Cinque talismani per combattere la paura di fermarsi (e di spegnersi).
Una cosa vecchia, perché se non si può guardare avanti guarderemo indietro per un po’. Ci sono bauli di fotografie e di ricordi che bussano da tempo nel cuore pretendendo di essere aperti. Ci sono tante noi stesse e noi stessi, bambine e ragazze che sorridono dal passato, come abiti smessi troppo presto, come vestiti imbarazzanti nascosti in fondo all’armadio e tornati improvvisamente di moda.
Una cosa prestata, perché per ogni oggetto prestato c’è sempre un dopo, c’è l’impegno a ritrovarsi, il momento in cui lo restituiremo, quello in cui non ci servirà più, in cui ci rivedremo, in cui salderemo tutti i conti, una promessa di futuro nelle mani.
Una cosa regalata, contro la tentazione della solitudine, per allungare la mano e imparare a chiedere con la naturalezza con cui lo facevamo da bambini, per riscoprirci fragili in cambio della certezza di un senso, per sapere che apparteniamo ai nostri bisogni e siamo legati a filo doppio al nostro perdono.
Una cosa nuova, perché se non possiamo strizzare chilometri e ore per viaggiare, allora ingozzeremo i minuti di cose belle, di cose scontate, di cose nuove, di cose sognate, di cose interessanti, di cose curiose, di cose inutili e divertenti.
Una cosa blu, per accogliere la tristezza e tenercela accanto quando ci serve, per smettere di averne paura e provare ad ascoltarla. Chissà che non ci parli di noi più di quanto fossimo disposte ad ammettere, che la fragilità non ci sussurri le risposte che cercavamo nella forza e le impasti con la paura per farne la materia della felicità.
“Come faccio a credere ancora nei seggiolini per neonati, nei paraspigoli, nei frullati biologici, nelle creme naturali, come faccio a illudermi di poter tenere al sicuro mio figlio, adesso?”
Se lo chiedeva anni fa la madre di una bambina a cui era stata diagnosticata la leucemia e mi rimase impresso per il modo in cui metteva drasticamente a nudo tutte le mie ansie da neo mamma e i modi un po’ patetici in cui cercavo di tenerle a bada: seggiolino per auto a prova di rapimento alieno, protezione solare, cappellino, guanti, sciarpa, corso accelerato di pronto soccorso di cui ricordo solo la Macarena da cantare durante il massaggio cardiaco. Non ero una neomamma, ero una amazzone sul piede di guerra, una sentinella senza turni di riposo, in crociata contro ogni pericolo possibile, contro l’idea stessa di pericolo. Fate largo zuccheri, conservanti, ansia da separazione e coliche notturne, il pargolo è mio e lo difendo io.
Da cosa? Non mi sono mai fermata a chiedermelo ma probabilmente lo difendevo dalle mie paure. All’improvviso erano tutte lì, dentro quel pigiamino adorabile con le orecchie da orso che forse era troppo caldo forse era troppo freddo forse era troppo sintetico e di sicuro gli avrebbe fatto odiare gli orsi a vita.
Adesso, sfido chiunque a pensare che basti un’attenta combinazione di cibo biologico, seggioloni partoriti da ingegneri spaziali e un discreto grado di paranoia per tenere al sicuro chiunque. La nostra percezione egocentrica del mondo, che ci si era incollata addosso a furia di leggere il nostro nome sul barattolo della Nutella e i nostri desideri spiattellati in bella vista negli annunci personalizzati, improvvisamente è esplosa. Per anni ci hanno cucito addosso l’illusione di un mondo ideale, che guarda tu che caso ci assomigliava tanto, e quel mondo si è rivoltato contro di noi.
Abbiamo riempito le camerette dei nostri figli di storie ribelli e adesso li inseguiamo con il gel igienizzante. Abbiamo vagato per il mondo come zombie dopo notti insonni per tenere a bada incubi e mostri sotto il letto e adesso il mostro è ovunque e se non ti metti la mascherina il mostro sei tu.
Non ho idea di come cresceranno i nostri figli, quali conseguenze può avere essere stati svezzati a pane e sicurezza e poi cresciuti a pane e regole. E se ce l’avessi probabilmente assomiglierebbe al figlio segreto della signorina Rottenmeier e di Joker, quindi preferirei non pensarci. Una cosa però credo di averla capita: prima abbandoniamo la pretesa della sicurezza come se fosse un nostro diritto di nascita, meglio sarà per tutti. Non è un diritto, non lo è mai stato, tutt’al più era un privilegio, un’illusione, un lusso, la favola che ci raccontavamo per andare a dormire.
Abbiamo il dovere di prenderci cura di noi e degli altri, e il diritto di pretendere che le persone a cui abbiamo affidato la nostra salute e il nostro benessere se ne occupino in modo serio ed efficace. Ma non abbiamo il diritto di essere al sicuro. Non ce l’abbiamo mai avuto.
Foto di Marc Borell (scattata a Sant Iscle de Vallalta)
Fino a qualche giorno fa non ero indipendentista. Non capivo del tutto le ragioni dei catalani, pur vivendo qui da più di dieci anni, non mi sentivo abbastanza catalana da sforzarmi di comprenderle e, devo ammetterlo, alcuni indipendentisti dell’ultima ora, di quelli che il giorno prima andavano al club nautico del mio paese a parlare castigliano (perché i ricchi snob parlavano solo castigliano) e il giorno dopo se ne andavano in giro con le espadrillas con la estelada, la bandiera indipendentista, non li sopportavo proprio.
Così ho seguito tutto il processo con una relativa indifferenza, sicura che avrebbe vinto il No, perché se io in quanto straniera avrei solo da perdere con l’indipendenza e con un’eventuale e molto prevedibile uscita dall’Europa, anche per il catalano medio che per esempio percepisce la pensione dallo Stato spagnolo, non c’era da stare molto allegri all’idea.
Poi sono arrivati gli arresti. La censura. L’intimidazione. Gli agenti della polizia spagnola, neanche ci fosse una sommossa in corso. E sono arrivate le violenze. Non ero fisicamente presente davanti alle scuole e ai seggi, ma c’erano i miei amici, c’era mio marito, c’erano le maestre dell’asilo di mio figlio. Della situazione politica catalana si è scritto molto e molto si scriverà, ma non ho letto nulla sulla reazione della popolazione, sul senso che ha avuto questo referendum nei paesi, fra la gente.
Provate a immaginare di vivere in un paesino di qualche migliaia di abitanti. Quel giorno volete andare a votare. Perché avete sempre voluto farlo. Perché avete deciso di farlo dopo aver visto la vera faccia dello Stato spagnolo. Perché voterete No, ma credete nel diritto di un popolo di esprimere la propria opinione. Forse non sarete fra i tanti (il cuoco della scuola, le maestre, la panettiera, gli scout del paese) che hanno tenuto aperto il seggio fin dal giorno prima e hanno dormito lì. Forse non sarete fra i responsabili del seggio che da settimane si organizzano per far arrivare le tanto temute urne nei seggi, con tecniche e trucchi da società segreta. Forse sarete semplicemente un votante fra i tanti, che la domenica si avvia verso il seggio, con relativa serenità.
E all’improvviso, lungo la strada principale del paese, la stessa che avete percorso ogni giorno, quella che potreste fare in macchina a occhi chiusi tanto la conoscete bene, su quella stessa strada che fa parte del vostro mondo fino a essere diventata parte di voi, vedete avanzare almeno cento agenti della Guardia Civil in tenuta antisommossa. Tutti neri e verdi, come insetti strani, caschi e scudi e armi e tutto quanto, sembrano appena usciti da un film di fantascienza. Come se Darth Vader avesse deciso di andare a comprare due michette nella vostra panetteria di fiducia. Solo che gli agenti non smettono di avanzare e proseguono e poi si scagliano contro le persone riunite lì per votare. Per votare.
E la gente incredibilmente resiste. Si aggrappano alla balaustra della scala che salgono ogni giorno i loro figli, e non mollano finché il manganello non rischia di spaccargli le dita. Si stringono intorno agli anziani per proteggerli, gli anziani che sanno bene di che cosa è capace la guardia civil, eppure non mollano e non tornano a casa, restano lì, a difendere le urne e il loro voto. E le prendono. La guardia civil non risparmia nessuno, non guarda in faccia nessuno. Il genitore dell’amico di vostro figlio finisce con sette punti in faccia. La maestra di ginnastica ha la schiena piena di lividi. L’edicolante ha la giacca strappata e una ciocca di capelli in meno. Un vostro amico a Barcellona per poco non perdeva un occhio per colpa dei proiettili di gomma.
Nel frattempo dentro il seggio ci si organizza. Le urne scompaiono e vengono nascoste in una sorta di assurda caccia al tesoro che potrebbe sembrare divertente, se non si rischiasse tanto e non si avesse tanta paura. Qualcuno in qualche seggio ha abbastanza sangue freddo da tirare fuori il domino e fingere di stare solo giocando una partita, nel seggio alloggiato nel centro ricreativo per anziani. Intanto fuori gli agenti della guardia civil sembrano macchine impazzite. Mostri disumani. Afferrano la gente per i capelli, lanciano gli anziani giù per le scale, affondano i manganelli contro gente colpevole soltanto di voler votare. E di non arrendersi. Quanta forza ci vuole, mi chiedo, per decidere una domenica mattina di essere disposti a farsi riempire di botte pur di poter esprimere il proprio voto? Quanta forza ci vuole per mobilitarsi tutti insieme, sistemare i trattori nei punti strategici, bloccare ogni accesso al paese, mentre la pizzeria del posto distribuisce tranci di pizze e buon umore, e l’intero paese per una volta mette da parte i vecchi rancori e le antipatie e diventa una cosa sola?
Perché è questa forza la risposta a qualunque tentativo di impedire il referendum e tutto ciò che seguirà nei prossimi giorni. Non basteranno tutti gli agenti dello Stato spagnolo per fermare un popolo che ha dato una dimostrazione simile domenica scorsa. Ogni volta che Rajoy apre bocca nasce un nuovo indipendentista. Allo sciopero di oggi, 3 ottobre, in molti sono scesi con i cartelli “Non sono indipendentista, ma non resterò a casa mentre pestano la mia gente”. I pompieri, i veri assoluti eroi di questi giorni, sempre a fianco della popolazione, più dei mossos (la polizia locale) che non è intervenuta né per difendere né per punire, più dei politici, che con l’eccezione di pochi (fra cui Ada Colau, la sindaca di Barcellona) non si sono visti a difendere i seggi insieme agli altri votanti, i pompieri ci sono sempre stati, tanto da scusarsi con i seggi e i votanti che non sono riusciti a difendere, in un coro di “Els bombers seran sempre vostres”.
Ecco perché oggi mi sento stranamente catalana perfino io, più lontana che mai da uno Stato spagnolo disprezzabile e odioso nel suo volto governativo fascista e autoritario, più lontana che mai dall’Europa che tace vigliaccamente lasciando che Spagna e Catalunya se la vedano fra loro.
Ecco perché se avessi potuto votare (non potevo, in quanto straniera) perfino io avrei votato sì. Ecco perché sono disposta ad affrontare l’abisso che si spalancherebbe davanti a una Catalunya indipendente pur di difendere quello che ho visto nascere in questi giorni intorno a me. La resistenza pacifica davanti a violenze inaccettabili. Il senso di appartenenza e l’orgoglio di una nazione di fronte alla censura e all’oppressione. La solidarietà e il coraggio di tanti che diventano una voce sola. Els carrers seran sempre nostres, era uno degli slogan di questi giorni. E all’improvviso mi trovo anch’io a percorrere quelle strade con l’orgoglio di chi se le sente un po’ sue, pur da straniero.
I catalani non sono mai stati molto bravi a esportare la propria causa e le proprie ragioni. Ma credo che lo stesso orgoglio e la stessa compatta chiusura su se stessi che ha impedito loro di farlo finora adesso stia levando una voce che non si può non ascoltare. Qui ogni sera alle dieci la gente esce sui balconi e sbatte pentole e coperchi in segno di protesta. E l’altra sera, al sentir gridare “Visca Catalunya” dai miei vicini, mi sono sorpresa sul punto di gridare anch’io “Visca!”.
Perché ad ascoltarlo bene, quel “Visca Catalunya”, è un grido di libertà. È un grido di resistenza, contro l’oppressione, contro ogni autoritarismo. È la resistenza di chi mette i trattori contro i furgoni di una polizia straniera, ogni giorno più straniera, chiusa negli alberghi in formazione a gridare Viva España, carica di odio. Noi italiani conosciamo bene il valore della Resistenza. Ascoltiamo quella voce, allora. Perché ha molto da insegnarci, c’è il seme di un futuro migliore, nel senso di comunità dei catalani oggi, nella loro lezione di libertà, di coraggio e di dignità. Nel loro senso di appartenza e nel loro orgoglio.
L’altro giorno la mia vicina aveva la radio a tutto volume e canticchiava Tu vuo’ fa’ l’americano. Era domenica mattina e confesso che ho avuto uno dei miei momenti da emigrante nostalgica (sul genere la casa dov’è?) e sono rimasta ad ascoltarla. A un certo punto però mi sono dimenticata della canzone e ho ascoltato solo la vicina. Perché cantava con allegria, con una punta di malizia, perfino, come se non stesse cucinando il pesce fritto alle nove di domenica mattina (eh, sì, non ditelo a me…), ma si stesse preparando per uscire un sabato sera.
Quella non era la stessa vicina che un giorno mi ha suonato arrabbiatissima perché un vaso rischiava di caderle sul terrazzo e neanche la stessa che mi guarda sempre con sospetto perché non sono nata qui. E chi se lo immaginava che dentro la vicina, dentro quella signora anziana dall’aria un po’ tignosa che va ogni sabato a farsi fare la messinpiega, fosse rimasta intrappolata una ragazza di sedici anni che aspetta solo di andare a ballare? E chissà se quella ragazza di sedici anni se lo immaginava che alla fine, anche dopo aver trovato marito, averlo perso, avere avuto dei figli e averli visti andar via, quella ragazza di sedici anni sarebbe stata ancora lì, sempre uguale? Con la stessa identica voglia di ballare. Che non sarebbero bastati tutti i mariti e i figli del mondo a fargliela passare.
Ecco, il rosa secondo me è femminista anche per questo, perché riporta in vita la ragazza di sedici anni che abbiamo dentro, tutte quante. Quella che balla solo per se stessa, affamata di emozioni, che forse pensa di andare alla ricerca dell’uomo della sua vita e di voler mettere su famiglia, ma in realtà vuole soltanto qualcuno che la faccia ballare finché non le reggono più le gambe. E anche dopo. Almeno finché non rischia di far bruciare il pesce fritto.
E allora che cosa c’è di più femminista di una penna rosa che ci prende per mano e ci fa ballare? Che ci aiuta a chiudere gli occhi e riscoprire noi stesse, quello che eravamo quando eravamo soltanto noi stesse, quel desiderio che parla di noi, che poi è lo stesso desiderio di chiudere gli occhi e saltare, di dimenticare tutto e tuffarsi.
Quante cose saremmo capaci di fare, se tornassimo più spesso a essere quelle sedicenni? Se ogni tanto mandassimo al diavolo i mariti e i figli e anche il gatto e il pesce fritto, per metterci a ballare Tu vuo’ fa’ l’americano sulla terrazza? Se assomigliassimo di più a noi stesse?
A chi vive all’estero fa più male, forse, ma prima o poi secondo me succede a tutti. Quel momento in cui vorresti solo tornare a casa. Mica per sempre. Il tempo di ricaricarti, orientare di nuovo la bussola, capire se è la vita che ti tradisce ultimamente o sei tu che tradisci te stessa. E allora ti guardi intorno, ti guardi dentro, ti guardi alle spalle e ti chiedi, come Jovanotti: la casa dov’è?
Non è la casa dove sei nata, soprattutto se non è la stessa casa in cui sei cresciuta e non è la stessa in cui vivono ora i tuoi genitori. Non è la prima casa in cui sei andata a vivere da sola (e per fortuna, perché ci manca di dover litigare di nuovo con la tua coinquilina per chi pulisce il bagno) e neanche quella in cui vivi da sposata. Forse potrebbe essere quella in cui hai messo al mondo il primo figlio, se non fosse che diventare mamme è un po’ come mettere piede in terra straniera e perdersi di nuovo.