenza familiare. Che faccia parte della sua vita e della vostra. Sì, anche se non ne ha mai letto uno.
6. “No, quello no, prendi un libro vero, per favore!” disse una madre al figlio, in biblioteca. E lui mise giù il libro a fumetti su Batman rassegnato e prese un volume di fiabe che gli interessava più o meno come un manuale di astrofisica. E che probabilmente non aprì mai. Se volete che vostro figlio legga, lasciatelo libero di scegliere.
7. Dove non arriva la parola scritta, possono sempre arrivare le storie. E le storie, come le parole, sono ovunque. Sono una sfida durante un viaggio in macchina, il compagno perfetto al momento di andare a dormire, lo scacciafantasmi migliore che c’è. E nascono ovunque, in un pezzetto di carta trovato per strada, in una fotografia, in una lettera, in quello che avete fatto mentre eravate lontani. Siamo circondati dalle storie. E ne abbiamo bisogno più di quanto crediamo.
8. Dopo aver disubbidito alla maestra, ignorate i consigli dell’optometrista. Certo, ha ragione. Leggere tutti storti, sdraiati a letto o sul divano, è il modo migliore per rovinarsi la vista e la cervicale. Ma se l’optometrista assomiglia a quello da cui sono andata io e dice a vostro figlio di leggere seduto a tavola, tenendo il libro nel modo giusto, se possibile su un leggio, allora i libri sono spacciati. Si fa sempre in tempo ad accendere una lampadina o a consigliargli di non tenere la pagina incollata al naso, se sarà necessario.
9. Non proponete la lettura come un’alternativa a quello che gli piace di più. “Se non mangiassi tutto quel cioccolato, allora sì che ti piacerebbero i broccoli al vapore.” Che effetto vi fa, messa così? Se per leggere deve rinunciare ai videogiochi, la prospettiva di aprire un libro non sarà molto allettante. I libri non sono un’alternativa ai videogiochi o alla televisione. Non si escludono a vicenda, possono convivere serenamente.
10. Leggete. Sembra banale, ma è fondamentale che la lettura faccia parte della vita di tutti. Leggete quello che piace a voi, davanti a loro. Non sentitevi in colpa a dire a vostro figlio che in quel momento non potete dargli retta perché state leggendo. Se i libri sono tanto importanti, allora ogni tanto è giusto che vengano prima di tutto il resto.
“Non riesco neanche più ad andare in bagno da sola.” “No, non posso uscire, non è capace di stare senza di me.” “Non ho mai dormito neanche una notte senza di lui, in sette anni.” “Verrei molto volentieri, ma devo aiutarlo a fare i compiti.” “Certo, a furia di scarrozzarlo di qua e di là non ho più una vita, ma mio figlio ha la precedenza su tutto.”
Si potesse ricavare energia dallo spirito di sacrificio delle mamme, non ci sarebbe più bisogno dei pannelli solari. Quanto orgoglio trattenuto dietro le loro lamentele, dietro le loro rinunce esibite come medaglie. La mamma che si sacrifica, che non dorme, che non ha più una vita.
Chili e chili di sacrificio, che finiranno per seppellirci tutte. Quanto siamo disposte a pagare l’illusione di essere indispensabili? E nel frattempo, mentre ci facciamo sempre più piccole, mentre facciamo la tara alle nostre esigenze, mentre barattiamo il nostro tempo con la sicurezza dell’approvazione altrui e del riconoscimento sociale, nel frattempo i nostri figli ci osservano. E mentre noi cerchiamo di insegnare loro a parlare inglese, a giocare a tennis, a dire grazie prego e per favore, mentre ipotechiamo il nostro tempo per la loro sicurezza in se stessi e la consapevolezza di essere amati e apprezzati, mentre li valorizziamo, li stimoliamo e li analizziamo alla ricerca di batteri e disturbi e frustrazioni ed etichette più o meno salvifiche, c’è una cosa che imparano su tutte le altre. Una lezione che respirano nell’aria ogni volta che stanno con noi.
La mamma c’è, c’è sempre. La mamma si sacrifica per me. La mamma mette la mia felicità al di sopra di ogni altra cosa. Di certo al di sopra della propria. Il tempo della mamma vale meno del mio. Il tempo del papà no.
Ogni volta che mettiamo la felicità dei nostri figli davanti alla nostra stiamo insegnando alle nostre figlie che un giorno dovranno fare altrettanto. Non importa se sanno parlare cinque lingue e sono campionesse in almeno due discipline sportive e hanno un master che ci è costato un rene: quando saranno grandi la felicità degli altri avrà la precedenza. Ogni volta che rinunciamo a uscire con le amiche, a leggere un libro, a lavorare, a creare qualcosa di nostro, a ritagliarci tempo per noi dietro una porta chiusa, stiamo insegnando alle nostre figlie che tutto quello che stanno imparando ora, che tutta la loro creatività e intelligenza e fantasia, tutte le loro risorse e il loro potenziale, un giorno dovranno scivolare sullo sfondo della vita di famiglia. E stiamo insegnando ai nostri figli che un giorno avranno accanto una donna che farà altrettanto. Che un giorno avranno una moglie che si farà carico dei bisogni altrui e metterà da parte i propri. E che è giusto così.
Dovremmo provare a guardare dietro lo schermo dei nostri sacrifici. A vederci come ci vedono le nostre figlie e i nostri figli. Dovremmo ricordarci che si impara di più a salutare la mamma che esce con le amiche o parte per un viaggio di lavoro che a leggere tante belle storie della buonanotte sulle ragazze ribelli. Perché anche le ragazze ribelli hanno figli che hanno bisogno di loro e a cui devono dire di no, ogni tanto. Anche le ragazze ribelli hanno bambini che le vorrebbero sempre accanto e da cui devono separarsi, a volte. Le ragazze ribelli ogni tanto si sentono egoiste e ingrate e mamme schifose. Le ragazze ribelli hanno dovuto scegliere e non sono sempre sicure di aver scelto bene. Le ragazze ribelli hanno bisogno di tempo per sé, hanno le case più sporche delle altre, mariti più efficienti, meno torte in forno e figli che ogni tanto sentono la loro mancanza. È questa la vera storia della buonanotte che dovremmo raccontare alle nostre figlie, se vogliamo che un giorno sappiano ritagliarsi addosso la propria vita prendendo le misure soltanto su di sé, se vogliamo che un giorno possano misurare il proprio valore sui risultati raggiunti e non su quelli a cui hanno rinunciato per amore degli altri.
Si chiama amore lo stesso, questo dovremmo dire prima di spegnere la luce, si chiama amore lo stesso, anche se non posso darti tutto il tempo che vuoi e che vorrei. Si chiama amore lo stesso, anche se ogni tanto vengo prima io.