Perché dovremmo smetterla di paragonare le mestruazioni alle feci

Solo il titolo del post è assurdo, verrebbe da dire, se non fosse che il paragone viene proposto di continuo, ogni volta che si cerca di abbattere il tabù delle mestruazioni. Quale tabù? chiederà qualcuno. Lo stesso che ha scatenato una valanga di commenti indignati allo spot #trueblood di Nuvenia, che mostra il sangue mestruale (spot che risale al settembre del 2019 ma che è stato ripreso di recente dai social, in occasione della nuova campagna “Viva la vulva”). “IO MI VERGOGNO!!!” ha scritto una donna, proprio così, in lettere maiuscole e con tre punti esclamativi, una delle dimostrazioni più inequivocabili della mancanza di un discorso pubblico sulle mestruazioni, che permetta di renderle meno intime, per cominciare, di riconoscere nell’argomento un discorso collettivo, non solo individuale. Il deodorante per le ascelle non è meno intimo, in realtà, ma nessuno salta su scandalizzato perché in tv si parla dei suoi odori corporei.

Dopo “che schifo”, comunque, la parola più frequente nei commenti è “cacca”. Sono sicura che l’accostamento alle feci abbia più a vedere con il “disgusto” che suscita il sangue mestruale che con la confusione scientifica, ma forse fare chiarezza e distinguere per bene le due cose aiuterà a capire perché il sangue mestruale, appunto, non dovrebbe farci schifo e soprattutto perché non ha niente a che spartire con “la cacca”.

1. Le feci sono scorie che il nostro corpo espelle con una serie di atti fisiologici volontari e involontari. Sono quindi un materiale di rifiuto, in parte di origine alimentare, e possono essere veicolo di malattie. Le mestruazioni sono una perdita di sangue involontaria dovuta allo sfaldamento dello strato superficiale dell’endometrio, che avviene quando non c’è stata fecondazione. Non si tratta di scorie, ma di una fase del ciclo mestruale, ossia di quella serie di cambiamenti che avvengono nell’apparato riproduttivo femminile. E non sono un mezzo di trasmissione di infezioni, a parte ovviamente quelle che si trasmettono in generale per via ematica.

2. A nessuna persona è mai stato impedito di prendere parte ad alcuni aspetti della vita sociale solo perché quel giorno aveva defecato, a nessuno è stato vietato per esempio di entrare in un tempio, nessuno deve ritirarsi in una capanna appartata nei giorni in cui defeca o non può toccare le piante o impastare il pane o fare il bagno, e così via. Per farla breve, per quanto si tratti comunque di un argomento che viene spesso rimosso, non esiste nessuno stigma sulle feci.

3. La defecazione e tutto quello che la riguarda è prevista negli spazi pubblici interessati. Le mestruazioni, no, sono ignorate.

4. In quanto atto fisiologico tendenzialmente soggetto al controllo della persona, la defecazione occupa un lasso di tempo limitato e gestibile, non riguarda intere giornate della vita di una persona.

L’unica ragione per cui si continua ad associare le feci alle mestruazioni, quindi, è una sorta di generico disgusto, la tendenza a rimuoverle, a tacere. E proprio questa tendenza, viene da aggiungere, è causa di problemi di salute che, in entrambi i casi questa volta, si sarebbero forse potuti evitare o diagnosticare prima se l’argomento non fosse condannato al silenzio (e quindi a una sostanziale ignoranza, in molti casi). Nel momento in cui si prova a paragonarle, dunque, arriviamo esattamente alla conclusione opposta: le mestruazioni hanno un ruolo nella vita delle donne che rende indispensabile parlarne e renderle parte del discorso sociale e collettivo, renderle presenti. Non è una provocazione, è un obbligo a cui nessuna società civile dovrebbe sottrarsi.

Tre semplici passi verso l’educazione di genere a scuola

L’educazione di genere a scuola è fondamentale, dovrebbe diventare una materia a parte, dovrebbe avere la stessa importanza che molti istituti attribuiscono ormai al lavoro di gruppo, perché se non hai un approccio sano al genere, come puoi pensare di lavorare bene in gruppo? Se le relazioni fra compagne e compagni non sono impostate sulla base del rispetto e della consapevolezza reciproci, come possono instaurarsi dinamiche di classe serene e proficue?

Da dove iniziare? Ecco tre spunti di riflessione e tre passi semplici per cominciare.

1. Parliamo di esseri umani, non di uomini. Ricorderò sempre il giorno in cui mio figlio doveva copiare alcune righe dal libro di terza elementare e davanti alle frase “per ricordare le imprese degli uomini” ha alzato la testa e mi ha chiesto “Aggiungo ‘e delle donne’?” Ogni volta che diciamo “uomini” invece di dire “esseri umani” escludiamo le donne dalla narrazione collettiva, ricacciamo nell’ombra il contributo di tante figure femminili che sono state già fin troppo ignorate. Quante volte davanti a una rivendicazione femminista ci siamo sentite dire “Ma siamo tutti essere umani”? In quel caso io rispondo sempre: “Se ci succede in quanto donne, dobbiamo parlare di donne”. La storia però ci riguarda tutti, quindi perché non dovremmo parlare di “esseri umani”?

2. Gli spazi insegnano. Il cortile di una scuola non è solo uno spazio ricreativo. Il modo in cui è organizzato trasmette priorità, valori e gerarchie. Nella gran parte dei cortili scolastici lo spazio è occupato quasi interamente dal campo da calcio, lasciando le altre attività ai margini, alla periferia dello svago. Il calcio non è (o non dovrebbe essere) un’attività prettamente maschile, ma in una società in cui lo è ancora, il fatto che occupi gran parte dello spazio e una posizione centrale traccia rapporti di forza chiari. Un cortile che preveda diversi spazi dispersi può valorizzare le attitivà alternative, stimolare la creatività, ridurre le disuguaglianze e contribuire a creare relazioni paritarie e meno conflittuali.

3. La Scatola Rossa per gli assorbenti in sospeso nei bagni. I tabù si combattono usando le parole giuste, valorizzando i racconti individuali e collettivi, ma anche occupando gli spazi comuni e pretendendo che rappresentino tutti. Una scuola che non prevede le mestruazioni almeno negli spazi interessati, come i bagni, è una scuola che lascia nell’ombra una parte importante della vita e delle necessità, fisiologiche ed emotive, delle sue studentesse. Sì, c’è sempre un’insegnante di buon cuore con un assorbente nel cassetto, a cui chiederlo con discrezione. Ma non siamo obbligate a quella discrezione, non siamo tenute a nasconderci. Dove non c’è posto per le mestruazioni, non c’è posto neanche per le donne. La Scatola Rossa, o Tampon Box, è un progetto a costo zero, bastano una scatola di cartone e un po’ di fantasia. Chi potrà vi lascerà un assorbente e chi ne avrà bisogno ne troverà uno, e non c’è modo migliore per fare educazione di genere insegnando al tempo stesso il valore della comunità, della collaborazione e degli sforzi condivisi.

Per gli insegnanti, ecco una SCHEDA DIDATTICA da scaricare e usare in classe, dedicata proprio alle mestruazioni e ai vari modi per parlarne a scuola a partire dal romanzo “Fazzoletti rossi”, con percorsi di approfondimento sulle mestruazioni in Nepal e sulla dea bambina, la Kumari, e diversi spunti di riflessione: dal colore rosso, al bullismo, al sentirsi invisibili, alle superstizioni legate al ciclo mestruale.

È complicato? Meno di quanto sembri, se lo si ritiene superfluo. Per niente, se lo si ritiene indispensabile. Si può fare, basta volerlo fare.

Perché un Period party potrebbe essere un’ottima idea

Una festa per celebrare l’arrivo delle mestruazioni. Ma anche un appuntamento annuale per festeggiarle fra amiche, volendo. Negli Stati Uniti i period party impazzano sempre di più e stanno raggiungendo per popolarità i baby shower. Allora perché non provare a organizzarle anche in Italia?

Ma perché una festa per le mestruazioni? Il comico Bert Kreischer ha raccontato di averne organizzata una per la figlia e ha consigliato a tutti i padri di fare altrettanto, superate le perplessità iniziali sulla indispensabile red velvet cake. Uno dei motivi per cui un period party potrebbe essere una buona idea, infatti, è che si tratta di un ottimo modo per condividere l’esperienza anche con padri e fratelli. Un’occasione per parlarne, insomma, per smontare i tabù divertendosi, per confrontarsi, raccontarsi, ma anche per informare, per riderci sopra, per aiutarsi a vicenda.

Il rosso è l’ospite d’onore, ovviamente, ma a partire da lì tutto è lecito. Vi sono le versioni più allegre, festive e fantasiose, per sbizzarrirsi con dolci, bevande e aperitivi a tema (a cominciare dallo sciroppo di fragola per cui avrebbe optato la mamma di Luna in Fazzoletti rossi), oltre che con la decorazione, l’abbigliamento, i regali (è il momento ideale per la prima coppetta, per un fazzoletto rosso da sfoggiare a scuola o per un kit personalizzato, come questi suggeriti su Pinterest) e i giochi. “Pin the uterus” è un’ottima alternativa all’attacca la coda all’asino, per non parlare delle tombole o dei giochi dell’oca sull’argomento. Assorbenti, salvaslip e tampax possono rivelarsi molto versatili e non avere niente da invidiare a striscioni e bandierine. E fra dolcetti e decorazioni, tutti gli invitati usciranno di lì con un’idea molto più chiara dell’anatomia femminile.

Ma una festa dedicata alle mestruazioni può anche essere un modo per affontare argomenti più seri, fra invitate un po’ più adulte. Riunendo competenze diverse si può parlare della dieta consigliata per i diversi giorni del ciclo, di endometriosi, fare lezione di yoga per imparare ad alleviare i dolori mestruali o, perché no, iniziare ad affrontare la menopausa.

C’è la versione solidale, in cui raccogliere fondi o assorbenti da donare a centri e associazioni per le donne e le ragazze in difficoltà, oltre a promuovere iniziative di informazione e sensibilizzazione. Ma anche la versione bookclub, se ci si riunisce attorno a uno “scaffale rosso” popolato di romanzi, saggi e manuali per tutte le età, o quella cinematografica o musicale (se volete risparmiare tempo, c’è già una playlist su Spotify, da The Tide is High a Bleeding Love, passando per Purple Stain).

Insomma, non ci sono limiti alla fantasia. L’importante è parlarne, parlarne e ancora parlarne. Capire, imparare. E riderci sopra. Fra le tante testimonianze sul menarca raccolte sul sito fazzolettirossi, una costante è l’ansia, la difficoltà di vivere il momento con serenità, quel “signorina” che ti pesa addosso come un dovere, più che come un privilegio. I ricordi più belli invece sono quelli festivi, i regali, le piccole celebrazioni, l’affetto e la tenerezza. Perché allora non aggiungerci anche due risate? Dopo essere state lasciate fuori dalla porta come Malefica, le mestruazioni adesso non si meritano forse una bella festa?

Fazzoletti rossi Materiali didattici

Scaricate la scheda didattica con i percorsi tematici, le attività e i materiali di approfondimento:

Scaricate il Diario di Camilla da leggere gratis qui.

«Posso andare in bagno, prof?»

Nella scuola ai tempi del Covid, uno dei tanti problemi legati alle nuove misure di sicurezza è la gestione dei bagni. Ci sono centri che hanno pensato di chiuderli e molti altri che ne regoleranno l’accesso per evitare assembramenti o gli spostamenti incontrollati degli studenti per l’edificio scolastico. E così, fra una riunione virtuale e una misura straordinaria e l’altra, è emerso in modo abbastanza chiaro che il bagno della scuola, nell’immaginario collettivo, serve per i richiami più o meno impellenti di vescica e intestino, per fumare di nascosto e forse pure per atti di vandalismo e bullismo assortiti.

Manca qualcosa? Uteri a scuola ne abbiamo?

Le mestruazioni nei discorsi ufficiali della scuola non esistono, con poche eccezioni, non sono previste. Certo, ragazze e ragazzi fra loro ne parlano molto più serenamente e apertamente di prima (non tutti, però, e non mi stancherò mai di ripetere che la voce di quelle per cui non è così non la sentiamo, proprio perché tacciono) e in ogni scuola c’è almeno una o un docente o collaboratore scolastico che ha sempre pronto un sorriso e un assorbente nel cassetto per le emergenze, ma non basta.

La metà circa della popolazione scolastica sanguina ogni ventotto giorni al mese e ha diritto che le sue necessità al riguardo siano rispecchiate apertamente e senza sottintesi o giri di parole negli spazi e nei regolamenti scolastici. La parola “mestruazioni” deve essere pronunciata da insegnanti e presidi, perché le ragazze non siano costrette a fingere mal di pancia o a sussurrare vergognose quando scoprono di dover andare in bagno a metà di una lezione e no, non possono aspettare l’intervallo come vuole la nuova normativa della scuola. Possiamo raccontarci finché vogliamo che questo non è più un tabù, ma diciamo la verità: quanto coraggio ci vuole, ancora oggi, per alzare la mano e dire davanti all’intera classe che devi cambiarti l’assorbente? O che ti sono arrivate all’improvviso e ti stai sporcando di sangue? (Tra l’altro, se di mestruazioni si parlasse più spesso, forse non le sentiremmo più paragonare ad altre necessità fisiologiche con cui non hanno niente a che spartire. )

La Tampon Box è uno dei tanti modi per rendere visibile il ciclo mestruale a scuola e sì, è vero che le misure Covid rendono tutto più complicato, ma se davvero la ritenessimo necessaria, troveremmo una soluzione anche per questo, come l’abbiamo trovata per tutto il resto. Ma non solo. Le storie di vita sulle mestruazioni sono un patrimonio prezioso, di una ricchezza infinita (le sto raccogliendo sul sito fazzolettirossi.wordpress.com, se volete provare a leggerne qualcuna). Perché non inserirle fra le attività scolastiche, perché non incoraggiare il racconto del ciclo mestruale, da parte di ragazze e ragazzi, con interviste in famiglia, temi sull’argomento, o la creazione di un fumetto o di un video, per esempio, e includere il loro vissuto nella nostra storia, personale e non? Una lettrice molto speciale di “Fazzoletti rossi” ha deciso di portarlo all’esame di terza media, all’interno di un discorso sulla donna che andava dalla Turandot di Puccini a Malala Yousafzai, passando per Elsa Morante e le donne in Afghanistan. Si può fare, insomma, basta volerlo fare. Perché non riempire le scuole di fazzoletti rossi simbolici, che poi altro non sono che un inno alla vita e al nostro istinto di sopravvivenza, nonostante ogni paura? Andrà tutto bene possiamo dirlo anche così, in fondo.

Non basta che le mestruazioni non siano più un segreto, devono diventare una presenza. Non abbiamo il diritto di costringere le ragazze a viverle in modo clandestino, facendo lo slalom fra tabù e imbarazzi. Non abbiamo il diritto di passare il messaggio che se le mestruazioni nello spazio pubblico non esistono è perché quello spazio pubblico in fondo a loro, in quanto donne, non appartiene del tutto. Sì, è una battaglia importante. Un mondo in cui non c’è posto per le mestruazioni è un mondo in cui non c’è posto neanche per le donne.

Le donne in Nepal: Kumari la dea bambina e l’isolamento mestruale

MATERIALE DIDATTICO PER ACCOMPAGNARE LA LETTURA DI “FAZZOLETTI ROSSI”

La Kumari: la dea bambina in Nepal

kUMARI

La Kumari, o Kumari Devi, è una dea bambina, la reincarnazione di una divinità conosciuta come Durga, nella religione indù. Una dea vivente, insomma.

La più conosciuta è quella di Kathmandu ed è scelta fra le bambine di un’alta casta buddista quando è ancora molto piccola. Le candidate poi vengono sottoposte a una serie di prove, da cui emergerà la futura Kumari. Perfino il suo oroscopo deve ricevere l’approvazione di un astrologo! Devono avere una pelle e una dentatura perfetta, nessuna cicatrice e una bellezza fuori dal comune, oltre ovviamente a essere sane. Inoltre non devono avere mai perso sangue, neanche per un taglietto. Ma come si definisce e si riconosce la bellezza necessaria per diventare una Kumari? Nulla è lasciato al caso. Esistono infatti ben 32 criteri di perfezione, che devono essere rispettati. La lingua piccola, per esempio. Il collo come una conchiglia e le cosce di un daino. Le ciglia di una mucca e una pelle chiara e profumata. Piedi proporzionati e le guance di un leone e una voce morbida e limpida. E via così.

Fra le prove, alcune servono a dimostrare che la bambina ha un carattere sereno, che non ha paura, in particolare del sangue, e che non piange mai. Per questo viene rinchiusa in una stanza con decine di teste mozzate di capra e 108 bufali morti e lasciata lì tutta la notte, mentre alcuni uomini mascherati da demoni cercano di spaventarla. Solo la bambina che resterà impassibile diventerà la nuova Kumari, che letteralmente significa “vergine”.

A quel punto dovrà abbandonare la sua famiglia e trasferirsi a palazzo, da dove non potrà mai uscire, se non per occasioni particolari. Si vestirà sempre di rosso e non potrà mai toccare terra con i piedi. L’unico posto in cui può camminare infatti sono le sue stanze, per il resto dev’essere portata in braccio o su una portantina. È circondata da servitori pronti a esaudire ogni suo desiderio e negli ultimi anni riceve anche una certa istruzione, a differenza di quanto accadeva in passato; i suoi tutori però non possono obbligarla a studiare o darle ordini: si tratta di una dea, non di un’alunna qualsiasi!

Nelle rare occasioni in cui esce o si affaccia alla finestra, viene venerata e osannata e la folla si accalca attorno a lei, nella speranza di una benedizione. L’occhio disegnato al centro della sua fronte rappresenta il potere divino di cui è portatrice e ogni sua reazione e ogni minimo gesto acquistano un significato preciso: se resta immobile, per esempio, significa che la richiesta che è stata fatta verrà esaudita; se trema significa che qualcuno finirà in prigione; se piange, che il futuro riserva morte e malattia.

Non si resta Kumari per sempre, però. Vi è un evento ben preciso nella vita di quelle ragazze che segna la fine della loro condizione divina. E quell’evento è l’arrivo delle mestruazioni. Da quel giorno infatti cessano di essere Kumari e tornano a essere comuni mortali. Devono abbandonare il palazzo, che verrà occupato dalla nuova Kumari, e prepararsi a una vita tutto fuorché facile. Avranno un vitalizio, certo, ma non hanno ricevuto un’istruzione adeguata e sono completamente impreparate ad affrontare il mondo. Come se non bastasse, la leggenda dice che l’uomo che sposa una Kumari è destinato a morire giovane.

copertina fazzoletti rossi

Le mestruazioni in Nepal

Nel maggio del 2019, alcune donne del villaggio nepalese di Ripi si ribellarono e rifiutarono di sottomettersi al rito mestruale della chapaudi. In che cosa consiste? Nelle zone rurali del Nepal occidentale, quando le donne hanno le mestruazioni sono considerate impure, quindi devono allontanarsi da casa e rinchiudersi in capanne primitive, spesso di fango e senza finestre, dove non possono lavarsi e non possono consumare carne o latticini, né usare coperte per scaldarsi. L’isolamento nel chaughot, come è chiamata la “capanna delle mestruazioni” inizia fin da giovanissime, anche a 13 anni, e significa dover restare da sole e al freddo, di notte e di giorno, senza poter prendere parte alla normale vita familiare.

È stato calcolato che ogni anno almeno una donna muore durante quei giorni, spesso asfissiata dopo aver acceso un fuoco per cercare di riscaldarsi. In un caso, una giovane morì morsa da un serpente. La chapaudi è stata dichiarata illegale più di una volta, eppure l’usanza prosegue. Non basta infatti la legge a cancellare la convinzione che le donne con le mestruazioni siano pericolose per la loro famiglia e che quindi isolarsi sia un modo per proteggerla. Se una donna che ha le mestruazioni tocca un uomo, per esempio, questo si ammalerà; se beve latte, la mucca non ne darà più; se attinge acqua dal pozzo, il pozzo si prosciugherà. Per ragioni analoghe, legate alla stessa visione del femminile come impuro, durante le mestruazioni le donne non possono andare al tempio o a scuola, e hanno il divieto di toccare gli uomini o di mangiare determinati alimenti.

Scaricate la scheda didattica Raccontare le mestruazioni, con i percorsi tematici e le attività da svolgere in classe.

Consultate la scheda del romanzo su LeggendoLeggendo, il sito per insegnanti, con altre proposte didattiche di approfondimento e le pagine del Diario di Camilla da scaricare gratuitamente.

Perché leggere “Fazzoletti rossi” a scuola:

  • Un libro che ha il coraggio di affrontare una tematica considerata tabù e di normalizzarla.
  • Una storia che parla di bullismo e sessismo a scuola.
  • Un inno all’amicizia tra ragazze che farà molto bene anche ai ragazzi

Come parlo di femminismo a mia figlia?

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“Mi consigliate un libro femminista per una dodicenne?”

Dobbiamo parlare di femminismo alle adolescenti. È fondamentale farlo negli anni in cui diventano donne e i dati sulla violenza di genere dimostrano che un’idea sbagliata della coppia e dell’amore può diventare pericolosa a un’età sempre più giovane. Decidere di parlare di femminismo alla propria figlia, però, è la parte facile. Quella difficile è capire come farlo, se non vogliamo rischiare di assomigliare alla madre di Lunatika in “Fazzoletti rossi”. Proporle manuali femministi, senza una richiesta esplicita da parte sua, è un po’ come proporle quel “vestito adorabile che ti starebbe così bene” e che di solito viene scartato per l’ultima cosa che avresti mai pensato che potesse piacerle.

Allora come fare? Come proporre il femminismo a nostra figlia senza commettere l’errore più comune e più fastidioso dei genitori, ossia pensare che per nostra figlia vada bene quello che noi riteniamo adatto a lei? Se le compriamo l’edizione riveduta e corretta del libro che a noi cambiò la vita alla sua età – e che inspiegabilmente abbiamo fatto una faticaccia a trovare in libreria nonostante siano passati solo… ecco, 30 anni dalla pubblicazione – e poi lo piazziamo in posizione strategica dove non può non vederlo, basterà?

Misurarsi con le esigenze di una figlia adolescente è un po’ come infilarsi un paio di jeans troppo stretti o presentarsi a una festa di tredicenni e cercare di fare la simpatica. L’unica alternativa al ridicolo è trattenere il fiato tutto il tempo necessario a non peggiorare le cose. Di solito più ti senti all’altezza della situazione, meno lo sei. La scelta, insomma, è fra diventare patetiche, sembrare inopportune e defilarsi sentendosi colpevolmente assenti.

Dove non arrivano i libri femministi, però, arriva l’esempio. E se abbiamo pensato di regalargliene uno, probabilmente tutto quello che nostra figlia ha bisogno di sapere sul ruolo delle donne ce l’ha davanti agli occhi ogni giorno. Se così non fosse, il problema è nostro, prima che suo. Ma non di soli esempi vive una figlia, e allora, che cosa le diciamo? Non basterà spiegarle che il corpo è suo e a lei e soltanto a lei deve piacere,  alle prime crisi per i chili di troppo. Non basterà dirle che può andare in giro vestita come le pare, e che le occhiate viscide al suo sedere sono un problema di chi le lancia, non suo, ma nel dubbio che tenga il cellulare a portata di mano e gridi “Al fuoco!” per essere sicura che qualcuno reagisca. Non basterà neanche dirle che quando si sentirà sbagliata molto probabilmente a esserlo sarà il mondo intorno a lei e quello che ha già deciso sul suo futuro al posto suo.

Non basterà perché sentirsi sbagliata e incompresa fa parte dell’adolescenza, a prescindere dall’essere donna. Rientra in quel bubbone confuso di negatività che ti scava dentro praticamente ogni giorno. Il lato più battagliero e rivendicativo del femminismo può tenerlo a bada e incastrarsi bene fra mood incazzosi e meme che mandano affanculo il mondo con un’alzata di spalle sfrontata, ma è davvero quello il femminismo che serve alle nostre figlie? Il femminismo aspirazionale e guerrigliero del girl power e delle magliette dove I’m a feminist assomiglia più al bisogno sacrosanto di una tribù che a una rivendicazione? Forse la risposta è sì, ma anche in quel caso, è per definizione un femminismo che non può essere servito su un  piattino d’argento dai genitori, non fosse altro perché incompatibile con ogni idea di autorità e di quotidiano. E soprattutto, se è infarcito di negatività e aggressività, non rischia di spegnersi come una candela al primo sospiro d’amore, ossia proprio quando nostra figlia ne avrà più bisogno?

Ci resta la sorellanza, ma quella la masticano già molto meglio di noi, ce l’hanno del dna, l’hanno imparata sui banchi di scuola e durante le eterne e intramontabili chiacchierate e l’hanno cementata scavalcando scazzi su WhatsApp che sembravano definitivi e non lo erano mai, per poi aggiungerci una spruzzata di hashtag e lustrini e canzoni e affetto sui social, che arrivano dove il resto si esaurisce.

Il femminismo che un genitore può proporre a un’adolescente non cancella, secondo me, sottolinea, è un inno all’essere donna. Una festa per ogni nuova curva e un invito a godersele, prima che a proteggerle. Un racconto per ogni mestruazione, per ogni dolore e ogni disagio, ogni ventotto giorni, non solo la prima volta. Il femminismo formato famiglia può abbattere tabù intorno al tavolo a cena, insegnare a punire le colpe, non le provocazioni. Può spiegare che la vita delle donne non è uno slalom fra le perversioni maschili, che la nostra forza non è una pezza per le mancanze altrui e la nostra presunta debolezza non è mai un invito o un permesso in bianco.

Il femminismo che un genitore può insegnare a una figlia si gioca più sul lato delle nostre paure che delle sue, ha più a che fare con i nostri tentativi di proteggerla che con la sua ansia di libertà, a volte dice di più dei nostri sbagli e del nostro desiderio di tornare giovani che del suo bisogno di crescere. L’adolescenza è ribelle per definizione e forse ogni tanto la cosa più femminista che possiamo dire a nostra figlia è: “Sì, è vero, hai ragione tu. O forse no. Ma se ne sei convinta, imparare a farti bastare la tua approvazione e il tuo permesso potrebbe essere la lezione più preziosa di cui avrai mai bisogno”.