Siate affamate, siate romantiche

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C’è un segreto ben custodito dietro il romanticismo dei romanzi d’amore, che eserciti di donne in un patto segreto e silenzioso, hanno fatto di tutto per non svelare.

Pensiamoci bene. Se i romanzi rosa fossero soltanto sospiri, emozioni a metà, ragazzuole ingenue in attesa del principe azzurro, non avrebbero conquistato una fetta così grande di mercato anno dopo anno. Non c’è nemmeno bisogno di essere femministe per affermarlo. Basta un po’ di buon senso. Perché tuffarsi fra le pagine per ritrovare una versione sminuita di noi stesse, dopo aver sospirato, sbuffato e smadonnato tutto il giorno? Che cosa ce ne facciamo di personaggi maschili convinti di occupare tutta la scena solo perché le donne glielo lasciano credere, quando ce l’abbiamo già seduto a tavola e dobbiamo pure ricordargli dove ha messo il telecomando? Insomma, superata una certa età, altro che l’amore non è bello se non è litigarello, basta il rutto libero tanto caro a Fantozzi a dare un’idea del genere di battaglie che ci si trova a combattere a volte pur di conservare un’ombra dei propri candidi sogni adolescenziali.

Il romanticismo dei romanzi rosa, in realtà, è un’altra cosa, è il sotterfugio di donne educate all’insegna della compostezza e della misura, è il nostro modo per inseguire e vivere quella follia che ci farebbe sembrare sconvenienti e irresponsabili, altrimenti. Agli uomini è concesso fare follie, loro non rischiano di essere tacciati di stregoneria o che gli si ricordi il proprio ciclo mestruale. La follia maschile è premiata con la definizione di genio, di coraggio, di audacia, non viene guardata con un misto di fastidio e paura. Noi donne non siamo altrettanto fortunate, la nostra follia ha connotati negativi e pericolosi, ma questo non significa che siamo disposte a rinunciarvi tanto facilmente. Ecco allora dove entrano in scena i romanzi rosa.

Per cominciare, sono a prova di censura: c’è sempre un uomo convinto di essere il senso di tutto, anche quando fa poco o niente e ha il carisma di un merluzzo sotto sale, in confronto alle protagoniste. Così, messo al riparo l’orgoglio e l’ego maschile, la donna sotto l’ombrello del romanticismo è libera di fare un po’ quel che le pare.

Il romanticismo delle storie d’amore non c’entra niente con gli uomini. Il romanticismo delle storie d’amore parla di noi, delle nostre emozioni, dei nostri desideri nascosti, delle mille donne diverse che avremmo potuto e voluto diventare, del piacere che non abbiamo il coraggio di chiedere, dei sogni che ci si agitano dentro cercando la strada per uscire, della ribellione silenziosa nascosta dietro i gesti di ogni giorno. I romanzi rosa sono un modo per sognare l’impossibile e continuare a crederci. Il romanticismo delle storie d’amore a volte è l’unica follia concessa alle donne, ha qualcosa di clandestino, a guardarlo bene, qualcosa di prepotente e liberatorio. Nasconde la forza di una ribellione dura a morire, anche sotto la polvere e la fatica del quotidiano. Avremo fatto molta strada, ma quando si tratta di essere folli continuiamo a inoltrarci in un terreno tutto maschile. La donna un po’ folle continua a essere considerata isterica, umorale, pericolosa, da isolare.

Eppure chi di noi non la sente e non continua a sentirla, quella irrequietezza che scorre sotto pelle, quel bisogno di andare oltre il presente e pretendere di più, quel grido che si spalanca dentro, la fame di egoismo, di tempo per se stesse, della libertà di essere quello che vogliamo davvero, senza piegarci alle aspettative e ai bisogni altrui. Quell’ansia di ribellione e la voglia di osare, di osare davvero. Non c’è da stupirsi che l’autolesionismo sia un fenomeno soprattutto femminile. È il buco nero che ci portiamo dentro, quel buco in cui abbiamo nascosto le tante facce del nostro modo di essere donne, che ogni tanto ci trascina dentro di sé.

Siamo folli, allora signore, siamo audaci. Smettiamo di chiamarlo solo romanticismo, cominciamo da qui, dall’amore e dal piacere, per poi avvitarci e lasciarci andare e scordarci di tutto e tornare su noi stesse cambiate, completamente diverse e sempre uguali, finalmente padrone della nostra follia. Perché sognare l’amore non sia più un’alternativa ai nostri sogni di ribellione, ma una sorta di prova generale, il primo passo verso una vita diversa.

Femminismo e letteratura: che cosa ci perdiamo noi donne?

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Foto di wiredforlego (CC)

C’è un elefante nella stanza della letteratura. Un elefante rosa.

È un elefante con tanti nomi diversi e tante sfaccettature diverse, un po’ romance, un po’ women’s fiction, un po’ storia d’amore, un po’ commedia romantica. A volte non si sa neanche bene come chiamarlo. E infatti se ne parla il meno possibile. Lui non se la prende, non tanto, anche perché con la sua mole occupa una porzione non indifferente delle librerie e degli incassi. Con una zampa sostiene il vacillante mondo dell’editoria, con l’altra sostiene il morale delle sue lettrici. Che questo gli chiedono, appunto. Di essere intrattenute, di sognare un po’, di evadere.

L’elefante rosa è lì per le sue lettrici (e anche per qualche lettore), non aspira a grandi premi letterari o a recensioni osannanti (è rosa, non è mica stupido). Sa qual è il suo compito e lo svolge, sereno. Domina le classifiche e se proprio qualcuno sentisse l’esigenza di criticarlo, è sempre pronto a tirare fuori un fazzoletto gigante e, come rispondeva Hitchcock ai suoi detrattori, piangere per tutta la strada fino alla banca.

Il mercato, certo, non sempre è letteratura, come dice Luigi Spagnol nel suo bellissimo post (di cui mi sono permessa di riecheggiare il titolo) ricco di dati e di spunti di riflessione; e se lui sfida chiunque a “definire in maniera soddisfacente in che cosa consista questa differenza” non sarò certo io a provarci.

Ma continuo a non spiegarmi il motivo per cui tante femministe nelle loro riflessioni girino intorno all’elefante fingendo che non esista o lanciandogli occhiate sdegnate e sospettose. Trovo irritante, per essere del tutto sincera, l’atteggiamento di superiorità con cui il femminismo ha quasi sempre liquidato il rosa, e quindi anche le migliaia di donne che lo leggono (e che, ricordiamolo, non leggono solo quello).  E non solo il rosa in senso stretto, ma in generale la letteratura d’evasione al femminile.

È proprio necessario continuare a considerarla roba da donnette, portando quindi avanti implicitamente l’idea che la donna, per farsi rispettare, debba rinunciare alle emozioni, fingere di non averne, giocare a fare la dura? Perché dietro quest’ansia di prendere le distanze da un certo tipo di letteratura al femminile non c’è quasi mai soltanto un giudizio di valore letterario. C’è il fastidio verso la donna sospirante e vittima delle emozioni, c’è la convinzione che la donna in ozio sia una donna passiva, superficiale, egoista e sostanzialmente inutile. In sottofondo, dietro questo atteggiamento sdegnoso, si coglie un’idea che di femminista ha poco e niente, ossia che la donna debba sempre mostrarsi impegnata in qualcosa, anche quando legge.

Paradossalmente, alcune femministe adottano nei confronti della women’s fiction lo stesso atteggiamento che in un recente post su Il Libraio Michela Murgia rimprovera – giustamente – all’universo culturale dei festival e dei premi, in cui “le autrici italiane sono quasi sempre intervistatrici o moderatrici, figure di spalla al servizio di un altro ospite. Se l’ospite principale sono loro, in genere è perché sono considerate esperte di tematiche percepite come legate al mondo femminile (femminicidio, femminismi, maternità…), oppure sono portatrici di storie personali sul filo del caso umano”.

Non è poi molto diverso da quello che succede anche ai romanzi d’amore, dove l’approvazione femminista arriva soltanto se sullo sfondo c’è, appunto, una tematica legata al mondo femminile o una storia personale sul filo del caso umano. Solo accanto a un tema drammatico, di provata serietà, l’intrattenimento femminile viene sdoganato e i sorrisetti beffardi si spengono.

Ma allora, a rischio di essere bersagliata da critiche feroci, un certo tipo di femminismo non sta forse commettendo lo stesso errore che in altri campi è così pronto a criticare? Perché tanto accanimento rispetto al rosa, perché tutta quest’ansia di prenderne le distanze? I romanzi d’amore in fondo insegnano a sognare, indicano la strada verso la felicità, ci riconciliano con noi stesse. Non lasciamoci fuorviare dal personaggio maschile, che il più delle volte è soltanto un premio finale, non un mezzo o uno strumento.

Accettare di includere la letteratura d’evasione femminile, intelligente e di qualità, in un discorso femminista significherebbe non solo ampliare il proprio orizzonte femminile di riferimento (quante donne non sono femministe perché non si sentono “all’altezza”, scoraggiate da certi atteggiamenti intransigenti), ma anche pretendere una letteratura libera da dominazioni e violenze più o meno camuffate. Significherebbe portare avanti una riflessione sulla necessità di rileggere e riformulare alcuni modelli dell’amore romantico, per intaccare stereotipi duri a morire.

I sospiri delle donne non sono inutili e superficiali come possono sembrare. Lo scriveva anche Soft Revolution, in un post coraggioso in cui elencava i motivi per cui vale la pena di leggere romanzi rosa (scritti bene). Alle spalle del successo del rosa c’è un esercito di donne molto più consapevoli, preparate e colte di quanto si pensi. È un peccato che un certo tipo di femminismo volti loro le spalle, che non impari a conoscerle, che si lasci spaventare dall’etichetta di romanticismo. Anche perché le donne che sospirano in realtà il più delle volte stanno solo prendendo fiato, per tornare a credere nei sogni e prepararsi a lottare.

 

 

Il rosa, questo sconosciuto

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È uno dei generi più letti e più bistrattati, e se ne parla male così di frequente che stupisce (o forse no?) che il più delle volte chi ne parla o ne scrive non abbia la più pallida idea di che cosa sia.

Perché chiamarlo rosa e non women’s fiction? scriveva su Facebook una commentatrice indignata dagli stereotipi e dalle accezioni negative legate alla letteratura femminile.

Semplice, perché sono due cose completamente diverse. Il rosa è un genere a sé, con regole ben definite, e se lo si conoscesse meglio, diventerebbe anche molto più facile spazzare via quegli odiosi pregiudizi per cui gran parte della letteratura scritta dalle donne viene classificata nel rosa, che lo sia davvero oppure no.

Ma quali sono queste regole? Eccole qui. E prima di storcere il naso, come spesso accade quando si parla di regole e letteratura, ricordiamoci che anche il giallo ha avuto le sue regole e che nulla vieta di provare a infrangerne qualcuna, ogni tanto, e stare a vedere che succede. Tutte tranne la regola numero uno.

  1. Il lieto fine, obbligatorio, imprescindibile, tutt’uno con la natura del rosa. L’unica regola che deve essere rispettata, sempre.
  1. L’amore contrastato dei due protagonisti. Contrastato da cosa? È proprio questo il bello. Più è originale e insormontabile l’impedimento, più interessante sarà la storia.
  1. La trama è portata avanti dalla relazione amorosa, che non può passare in secondo piano e non può essere una scusa per parlare d’altro. La vicenda sentimentale è l’argomento della storia, la risposta alla domanda: “Di che cosa parla il libro?”

Queste sono le tre regole fondamentali. Poi ovviamente se ne possono aggiungere molte altre, non sempre necessarie, più utili forse a chi scrive che a chi cerca strumenti per riconoscerlo: i protagonisti devono conoscersi nei primi capitoli; se c’è un personaggio negativo, deve redimersi entro la fine della storia; deve riuscire a far star bene chi legge; la protagonista cambia perché è l’amore a farla cambiare; i personaggi maschili devono riuscire ad accendere la fantasia; non sono ammessi tradimenti durante la vicenda; le protagoniste devono essere abbastanza credibili da far scattare l’identificazione…

Ma bastano le prime tre regole per riconoscere il genere, chiunque sia l’autore. Non è difficile, non è offensivo, non è discriminante, è semplicemente un genere. Se non piace, non è obbligatorio leggerlo. Se non lo si conosce, meglio non parlarne a sproposito. Perché solo così si potrà rendere davvero giustizia alla letteratura femminile, tutta la letteratura femminile, che si tratti di rosa, di women’s fiction o di un qualunque altro romanzo scritto da una donna.

E anche questo, che ve lo dico a fare, è femminismo rosa!

Ebook: è cambiato tutto perché non cambiasse niente?

Foto di Des Byrne
Foto di Des Byrne

Una mia conoscente da un po’ fa avanti e indietro fra un marito affidabile e noiosetto e un amante un po’ volgare e molto più giovane di lei. L’altro giorno la incontro e mi dice che è andata a ballare da sola. «Come da sola?» le ho chiesto stupita. «Da sola» mi ha risposto. «Con tutti gli uomini che ho. Perché non ce n’è, che siano zucche o peperoni, dopo un po’ diventano tutti uguali.»

Il commento mi è tornato in mente qualche giorno dopo mentre guardavo la classifica di Amazon dei romanzi rosa. Me la sono letta tutta, dalla prima alla centesima posizione, e continuavo a pensare: «Ma questa è l’edicola. L’edicola del digitale, ma pur sempre l’edicola. È tornato tutto come prima». C’erano gli Harmony di sempre, una sfilza di romanzi senza troppe pretese, qualche chicca inaspettata e qualche classico, capitato lì più per caso che per fortuna, proprio come una volta li si trovava in allegato al quotidiano.

Possibile? Davvero è cambiato tutto perché non cambiasse niente?

La rivoluzione del digitale, tanto gridare alla democrazia, al diritto di pubblicare, leggere a poco, sfondare limiti e pregiudizi, e tutto per ritrovarsi davanti un’altra versione della dicotomia scaffale/edicola?

Non starò qui a indagare le cause, non ne ho le competenze, ma se dovessi tirare a indovinare direi che è il risultato più logico di una politica di vendita che ha scimmiottato il cartaceo, con prezzi assurdamente alti per i titoli “da libreria”, offerte random e un abbassamento altrettanto assurdo dei prezzi sul fronte del self publishing e dell’Unlimited. Tanto che a farne le spese, almeno in termini di classifica, sono proprio le case editrici che nel digitale ci hanno creduto davvero e che l’hanno proposto e venduto come tale, con prezzi non bassissimi e non altissimi, quasi mai superiori ai 5 euro, e scelte editoriali innovative e anche rischiose.

Ma il futuro? Che cosa ci riserva?

La prossima volta che incrocio la mia amica sono curiosa di scoprire se alla fine ha optato per la versione più conosciuta e rassicurante o per quella più azzardata e meno elegante dell’universo maschile. Chissà mai che non ne tragga indicazioni preziose per il futuro del digitale. Prometto di tenervi aggiornati.

Nel frattempo, potremmo cominciare con lo smettere di dire che un libro è un libro e che digitale e cartaceo sono uguali. Non lo sono e non lo saranno mai e possono essere valorizzati solo a partire dalle rispettive differenze.

E sono pronta a scommettere che la mia amica, che non ha alcuna difficoltà a far convivere i due formati e legge in cartaceo in pubblico e in digitale in camera da letto, col cavolo che li trova uguali.

Anche se le raccontano sempre la stessa storia.

Se non sono principi non li vogliamo

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Non ho mai capito come si possa sostenere che le favole Disney, soprattutto quelle di un tempo, siano maschiliste.

Per cominciare, non c’è una sola protagonista che sappia fare i lavori di casa in modo decente. Biancaneve fa soltanto finta mentre dirige i poveri animaletti del bosco (fateci caso, lei non muove un dito), le fatine della Bella addormentata quando provano a mettere insieme una torta e a cucire un vestito combinano disastri di dimensioni epiche. E Cenerentola, be’, sui lavori domestici niente da dire, ma come sarta anche lei non era proprio un granché.

L’unica cosa che riesce bene un po’ a tutte è cantare. Più che aspiranti casalinghe, insomma, sembrano aspiranti cantanti pop.

Ma i principi… La parte migliore sono i principi. Guardateli bene. Dove li trovate degli uomini così realistici? Che prima ti baciano e poi ti chiedono come ti chiami, da soli non ne combinano una giusta e finché non arriva una donna (o tre fatine) non trovano manco le armi prima di uscire di casa. Le favole hanno preparato generazioni di bambine alla cruda realtà del lato inutile dell’universo maschile, diciamocelo. Per fortuna c’erano Peter Pan e Robin Hood a risollevare un po’ le sorti del sesso forte.

Chi sostiene che le favole Disney siano maschiliste cade in un equivoco molto simile a quello di chi dice altrettanto del rosa. Un equivoco molto maschile, peraltro. Ossia la convizione che tutto giri intorno agli uomini, solo perché ogni tanto si parla di loro e ce li si ritrova, più o meno abusivamente, in qualche sospiro.

Del resto, qualcuno ha mai creduto davvero che le donne vadano dal parrucchiere per piacere agli uomini? Quando è scientificamente dimostrato che non se ne accorgono e che le poche volte in cui lo fanno non ci capiscono niente? Nossignori, le donne vanno dal parrucchiere per piacere alle altre donne. Proprio come leggono rosa per sognare e dettare le proprie regole. Quindi che cosa cambia se la principessa in questione vuole aprire un ristorante o tirare con l’arco o andare a una festa con il principe? L’importante è che abbia un sogno e che non smetta di provare a realizzarlo finché non c’è riuscita.

Con il rosa non è molto diverso. Gli uomini del rosa sono pura fantasia. Nessuno crederà mai che da qualche parte si aggirino adoni romantici, intelligenti, tartarugati, sensibili, premurosi, coraggiosi e già che ci siamo anche bravi in cucina. Roba che una alza gli occhi dall’ereader e guarda l’altra metà del letto e si chiede dove ha sbagliato. No. Gli uomini del rosa non esistono, sono solo sogni travestiti. Meno realistici ancora dei principi delle favole. Quindi che cosa c’è di male a inseguirli, quando in realtà quello che stiamo inseguendo sono i nostri sogni. Quello che vuole davvero chi legge rosa è diventare protagonista della propria vita.

E ditemi voi se esiste un argomento più femminista di questo.

Scusi, vuol ballare con me?

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L’altro giorno la mia vicina aveva la radio a tutto volume e canticchiava Tu vuo’ fa’ l’americano. Era domenica mattina e confesso che ho avuto uno dei miei momenti da emigrante nostalgica (sul genere la casa dov’è?) e sono rimasta ad ascoltarla. A un certo punto però mi sono dimenticata della canzone e ho ascoltato solo la vicina. Perché cantava con allegria, con una punta di malizia, perfino, come se non stesse cucinando il pesce fritto alle nove di domenica mattina (eh, sì, non ditelo a me…), ma si stesse preparando per uscire un sabato sera.

Quella non era la stessa vicina che un giorno mi ha suonato arrabbiatissima perché un vaso rischiava di caderle sul terrazzo e neanche la stessa che mi guarda sempre con sospetto perché non sono nata qui. E chi se lo immaginava che dentro la vicina, dentro quella signora anziana dall’aria un po’ tignosa che va ogni sabato a farsi fare la messinpiega, fosse rimasta intrappolata una ragazza di sedici anni che aspetta solo di andare a ballare? E chissà se quella ragazza di sedici anni se lo immaginava che alla fine, anche dopo aver trovato marito, averlo perso, avere avuto dei figli e averli visti andar via, quella ragazza di sedici anni sarebbe stata ancora lì, sempre uguale? Con la stessa identica voglia di ballare. Che non sarebbero bastati tutti i mariti e i figli del mondo a fargliela passare.

Ecco, il rosa secondo me è femminista anche per questo, perché riporta in vita la ragazza di sedici anni che abbiamo dentro, tutte quante. Quella che balla solo per se stessa, affamata di emozioni, che forse pensa di andare alla ricerca dell’uomo della sua vita e di voler mettere su famiglia, ma in realtà vuole soltanto qualcuno che la faccia ballare finché non le reggono più le gambe. E anche dopo. Almeno finché non rischia di far bruciare il pesce fritto.

E allora che cosa c’è di più femminista di una penna rosa che ci prende per mano e ci fa ballare? Che ci aiuta a chiudere gli occhi e riscoprire noi stesse, quello che eravamo quando eravamo soltanto noi stesse, quel desiderio che parla di noi, che poi è lo stesso desiderio di chiudere gli occhi e saltare, di dimenticare tutto e tuffarsi.

Quante cose saremmo capaci di fare, se tornassimo più spesso a essere quelle sedicenni? Se ogni tanto mandassimo al diavolo i mariti e i figli e anche il gatto e il pesce fritto, per metterci a ballare Tu vuo’ fa’ l’americano sulla terrazza? Se assomigliassimo di più a noi stesse?

«Devi scrivere la mia storia!»

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Sarà perché non capiscono bene che cavolo scrivo (si veda qui) o perché, più probabilmente, pensano che per scriverlo serva sostanzialmente un computer e non avere un cavolo da fare (si veda qui), ma un’altra delle cose che mi succedono quando dico che scrivo storie sentimentali è che salta sempre su qualcuno insistendo che devo scrivere la sua storia. La sua storia d’amore, ovviamente. Sono pronta a scommettere che ai giallisti queste cose non succedono.

Per capirci, identikit tipo della persona che me lo dice: donna, lavoro serio serissimo (mica come scrivere romanzi rosa, insomma), intelligente, realizzata, con marito e figli, e una storia d’amore appassionata alle spalle che se è rimasta alle spalle qualche motivo ci sarà, ma si sa che la memoria fa più miracoli di un chirurgo plastico.

Ogni tanto in questi casi ho il sospetto di essere l’equivalente di un corso di scrittura creativa. Dei sentimenti, però. Avete presente tutte quelle persone che per mettersi a scrivere un romanzo la voglia e il tempo non li trovano, ma per andare a un corso di scrittura creativa sì? Un po’ come andare dal dietologo perché non vogliamo smettere di mangiare o andare da un consulente matrimoniale perché siamo troppo pigri per fare sesso.

Non voglio dire che quelle storie d’amore non fossero belle, molte lo erano e qualche cosa ho anche rubacchiato qua e là, confesso, ma era l’insistenza a essere un po’ sospetta. La generosità, quella vera, non è insistente. Mi sembrava strano che quelle persone fossero davvero così preoccupate per il mio traballante futuro di scrittrice rosa (qualcuna fra l’altro non la conoscevo neanche, era amica di un’amica). In realtà, quello di cui avevano davvero bisogno era portare un po’ di magia nella loro vita, vederla da una prospettiva diversa, sentirsi speciali. (In quest’ottica, mi rendo conto, per quelle persone, più che a un corso di scrittura creativa assomiglio a un selfie…)

Certo, avevano trascurato un piccolo dettaglio, ossia che per scrivere una storia non basta trascrivere le esperienze altrui. E questa è sempre la parte che mi dà un po’ sui nervi, non ammettere che scrivere storie rosa sia un mestiere. In fondo, posso anche capire che per un’avvocatessa e un medico impegnati a ricucire le vite altrui scrivere storielle rosa sia un passatempo romantico e un po’ rétro, come prendersi cura delle aiuole.

Poi però salta fuori, ironia della vita, che anche la vita di un medico e di un’avvocatessa ogni tanto ha bisogno di una ricucita e che una storia romantica può fare più miracoli di un antidepressivo e di un buon accordo sugli alimenti.

La pezza rosa, insomma, ha il suo perché, anche se nessuno è disposto ad ammetterlo.