
L’emancipazione femminile è una cosa fantastica. Un po’ come l’aprifacile.
All’inizio ci credi e senti di far parte di un mondo meraviglioso e molto evoluto, anche se poi perdi un canino per aprire la scatoletta di tonno. I più furbi lo sanno, quando leggono aprifacile si procurano un machete e si prendono mezza giornata libera, ma quando sei ancora giovane e ingenua all’aprifacile ci credi. E poi ti senti terribilmente in colpa perché con te non ha funzionato. Non ci sei riuscita, se un disastro, neanche con l’aprifacile sei capace. Tutto il resto del mondo sì, loro aprono le buste di mozzarella con il mignolo mentre con l’altra mano stendono piani aziendali o scrivono capolavori, e tu hai perso almeno un quarto d’ora, usato tutte e due le mani, ti sei fatta la doccia con l’acqua della mozzarella e detto parolacce che non ricordi bene ma non importa, perché i tuoi figli le hanno già imparate tutte a memoria.
Ecco, con l’emancipazione femminile funziona più o meno allo stesso modo. È tutto molto bello e civilizzato e ci fa sentire persone migliori. Finché non scopri che era una grande presa per il culo. E che ti puoi emancipare, certo che puoi. Puoi partire bene e arrivare subito sulla casella in cui hai genitori abbastanza moderni da pensare che una ragazza deve studiare quello che vuole e finché vuole. Puoi aspettare tre turni e avere la fortuna/intelligenza/pazienza di trovare il compagno giusto, che ti rispetta e che crede in te abbastanza da lasciarti gli spazi di cui hai bisogno. Puoi finire sull’oca e moltiplicarti con tanti piccoli pargoli quanti sono i punti del dado. Puoi cascare sulla casella del ponte e decidere con il tuo compagno che i compiti vanno distribuiti in modo paritario e lui darà il biberon al piccolo in modo che tu possa andare al lavoro (“Non vuoi allattarlo? Ma sei sicura? Non ti sembra egoista?” “Sei sicura di avere bisogno di dormire?” “E allora perché l’hai fatto, scusa, un figlio?”) e sarà presente nel gruppo whatsapp di classe al posto tuo (“Oh oh, ma c’è un papà fra noi, che onore!” “Dovremo stare attente a non parlare male degli uomini.” “Ih ih ih.” – segue serie di emoticon a caso – “Carissimo, promettiamo di non disturbarti se non è indispensabile.” “Se vuoi uscire dal gruppo nessun problema, ti mando un privato per le cose più importanti.” “Di’ a tua moglie che non mangiamo mica, eh…”).
Ma la verità è che prima o poi finirai sulla casella dello scheletro e dovrai tornare a quella di partenza. La verità è che prima o poi ti troverai davanti un uomo che ti considera una presuntuosa arrogante solo perché sei convinta di poter valere qualcosa sul lavoro; prima o poi ti troverai davanti una donna che ti dirà che sei un’egoista e una madre orribile e che dovresti ringraziare tuo marito che ti permette di lavorare e che non è modo, ridurre un uomo a fare da governante in casa propria. La verità è che te ne troverai davanti non una, non dieci, ma cento di queste persone. E ogni volta dovrai ricominciare da capo.
Quando si parla di emancipazione femminile si parla sempre di discriminazione aziendale, di politiche salariali diverse, di permessi di maternità, di colloqui in cui ti chiedono le ovaie in cambio di un posto di lavoro e part time che ti permettono di andare a prendere tuo figlio a scuola e scordarti di avere una carriera. Tutta questa parte la sapevo. A questo ero preparata.
Quello a cui non ero preparata era dovermi difendere dalla macellaia che quando vado a fare la spesa mi guarda sogghignando (“Oggi tocca a te e non a tuo marito, eh, finita la pacchia”), a un asilo nido in cui l’adattamento dura cinque mesi e in cui quando tu te ne vai l’aula è ancora piena di genitori e di tette e di mamme amorose, mica come te. Non ero preparata a dovermi giustificare perché lascio mio figlio in mensa (“Ma tu non lavori a casa?”) invece di preparargli un pasto di tre portate con ingredienti freschi e biologici, a chilometro zero, se possibile provenienti dal mio orto (“Figurati se non hai spazio per un orto, non ce l’hai un terrazzino?”). Non ero preparata a dover passare i pomeriggi a fare da tassista per portare mio figlio a lezioni di canto, scherma, equilibrismo e cinese (“Se non li stimoli da piccoli, da adulti sono spacciati”) sempre se sono abbastanza fortunata da risparmiarmi il logopedista (“Pronuncia la S bene, eh, ma potrebbe fare di meglio”), lo psicologo (“Mi ha detto che mi odia e che odia la vita”) e di misurare il QI con la frequenza con cui io controllo se ho perso quei due chili (“Possibile che sia l’unico della sua classe a non essere superdotato?”).
Mi immaginavo di leggere una fiaba prima di andare a dormire e sentirmi una madre fantastica, non di dovermi chiedere se quella fiaba era abbastanza femminista. Immaginavo di cucinare ogni tanto una torta al cioccolato e mi sembrava già un gran traguardo, non sapevo che avrei dovuto sostituire lo zucchero con quello di canna e il cioccolato con la carruba se non volevo avvelenare i miei figli. Immaginavo di giocare con loro il pomeriggio, non di dover andare prima nel bosco a cercare sassi e rametti perché entrassero in contatto con la natura e non con la plastica. Immaginavo di aiutarli a fare i compiti ogni tanto, quando proprio avevano bisogno di aiuto, non di dover mandare le fotografie del libro di matematica alla madre del compagno che l’ha dimenticato a casa (e giustificarmi perché mi rifiuto di farlo quando a dimenticarlo è il mio).
Non ho mai neanche sperato di essere una madre e una compagna perfetta, ma non pensavo che ogni volta che avrei conquistato un piccolo traguardo avrebbero alzato l’asticella ancora di più, facendomi sentire di nuovo inadeguata.
Emancipiamoci tutti quanti, allora, è questa l’unica strada. Non chiamatela emancipazione femminile come se fosse solo affar nostro. Parliamo di emancipazione familiare, sociale. Perché è di questo che si tratta. Di un progetto comune, non individuale. Emancipiamoci dalle attività extra scolastiche, dal pane integrale preparato in casa con lievito madre, emancipiamoci dai gruppi di Whatsapp, dai lavoretti manuali da fare con l’aiuto dei genitori, dai capi a cui viene l’orticaria quando sentono la parola figlio e permesso nella stessa frase, dalle feste infantili al campo di golf a quaranta chilometri di distanza, dalle riunioni scolastiche per decidere se distribuire pera o mela a merenda.
O tutti o nessuno. L’emancipazione femminile non riguarda solo noi donne, non ci fregate più, ci riguarda tutti quanti. La volete? Allora che ciascuno faccia la sua parte. Non la volete? Allora abbiate il coraggio di dirlo, così sapremo contro quale nemico dobbiamo combattere.
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