Quello che ogni genitore vorrebbe sapere su TikTok (e non ha mai osato chiedere)

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Foto di Kirill Averianov da Pixabay

“Sarà sicuro?” è la domanda che ci poniamo davanti alle richieste social dei figli preadolescenti. “Mia figlia ha dodici anni e vuole installarsi Instagram, ma sarà sicuro?” ci chiediamo, chattando da un cellulare che usiamo come macchina fotografica con sveglia incorporata, mentre la figlia in questione lo usa per trovare informazioni, confrontarle, editarle e condividerle nel tempo che noi impieghiamo a decidere se qual è si scrive con l’apostrofo. La stessa figlia che forse non si porrà il problema sicurezza, ma che sa benissimo come filtrare i suoi contatti social con precisione chirurgica, a cominciare dalla madre. “Io controllo sempre il profilo Instagram di mia figlia, ci mancherebbe altro” mi ha detto un’amica. “Il profilo?” avrei voluto risponderle. “Quale, dei cinque che ha?”

“Allora facciamo così, vado in negozio e scatto una foto e te la mando e tu mi dici se ti piace” ho proposto a mia figlia, non senza sentirmi molto moderna. “Aspetta” mi ha risposto lei dall’altro angolo del divano. E dieci secondi dopo mi ha mandato le foto della maglietta che voleva, con il prezzo, la taglia, indirizzo e orario di apertura del negozio, scorte restanti e canzone preferita della commessa e un cuore rosso con la scritta “Graxx!!! Anche nera plis”.

Una delle ragioni per cui ho scritto “Fazzoletti rossi” è stata provare a capire TikTok. E c’è qualcosa di teneramente patetico in una generazione come la mia, cresciuta a colpi di “cogli l’attimo” e “nessuno può mettere Baby in un angolo”, e tutto il campionario di sfrontatezza ribelle da Roxy Bar, che adesso si ritrova alle prese con una generazione cresciuta a biberon di consapevolezza e rivendicazioni, per cui cogliere l’attimo è semplicemente assurdo, perché loro sono l’attimo, e la ribellione va bene sulle magliette ma non li rende più liberi di quanto non siano già. Guardano Facebook con la curiosità con cui guarderebbero un mucchio di vecchie riviste ingiallite, sono già oltre Instagram, che usano solo per le storie, sono precipitati nel flusso di TikTok e chissà in quanti altri social che ignoro e di cui scoprirò l’esistenza solo quando saranno diventati troppo vecchi per loro.

“Che scemenze” non posso fare a meno di commentare ogni volta che guardo TikTok. Certo che sono scemenze, lo sanno anche loro, non abbiamo cresciuto un esercito di decerebrati, su questo possiamo rassicurarci, è cazzeggio puro e dichiarato. Solo che noi cerchiamo significati a priori, abbiamo bisogno di agganciarci a quel che riteniamo importante, di usare punti fermi di senso per orientarci, loro no. E non perché siano privi di valori, come sostengono praticamente tutte le generazioni di quelle che vengono dopo, ma perché il significato delle cose è fare le cose, non può esistere a priori, si manifesta e si crea nell’azione stessa, come nei videogiochi. Non esiste un sistema di valori esterno o precedente al videogioco, e se esistesse, probabilmente sarebbe ingannevole e poco affidabile. L’etica di un videogioco emerge dalle scelte che sei portato a fare, dalle conseguenze delle sue regole nel corso della partita, dagli obiettivi che ti prefiggi e dalle strategie per conseguirli. Non è una dichiarazione di principi, è il principio di una dichiarazione.

Possiamo gridare ai nostri figli quanto vogliamo che dovrebbero pensare a cose più serie, ma è un po’ come dire loro di imparare a nuotare prima di azzardarsi a mettere un piede in acqua. Loro non imparano le cose importanti, lasciano che prendano forma mentre fanno tutt’altro, le scoprono per caso e soprattutto hanno imparato che non devono sembrare importanti, per esserlo davvero. Anzi, che il modo più sicuro per trovare qualcosa di serio e importante è rifuggire da tutto ciò che sostiene di esserlo. Del resto, sfido chiunque a guardarsi attorno e dire che hanno torto.

È una generazione dall’identità fluida, che scorre da una performance collettiva all’altra, che si nutre di hashtag e si lascia orientare e influenzare dagli algoritmi, gli influencer orwelliani del futuro. Ecco allora che in un mondo in cui plasmarsi sui contenuti altrui ti definisce, non per imitazione o per bisogno di omologazione, ma come attività ludica e creativa, come nuova modalità di relazione con un contesto sociale e social sfuggente, senza mappe e confini, il cyber bullismo va oltre le molestie e l’abuso. Non si tratta di una rete esterna a te che ti intrappola fra insulti e bugie, quel collettivo virtuale diventato improvvisamente ostile non è altro da te, quel collettivo sei tu. Non puoi ignorarlo, non puoi decidere che non ti interessa e passare oltre, perché per farlo devi prima cancellarti e diventare invisibile.

Siamo troppo pesanti per seguire gli adolescenti di oggi, non ci solleviamo abbastanza da terra, ci tiriamo dietro il peso delle nostre paure e della fatica che ci è costata sognare e di tutti gli sforzi che facciamo per non sembrare vecchi. Forse un giorno succederà anche a loro, un giorno scopriranno che sognare costa fatica e quanto è facile perdere tutto e quanto è rischioso navigare a vista. Fino a quel momento, si spostano liberi in un orizzonte in cui i punti di riferimento sono diventati utili come un faro in pieno giorno. Noi allontaniamo lo schermo del cellulare per riuscire a mettere a fuoco i meme che ci mostrano, loro a cinque anni scoprivano dal tg che la webcam può registrare a tua insaputa. Noi li avvertiamo che la ragazzina così simpatica con cui sta chattando potrebbe essere un cinquantenne che un giorno si inventerà un complesso sulle proprie tette inesistenti per convincerla a sollevarsi la maglietta, per loro l’identità della persona dall’altra parte si definisce in termini di popolarità, hashtag, effetti e canzoni, non di autenticità, e se si alzeranno o meno la maglietta dipenderà da tutto quello che abbiamo insegnato loro sulla vita, non sui social.

Stiamo scaricando le colpe degli adulti sul linguaggio usato dagli adolescenti. Dovremmo parlare meno dei pericoli dei social e di più dei pericoli per i social. Se TikTok è il “paradiso dei pedofili” il problema sono i pedofili, non le ragazze che decidono come divertirsi; se un cinquantenne si spaccia per dodicenne per convincere una ragazzina a spogliarsi dovremmo prendercela con il cinquantenne, non con il mezzo che glielo rende possibile. La mia infanzia era tempestata dai racconti di uomini che ti aprivano l’impermeabile davanti per mostrarti quel che avevano fra le gambe, eppure nessuno mai pensato di ritirare gli impermeabili dal commercio. Ecco allora che cosa ho capito di TikTok scrivendo “Fazzoletti rossi”: che non lo capirò mai. E che va bene così.

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Regala un romanzo d’amore a un uomo. I consigli dei gruppi di lettori

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Regaliamo libri d’amore a uomini e ragazzi, sì, ma quali?

Ho chiesto consiglio a due gruppi di lettura su Facebook, Leggo letteratura contemporanea e Sto leggendo questo libro, che ringrazio di cuore per i loro suggerimenti.

Ecco allora una lista, per iniziare (se avete altri titoli da consigliare, potete scriverli nei commenti):

Ciao, tu. Indovinami, scoprimi, sappimi, di Beatrice Masini e Roberto Piumini (da 13 anni)

Amorevolissimamente, di Geert De Kockere (da 13 anni)

Le ragazze non hanno paura, di Alessandro Ferrari (dai 12 anni)

– In scena!, di Raina Telgemeier (dai 9 anni)

– Ogni stella lo stesso desiderio, di Laura Bonalumi (dai 12 anni)

Un amore incosciente, di Olivia Crosio (dagli 11 anni)

– Twilight, di Stephenie Meyer

– Divergent, di Veronica Roth (da 13 anni)

L’amore t’attende, di Fabian Negrin (dai 16 anni)

– Bianca come il latte, rossa come il sangue, di Alessandro d’Avenia

– Non è mai troppo tardi, di Valentina Naselli

– La teoria imperfetta dell’amore, di Julie Buxbaum

– Chiamami col tuo nome, di André Aciman

– Il diavolo in corpo, di Raymond Radiguet

– L’uomo che credeva di non avere più tempo, di Guillaume Musso

– Ogni giorno, di David Levithan

– Una passione tranquilla, di Helen Simonson

– Io prima di te, di Jojo Moyes

– Lezione di tango, di Sveva Casati Modignani

– Ci vediamo un giorno di questi, di Federica Bosco

– Il diario di Adamo ed Eva, di Mark Twain

Orgoglio e pregiudizio, di Jane Austen

– Tre camere a Manhattan, di Georges Simenon

 

Buone letture!

Dieci cose da non fare se vuoi promuovere il tuo libro sui social

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1. Non promuovere, informa chi ti segue. Il tuo scopo come scrittore è crearti un pubblico, non vendere copie. Per quello ci sono i librai, che lo sanno fare meglio di te.

2. Abbi la serenità di accettare le recensioni negative che non puoi cambiare, il coraggio di cambiare i difetti che puoi migliorare e la saggezza per conoscere la differenza.

3. Se qualcuno chiede un consiglio su un libro da leggere non suggerire il tuo con entusiasmo e con tanto di link per l’acquisto. È un po’ come raccontare una barzelletta e scoppiare a ridere da solo.

4. Non taggare cento persone inconsapevoli all’uscita del tuo libro. Neanche cinquanta o venti. Neanche una.

5. Non mandare messaggi privati per fare promozione. Hai presente quando ti squilla il telefono e tu stai facendo il bagno a tuo figlio e corri fuori sgocciolando ovunque e arrivi alla cornetta un istante prima che mettano giù e rispondi ed è un call center che vuole venderti un’assicurazione? Ecco.

6. Usa i social per fare quello che ti riesce meglio. Se sai raccontare, racconta. Se sai fotografare fotografa. Se sai lamentarti, fallo davanti allo specchio del bagno.

7. Evita le polemiche. Suonano sempre più infantili e fastidiose ti quanto ti sembrava mentre le scrivevi.

8. Ricordati che la collaborazione porta più lontano dell’invidia. E rende tutto più divertente. Se vuoi essere letto, leggi. Se vuoi essere consigliato, consiglia. Se vuoi essere sostenuto, sostieni. I libri dalle classifiche prima o poi escono, le amicizie sincere dalla tua vita no.

9. Segui le persone perché ti interessano, non per interesse. Si nota, la differenza, si nota.

10. Tratta il lettore tuo come te stesso.

Come sopravvivere agli hater

Decidere di scrivere un post sulle mamme dei maschi e poi pubblicarlo in un gruppo Facebook dedicato alle mamme è un po’ come cospargersi di miele ed entrare nella gabbia degli orsi. Ci si aspetta di essere criticate, che ti facciano presente che non sono mica tutte così o che anche le mamme delle femmine non scherzano. Quello che non mi aspettavo era che gli attacchi diventassero tanto personali e violenti. “Ma chi è questa?” è una delle cose più carine che mi hanno scritto, roba che subito dopo ti aspetti di leggere un “che l’aspetto sotto casa”…

Questa è  stata la prima cosa che non mi aspettavo.

La seconda è stato l’effetto che ha avuto su di me. Quando gestisci un blog che parla di femminismo rosa, alle critiche finisci per fare il callo, per forza. Se poi ogni tanto pubblichi i tuoi post nei gruppi femministi, dove come è noto rischi la vita se sbagli una desinenza, allora puoi dire di avere il master. Finora però non avevo mai suscitato tanta rabbia. Passo un sacco di tempo sui social, conosco troll e hater e so come bisognerebbe gestire una discussione. Eppure quella rabbia mi aveva piantato dentro un malessere inatteso, una sorta di timore misto a imbarazzo. Il timore di chi si accorge di essere finito nella posizione della vittima e l’imbarazzo di chi sa quanto sia assurdo prendersela tanto.

Come mai i commenti rabbiosi e gli attacchi in un luogo impersonale come Facebook arrivano tanto in profondità? E questo nonostante io non sia più una ragazzina e abbia una vita personale quasi del tutto scollegata dai social, a differenza delle adolescenti che si trovano in posizioni simili e che sui social hanno il riflesso della loro vita scolastica e sociale. Il mio primo pensiero, lo confesso, è andato al giornalista della BBC e a sua moglie, che avevano visto la propria casa e le figlie, ciò che di più privato esiste, diventare virale e oggetto di commenti poco lusinghieri. Poi ho cercato qualche risposta e qualche strumento utile per il futuro.

Era l’anonimato di quei commenti a renderli così disturbanti. Una forma di anonimato però ben diversa da quella delle telefonate anonime. Qui la persona che se la prendeva con me ci metteva la faccia e il nome, anche se la faccia poteva essere un campo di fiori (o il viso del figlio di pochi mesi) e il nome poteva essere fasullo (o un po’ spiazzante, come accade in quei profili di coppie inseparabili che scelgono di chiamarsi Famiglia Chiara e Mario Rossi, in cui mancano solo la suocera e il cane). È una forma di anonimato che ti obbliga a metterci del tuo, a esercitare la fantasia, a fare la tua parte riempiendo i buchi e colmando le lacune, il che significa che il risultato finale, così come si è formato nella tua testa, ti assomiglierà molto di più di quanto non ti assomigli quella persona nella vita reale. Avrà più a che fare con te. E ti arriverà molto più vicina, perché la maggior parte del lavoro l’hai già fatta tu.

La forza di quei commenti è anche la loro debolezza. In realtà sono commenti pigri, che richiedono uno sforzo minimo, neanche quello di alzare la cornetta e comporre il numero. Sono commenti vigliacchi e passeggeri, che spesso chi lascia dimentica pochi minuti dopo, a differenza di chi li legge. Nel giorno della querelle materna ho ricevuto anche molti messaggi privati solidali, alcune persone mi hanno ringraziato per aver sollevato la questione, eppure quando mi connettevo ai social non potevo fare a meno di provare una sorta di ansia, di disagio. Finché non ho capito che quei commenti non solo erano fragili, ma erano alimentati dal mio stesso disagio, proprio come la rabbia che li muoveva era alimentata dal loro. Non il disagio per quel che avevo scritto, sia chiaro, ma per il potere che avevo attribuito a quei commenti e  a quelle voci pigre e passeggere. È bastato parlarne, gridare che il re era nudo, perché il disagio svanisse.

I social sono il regno della condivisione, c’è chi arriva a condividere i propri segreti più intimi. La vergogna però non è un segreto facile da condividere, non è facile neanche parlarne. Eppure nell’istante in cui lo facciamo, come per magia, scompare.

Non è un problema solo adolescenziale, allora, ci riguarda tutti. Siamo saliti sulla macchina dei social come su un treno in corsa, senza preoccuparci di rallentare o di scoprire come manovrarlo. E senza capire che alla guida di quel treno c’eravamo noi. Il segreto contro gli hater non è bannare, non è neanche il silenzio, non basta. Il segreto è spegnere la loro voce nella nostra testa,  è riprendersi l’unico potere che hanno quei commenti, che è quello che gli abbiamo attribuito noi.


Cercasi maggiordomo per posizione vacante nell’editoria

 

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Foto Matt Stratton (CC)

La colpa è dei troppi libri. Dei pochi lettori. Delle multinazionali. Della letteratura di qualità mediocre. Dei libri dei calciatori. Dei libri dei premi Strega che non ci capisce un accidenti nessuno. La colpa è dei libri di Volo. La colpa è degli editori. Dei videogiochi. Della scuola. Dei social. La colpa è delle offerte a tappeto. Dell’Unlimited. Dei libri piratati.

Che sollievo sarebbe avere un maggiordomo anche nell’editoria, a cui affibbiare la colpa una volta per tutte. Sono certa che si assumerebbe la colpa con stoicismo e aplomb, salvo poi sussurrare che in quella casa non si leggeva abbastanza da molto prima che lui arrivasse.

Mio figlio non mi legge abbastanza. Come quelle mamme all’uscita di scuola, che quando entrano in biblioteca minacciano il figlio di scegliere un “libro vero”, niente fumetti, per favore. Mio figlio non mi legge abbastanza, ti dicono, con lo stesso tono preoccupato con cui misuravano i grammi di spinaci e carote assunti dal virgulto. Carote biologiche, ovviamente, non importa se costano un occhio della testa, tanto le compro solo per mio figlio. Io mi scaldo una pizza mentre controllo il cellulare. Sono troppo stanca.

Ecco, dimenticavo. La colpa è del cattivo esempio. La colpa è della mamma. Non è sempre colpa della mamma, quando il maggiordomo è irreperibile? La mamma che compra i libri, ma con moderazione, che costano un occhio della testa e in un’ora ha già finito di leggerlo, e non è che le si possa dare torto. Ha già speso tutto per le carote biologiche. E poi è pieno di libri gratis sul Kindle, anche per ragazzi, che cominci a leggersi un po’ quelli.

Non è vero che il libro è troppo caro. Hanno speso di più quando sono andati a fare colazione fuori, quel mattino. O per la cioccolata del pomeriggio. Il problema è che per un certo tipo di intrattenimento non si spende più, non ci si sente più autorizzati a spendere. Libri. Musica. Film. L’accessibilità  ha la meglio sulla qualità e non è neanche questione di prezzo, non cambia poi tanto che un libro costi 16 euro o 2,99, l’unica discriminante che conta è fra quello che si paga e quello che è gratis, e se possibile anche legale. Con un po’ di fortuna, probabilmente, fra qualche anno conosceremo tutti i classici a menadito.

Quale sia la strada da seguire, non lo so. Probabilmente la strategia vincente resta quella di Ryanair: il volo è quasi gratis, ma se vuoi anche salire a bordo devi pagare un extra. Sarà questa la logica dietro il grande annuncio del Salone del Libro di Torino? Patti Smith varrà bene un posto extralarge e uno speedy boarding. Parola di maggiordomo.

 

I social ci stanno trasformando tutti in tanti Narcisi?

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Foto di Gabriel Garcia Marengo (CC)

Trolls, haters, rompicoglioni, chiamateli un po’ come volete. Sono quei commentatori social che nelle migliori delle ipotesi provocano, stuzzicano, irritano più di un maglione di lana sulla pelle nuda, e nella peggiore ti insultano apertamente con una violenza spropositata, nonostante sia la prima volta che li senti nominare.

Quale che sia il caso, sono diventata bravissima a riconoscerli e a bannarli all’istante. “Credi proprio di sapere tutto…” Bannato. “Sappi che non fa ridere per niente.” Bannato. “Se proprio vuoi saperlo…” Bannato. “Non è il caso di usare questo tono…” Bannato. “Pensi di essere spiritosa?” Bannato. Bannato. Bannato.

Ci sono giorni in cui è pioggia di ban e devo ammettere che ne vado molto fiera. Non sono caduta nella trappola più temuta dei social. Un giorno in più al riparo dalle polemiche e dagli sprechi di parole e di energie. La mia bacheca è sempre più civile e pacata, le voci che vi si alternano sono sempre più interessanti e simili alla mia, in un certo senso. Ho una bacheca personalizzata. Sono social, sì, molto social. Ma con prudenza.

Urca.

In pratica, a ben pensarci, la mia bacheca assomiglia sempre di più alla mia homepage di Amazon. Agli annunci pubblicitari di Google. Al barattolo della Nutella con sopra il mio nome! Ci sono momenti in cui apro un bookstore digitale a caso e inizio a temere seriamente che non riuscirò mai più a leggere qualcosa che non assomigli a quello che ho già letto. Sono diventata una versione vivente del telefono senza fili. Tu dici una cosa e ne capiscono un’altra e un’altra ancora e alla fine chissà che cosa salta fuori, ma il nesso c’è. C’è sempre un nesso. Un nesso che ci lega stretti stretti ai nostri vizi, alle nostre abitudini, a quello che conosciamo bene, impedendoci di evadere. Anzi, ancora peggio, illudendoci di evadere ma riportandoci sempre vicini a noi stessi. O almeno alla parte più calda, comoda, un po’ sformata e stantia ma rassicurante, di noi stessi.

La possibilità di bannare, lasciare recensioni negative, dire se un libro ti è piaciuto, se in quella stanza d’albergo il materasso è comodo, se il cameriere di quel ristorante è villano è uno strumento prezioso e praticamente indispensabile, nell’oceano indiscriminato del web. Ma forse stiamo perdendo la capacità di confrontarci con quello che non ci piace. Di scendere a compromessi, di accettare il diverso, di misurarci – non per interesse, per convinzione o per curiosità, ma per pura necessità – con quello che non ci appartiene e non ci assomiglia.

Stiamo diventando eremiti social. E non perché stiamo chiusi tutti in casa davanti al computer, ma perché ci stiamo abituando a vivere in un gioco di specchi elaborato e affascinante e ricco di possibilità, ma che ci assomiglia troppo, ogni giorno di più.

Il problema allora non è che andiamo tutti in giro con gli occhi incollati allo schermo del cellulare. Il problema è che non abbiamo più bisogno di confrontarci con gli altri, di accettarli, di dialogarci. Fare la spesa on line, lavorare da casa, trascorrere il viaggio in treno con gli occhi fissi sul cellulare non ci rende più soli. Ma rischia di renderci sempre più diffidenti verso il diverso, sempre più radicali, intransigenti, insofferenti. Io ho conosciuto persone meravigliose attraverso i social, le ho conosciute prima in rete e poi di persona e in molti casi ne sono nate delle amicizie sincere. Inizio però a chiedermi se vivere tanta parte delle mie giornate in un mondo in cui quasi tutti hanno le mie stesse opinioni politiche (Avresti votato Trump? Fuori), i miei stessi gusti letterari e in qualche caso anche musicali non abbia un prezzo. Un prezzo che ora mi sfugge, probabilmente, e che adesso come adesso sono anche disposta a pagare.

Il prezzo, forse, che si paga quando si lascia che il mondo diventi un riflesso di sé e prima o poi non si riesce a resistere alla tentazione e ci si affoga dentro, come tanti Narcisi social. Sempre se non saremo così rapidi da bannare prima noi stessi.

Come farsi lasciare in dieci post

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Foto mkhmarketing (CC)

1. Tirare fuori a ogni piè sospinto le vecchie fotografie.

2. Ripetergli ogni mattina che “per te è importante”.

3. Ricordargli quello che ti diceva un anno fa.

4. Chiedergli con insistenza dove ha studiato.

5. Obbligarlo a vedere video assurdi fatti da te con le foto più imbarazzanti che abbia mai scattato.

6. Raccontare a tutti i suoi amici che è sano e salvo subito dopo un tifone in Birmania, quando lui era stato lì un mese prima e solo in attesa del volo successivo.

7. Sapere quello che gli piace prima di lui.

8. Ricordargli i compleanni di TUTTI i suoi amici e parenti, compresi quelli che non vede più da decenni.

9. Dirgli che c’è una cyclette in offerta solo perché si è lasciato sfuggire di aver messo su un paio di chili.

10. Chiedergli che cosa sta pensando.