Come insegniamo alle bambine a subire la violenza maschile

“I maschietti sono fatti così, sono più portati ai giochi aggressivi.”

“Ha bisogno di esprimere la propria energia, è molto fisico.”

“Se ti picchia è perché in fondo in fondo gli piaci.”

“È tutto testosterone!”

“È colpa tua che ti metti a piangere e gli dai soddisfazione.”

“Il mio Mario tocca già il sedere alle compagne, da grande sarà un donnaiolo.”

“Ha solo bisogno di sfogare l’energia.”

“Devi portare pazienza con lui, ha difficoltà di apprendimento e ti picchia per sfogare la frustrazione.”

“Non mettetevi la gonna, se non volete che i maschi cerchino di guardarvi le mutandine.”

“Con i maschi bisogna avere pazienza.”

“È il suo modo di esprimersi.”

“Se vuoi fare giochi da maschi, tanto vale che ti abitui.”

“Voi femmine siete più mature, cerca di capirlo e vai tu a chiedergli scusa.”

“Sicura di non avere fatto niente per provocarlo?”

Sono alcune frasi che probabilmente abbiamo sentito e forse anche detto, magari senza renderci conto che erano tanti mattoncini della cultura dello stupro che ci circonda e che dietro ogni frase si nascondeva il bisogno di giustificare la violenza maschile, perché è su quella violenza che poggiano le basi del potere in una società patriarcale. Possono sembrare innocue, ma sono frasi pericolose, perché abituano le bambine a essere dalla parte sbagliata del potere, a dubitare prima di tutto di se stesse, le convincono che il valore e la maturità di una donna si misurino anche con la sua capacità di sopportare. Lo dimostra il fatto che dietro quelle frasi si nasconda spesso la paura di crescere un maschio “debole”, che scivoli troppo lontano dalla propria posizione di privilegio. E sì, certo, esiste anche la violenza femminile, ma non fa parte del sistema di potere in cui viviamo e proprio per questo si è spesso molto più rapidi e meno esitanti al momento di condannarla.

Grazie come sempre alla community della pagina Facebook Rosapercaso, da cui arrivano questi esempi.

Come convincere un bambino a leggere in dieci passi

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1. Per prima cosa, non cercate di “convincerlo” a leggere. La lettura è una delle attività più intime e private che esistano; se sente che non gli appartiene, che gli viene imposta, non diventerà mai un lettore.

2. “Mio figlio non legge.” Ne siete proprio sicuri? Vostro figlio legge eccome, solo che non legge quello che volete voi. Legge le istruzioni dei giocattoli, le scritte delle pubblicità, qualche ricetta di cucina se preparate insieme una torta. Legge tutto quello che lo incuriosisce. È circondato dalle parole, sta solo cercando quelle giuste per lui (o per lei).

3. Non ditegli che non legge abbastanza. Nell’istante in cui lo se lo sente dire diventa un non-lettore, non leggere sarà un tassello della sua identità e tutto il resto accadrà a partire da lì. Spiegategli perché per voi è importante leggere, piuttosto, che cosa lo rende così speciale.

4. Non date, vi prego, retta alle maestre che dicono di farlo leggere mezz’ora al giorno. Come si può amare qualcosa che sei costretto a fare mezz’ora al giorno? Io finirei per odiare perfino la Nutella, se mi obbligassero a mangiarne un cucchiaino al giorno. Tutto il tempo che non lo costringete a leggere vi sarà restituito, con gli interessi, quando lo vedrete prendere in mano un libro di sua iniziativa.

5. Circondatelo di libri. Non c’è bisogno di rimetterci uno stipendio, ci sono biblioteche magnifiche, librerie da visitare e in cui curiosare, ci sono i vostri libri. E non solo libri. I fumetti sono perfetti per iniziare a leggere, fra immagini e lettere maiuscole. L’importante è che la pagina scritta e illustrata diventi un’abitudine, una presenza familiare. Che faccia parte della sua vita e della vostra. Sì, anche se non ne ha mai letto uno.

6. “No, quello no, prendi un libro vero, per favore!” disse una madre al figlio, in biblioteca. E lui mise giù il libro a fumetti su Batman rassegnato e prese un volume di fiabe che gli interessava più o meno come un manuale di astrofisica. E che probabilmente non aprì mai. Se volete che vostro figlio legga, lasciatelo libero di scegliere.

7. Dove non arriva la parola scritta, possono sempre arrivare le storie. E le storie, come le parole, sono ovunque. Sono una sfida durante un viaggio in macchina, il compagno perfetto al momento di andare a dormire, lo scacciafantasmi migliore che c’è. E nascono ovunque, in un pezzetto di carta trovato per strada, in una fotografia, in una lettera, in quello che avete fatto mentre eravate lontani. Siamo circondati dalle storie. E ne abbiamo bisogno più di quanto crediamo.

8. Dopo aver disubbidito alla maestra, ignorate  i consigli dell’optometrista. Certo, ha ragione. Leggere tutti storti, sdraiati a letto o sul divano, è il modo migliore per rovinarsi la vista e la cervicale. Ma se l’optometrista assomiglia a quello da cui sono andata io e dice a vostro figlio di leggere seduto a tavola, tenendo il libro nel modo giusto, se possibile su un leggio, allora i libri sono spacciati. Si fa sempre in tempo ad accendere una lampadina o a consigliargli di non tenere la pagina incollata al naso, se sarà necessario.

9. Non proponete la lettura come un’alternativa a quello che gli piace di più. “Se non mangiassi tutto quel cioccolato, allora sì che ti piacerebbero i broccoli al vapore.” Che effetto vi fa, messa così? Se per leggere deve rinunciare ai videogiochi, la prospettiva di aprire un libro non sarà molto allettante. I libri non sono un’alternativa ai videogiochi o alla televisione. Non si escludono a vicenda, possono convivere serenamente.

10. Leggete. Sembra banale, ma è fondamentale che la lettura faccia parte della vita di tutti. Leggete quello che piace a voi, davanti a loro. Non sentitevi in colpa a dire a vostro figlio che in quel momento non potete dargli retta perché state leggendo. Se i libri sono tanto importanti, allora ogni tanto è giusto che vengano prima di tutto il resto.

Emancipata sarai tu

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L’emancipazione femminile è una cosa fantastica. Un po’ come l’aprifacile.

All’inizio ci credi e senti di far parte di un mondo meraviglioso e molto evoluto, anche se poi perdi un canino per aprire la scatoletta di tonno. I più furbi lo sanno, quando leggono aprifacile si procurano un machete e si prendono mezza giornata libera, ma quando sei ancora giovane e ingenua all’aprifacile ci credi. E poi ti senti terribilmente in colpa perché con te non ha funzionato. Non ci sei riuscita, se un disastro, neanche con l’aprifacile sei capace. Tutto il resto del mondo sì, loro aprono le buste di mozzarella con il mignolo mentre con l’altra mano stendono piani aziendali o scrivono capolavori, e tu hai perso almeno un quarto d’ora, usato tutte e due le mani, ti sei fatta la doccia con l’acqua della mozzarella e detto parolacce che non ricordi bene ma non importa, perché i tuoi figli le hanno già imparate tutte a memoria.

Ecco, con l’emancipazione femminile funziona più o meno allo stesso modo. È tutto molto bello e civilizzato e ci fa sentire persone migliori. Finché non scopri che era una grande presa per il culo. E che ti puoi emancipare, certo che puoi. Puoi partire bene e arrivare subito sulla casella in cui hai genitori abbastanza moderni da pensare che una ragazza deve studiare quello che vuole e finché vuole. Puoi aspettare tre turni e avere la fortuna/intelligenza/pazienza di trovare il compagno giusto, che ti rispetta e che crede in te abbastanza da lasciarti gli spazi di cui hai bisogno. Puoi finire sull’oca e moltiplicarti con tanti piccoli pargoli quanti sono i punti del dado. Puoi cascare sulla casella del ponte e decidere con il tuo compagno che i compiti vanno distribuiti in modo paritario e lui darà il biberon al piccolo in modo che tu possa andare al lavoro (“Non vuoi allattarlo? Ma sei sicura? Non ti sembra egoista?” “Sei sicura di avere bisogno di dormire?” “E allora perché l’hai fatto, scusa, un figlio?”) e sarà presente nel gruppo whatsapp di classe al posto tuo (“Oh oh, ma c’è un papà fra noi, che onore!” “Dovremo stare attente a non parlare male degli uomini.” “Ih ih ih.” – segue serie di emoticon a caso – “Carissimo, promettiamo di non disturbarti se non è indispensabile.” “Se vuoi uscire dal gruppo nessun problema, ti mando un privato per le cose più importanti.” “Di’ a tua moglie che non mangiamo mica, eh…”).

Ma la verità è che prima o poi finirai sulla casella dello scheletro e dovrai tornare a quella di partenza. La verità è che prima o poi ti troverai davanti un uomo che ti considera una presuntuosa arrogante solo perché sei convinta di poter valere qualcosa sul lavoro; prima o poi ti troverai davanti una donna che ti dirà che sei un’egoista e una madre orribile e che dovresti ringraziare tuo marito che ti permette di lavorare e che non è modo, ridurre un uomo a fare da governante in casa propria. La verità è che te ne troverai davanti non una, non dieci, ma cento di queste persone. E ogni volta dovrai ricominciare da capo.

Quando si parla di emancipazione femminile si parla sempre di discriminazione aziendale, di politiche salariali diverse, di permessi di maternità, di colloqui in cui ti chiedono le ovaie in cambio di un posto di lavoro e part time che ti permettono di andare a prendere tuo figlio a scuola e scordarti di avere una carriera. Tutta questa parte la sapevo. A questo ero preparata.

Quello a cui non ero preparata era dovermi difendere dalla macellaia che quando vado a fare la spesa mi guarda sogghignando (“Oggi tocca a te e non a tuo marito, eh, finita la pacchia”), a un asilo nido in cui l’adattamento dura cinque mesi e in cui quando tu te ne vai l’aula è ancora piena di genitori e di tette e di mamme amorose, mica come te. Non ero preparata a dovermi giustificare perché lascio mio figlio in mensa (“Ma tu non lavori a casa?”) invece di preparargli un pasto di tre portate con ingredienti freschi e biologici, a chilometro zero, se possibile provenienti dal mio orto (“Figurati se non hai spazio per un orto, non ce l’hai un terrazzino?”). Non ero preparata a dover passare i pomeriggi a fare da tassista per portare mio figlio a lezioni di canto, scherma, equilibrismo e cinese (“Se non li stimoli da piccoli, da adulti sono spacciati”) sempre se sono abbastanza fortunata da risparmiarmi il logopedista (“Pronuncia la S bene, eh, ma potrebbe fare di meglio”), lo psicologo (“Mi ha detto che mi odia e che odia la vita”) e di misurare il QI con la frequenza con cui io controllo se ho perso quei due chili (“Possibile che sia l’unico della sua classe a non essere superdotato?”).

Mi immaginavo di leggere una fiaba prima di andare a dormire e sentirmi una madre fantastica, non di dovermi chiedere se quella fiaba era abbastanza femminista. Immaginavo di cucinare ogni tanto una torta al cioccolato e mi sembrava già un gran traguardo, non sapevo che avrei dovuto sostituire lo zucchero con quello di canna e il cioccolato con la carruba se non volevo avvelenare i miei figli. Immaginavo di giocare con loro il pomeriggio, non di dover andare prima nel bosco a cercare sassi e rametti perché entrassero in contatto con la natura e non con la plastica. Immaginavo di aiutarli a fare i compiti ogni tanto, quando proprio avevano bisogno di aiuto, non di dover mandare le fotografie del libro di matematica alla madre del compagno che l’ha dimenticato a casa (e giustificarmi perché mi rifiuto di farlo quando a dimenticarlo è il mio).

Non ho mai neanche sperato di essere una madre e una compagna perfetta, ma non pensavo che ogni volta che avrei conquistato un piccolo traguardo avrebbero alzato l’asticella ancora di più, facendomi sentire di nuovo inadeguata.

Emancipiamoci tutti quanti, allora, è questa l’unica strada. Non chiamatela emancipazione femminile come se fosse solo affar nostro. Parliamo di emancipazione familiare, sociale. Perché è di questo che si tratta. Di un progetto comune, non individuale. Emancipiamoci dalle attività extra scolastiche, dal pane integrale preparato in casa con lievito madre, emancipiamoci dai gruppi di Whatsapp, dai lavoretti manuali da fare con l’aiuto dei genitori, dai capi a cui viene l’orticaria quando sentono la parola figlio e permesso nella stessa frase, dalle feste infantili al campo di golf a quaranta chilometri di distanza, dalle riunioni scolastiche per decidere se distribuire pera o mela a merenda.

O tutti o nessuno. L’emancipazione femminile non riguarda solo noi donne, non ci fregate più, ci riguarda tutti quanti. La volete? Allora che ciascuno faccia la sua parte. Non la volete? Allora abbiate il coraggio di dirlo, così sapremo contro quale nemico dobbiamo combattere.

Le mamme dei maschi

miniature-1802333_960_720Le madri dei maschi sono un capolavoro di ottimismo.

Dove c’è uno spintone vedono un gesto amichevole. Dove c’è un pugno vedono una manifestazione di esuberanza. Dove c’è violenza vedono un bambino troppo sicuro del proprio corpo. Quanto testosterone, esclamano ammirate, mentre il pargolo distribuisce cazzotti agli amici, e quanta maleducazione, esclamano scandalizzate, quando il pargolo riceve cazzotti dagli amici.

Le madri dei maschi sono un capolavoro di fantasia.

Dove c’è uno scarabocchio vedono il futuro Picasso. Dove c’è un paio di scarpette da calcio vedono il futuro Messi. Dove c’è un nove in pagella vedono un futuro premio Nobel. Non so da chi ha preso, eclamano con finta modestia, a cinque anni è già più intelligente di me.

Le madri dei maschi gridano allo scandalo se qualcuno infastidisce il figlio ma non riescono a reprimere un sorrisetto divertito quando raccontano che il figlio a sei anni ha toccato le tette della compagna di banco. Le madri dei maschi fanno secchi i mariti al primo segno di autorità nei confronti della prole ma poi si lasciano prendere a calci dal figlio di cinque anni perché poverino è un po’ stanco. Le madri dei maschi sbandierano il proprio femminismo ma poi trovano così tenero che se lei esce con le amiche il figlio la tempesti di messaggi per chiederle di tornare altrimenti non dorme.

Da grande voglio vedere il mondo con gli occhi delle madri dei maschi. Dev’essere un mondo meraviglioso, in cui gli insulti sono emozioni trattenute, la disobbedienza un eccesso di vitalità, la maleducazione un segno di virilità. Non c’è spazio per gli errori, nel mondo delle madri dei maschi. Non c’è spazio per la debolezza. Non c’è spazio per i rimproveri. Non c’è spazio per i difetti.

È proprio un maschio, è la formula magica, che cura ogni sbaglio e guarisce ogni colpa.

E poi i figli crescono e sono sempre ragazzi che ogni tanto si divertono un po’ ed esagerano e non c’è niente di male e qualcosa dovranno pur fare con tutta quell’energia. Del resto guarda le ragazze come vanno in giro, anche loro come fanno poveretti, a resistere. E poi i figli crescono e scoprono che non sono Messi e non sono Picasso e non prendono neanche il premio Nobel e l’unica cosa di cui avrebbero davvero bisogno è aver imparato a sbagliare e a convivere con le proprie debolezze. A convivere con i rifiuti, soprattutto quelli delle donne.

Io guardo le madri dei maschi e non posso fare a meno di pensare che avremmo degli uomini molto migliori se qualcuna di loro tenesse a bada l’orgoglio materno e magari anche il pargolo, ogni tanto. Se qualcuna avesse insegnato ai figli a tenere a posto le mani e a cambiare tono di voce e che una donna ha il diritto di uscire con le amiche senza che nessuno le rompa le scatole, che le donne non si toccano neanche con un fiore, che le frustrazioni sono una gran brutta cosa ma sono anche un problema tutto loro. Se avessero insegnato ai figli a chiedere il permesso, ad accettare un no come risposta e che essere maschi non è una scusa, ma una responsabilità.

Anche perché una volta adulti, non ci saranno più scuse e mamme che tengano. Non importa se hanno sempre pensato che la virilità fosse quella cosa lì. La colpa di quello che faranno sarà soltanto loro.

I bambini non si possono fare con il cuore?

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“Mamma, perché i maschi sono diversi dalle femmine?”

“Perché così possiamo riprodurci, avere dei bambini e fare in modo che la specie non si estingua.”

“E i bambini non si possono fare con il cuore? O con il cervello?”

Nella mia immaginazione, avrei avuto grandi conversazioni esistenziali con i miei figli seduta a tavola, in una cucina inondata di sole, davanti a una fetta di torta appena sfornata e a una tazza di cioccolata, magari. Io avrei avuto un’aria interessata e paziente e loro mi avrebbero ascoltato bevendosi ogni parola che mi usciva dalle labbra.

Ma l’educazione dei figli è quella cosa che succede mentre tu stai facendo grandi progetti su come educare i tuoi figli. Non avrei mai pensato che mi avrebbero rivolto le domande cruciali mentre li obbligavo a lavarsi i denti, mentre infilavamo la giacca di corsa per correre a scuola o mentre procedevamo all’eterna perlustrazione alla ricerca di lendini e pidocchi. Il che significa fra l’altro che io più che un’aria paziente avevo quasi sempre un’aria stressata, scocciata e vagamente isterica.

Ho imparato presto che in questi casi non si può sperare di cavarsela con un “Ne parliamo dopo”, come faccio con quasi tutte le altre domande critiche (tipo “Posso andare a dormire a casa del mio amico che ha il padre alcolizzato e la madre depressa cronica?”). O adesso o mai più. L’espressione “cogliere l’attimo” secondo me è stata coniata proprio per le conversazioni con i figli.

Tutto questo per dire che lo so, non era il massimo come risposta, ma provate voi a trovare qualcosa di meglio mentre state allacciando una stringa con una mano e strizzando il tubetto di dentifricio stitico con l’altra, sapendo che dovreste già essere usciti di casa da dieci minuti per avere qualche remota speranza di portare il pargolo puntuale a scuola.

Poi per fortuna se ne escono con frasi come queste e tu pensi che in realtà hai più bisogno tu delle loro risposte che loro delle tue. Sì, tesoro, sì, hai ragione, i figli si possono fare con il cuore. E con il cervello. Anzi, si devono fare con il cuore e con il cervello. Più con il cuore, forse, perché se dovessimo farli con il cervello altro che calo delle nascite.

Te lo ricorderò quando sarai più grande, quando i ruoli saranno invertiti, quando mi rinfaccerai tutti i miei sbagli, compreso probabilmente il fatto di aver ridotto tutto alla sopravvivenza della specie. Quando ti telefonerò e non mi dedicherai più di cinque minuti perché sarai occupato con la tua famiglia, quando ti darò il tormento su mille questioni ininfluenti perché sarà l’unico modo per tenerti al telefono, quando ce l’avrai con me per averti amato troppo o troppo poco e averti incoraggiato troppo o troppo poco, e averti difeso troppo o troppo poco.

Chissà se te ne ricorderai. Chissà se capirai. Quando ti dirò che i figli si fanno con il cuore. E tu probabilmente sbufferai e mi risponderai che con il cuore mica gli dai da mangiare, che mica puoi mandare il cuore ad accompagnarli in venticinque posti diversi alla settimana, che per me è facile, qui da sola in una casa vuota, mettermi a dare lezioni di vita.

E io penserò a quel mattino in cui ti lavavi i denti e mi guardavi con gli occhi grandi e mi dicevi che in fondo potremmo anche essere tutti uguali e fare i figli con il cuore. E avevi già capito tutto e non lo sapevi.

Mamma, mollami

Mamma, mollami.

Altro che adolescenti, secondo me lo pensa anche il bambino che alle elementari fa lo slalom fra un test per diagnosticare il deficit dell’attenzione e una merendina all’olio di palma, fra la seduta dal fisioterapista e la lezione di piano e il corso di inglese all’ora di pranzo. Quando arriva a casa e la mamma si trasforma in signorina dalla penna rossa perché “domani abbiamo l’esame di scienze” e poi si trasforma in nutrizionista e gli serve una cena macrobiotica e poi diventa taxista e lo porta a lezione di scherma e poi segretaria per rispondere ai cinque inviti di compleanno in tre giorni, fissare una tabella di marcia che neanche un capo di stato (“Potete servire il dolce prima del mago così arriviamo all’altra festa prima dello spettacolo con le tigri ammaestrate?”) poi finalmente, finalmente, torna a trasformarsi in mamma, quando – dopo avergli letto una favola su Frida Kahlo per abbattere gli stereotipi di genere – gli dà il bacio della buonanotte e gli dice che gli vuole bene.

Non sarebbe molto più facile, deve pensare quel bambino, se la mia mamma si rilassasse un po’ fra il bacio del buongiorno e quello della buonanotte? Invece di essere sempre vigile come un soldato in ricognizione, a caccia di minacce che ti fanno quasi rimpiangere il “diventerai cieco” di altri tempi, che avrà turbato i piaceri solitari di molti ma non regge certo il confronto con lo spettro dei conservanti, degli ogm, dello zucchero bianco, dei germi sotto le suole e delle fiabe sessiste. Ora invece sua madre racconta alla zia di quando si strusciava contro il divano perché “non c’è niente di male, è naturale”, ma se poi lo vede con una merendina del Mulino Bianco gliela strappa di mano chiedendosi dove ha sbagliato.

Ogni giorno un bambino si sveglia e sa che dovrà correre più veloce del metodo Montessori, delle lezioni di ukulele, del libro su come gestire la rabbia (fanculo il libro per gestire la rabbia) e degli hamburger vegani, più veloce dei compiti e delle mamme che si indignano per i compiti, roba che neanche i Minions nel videogioco a cui non può giocare più di venti minuti se non vuole lasciarsi dietro una scia di neuroni stecchiti al posto delle banane.

Mamma, mollami.

Tanto lo so che mi vuoi bene lo stesso. E lo so che la nonna ti trascurava e quanto avresti pagato tu per avere qualcuno che faceva i compiti con te e ti difendeva dai bulli in cortile e dalle maestre dispotiche in classe. Lo so che se a te avessero diagnosticato la discalculia i tuoi compagni non ti avrebbero chiamata scema all’ora di matematica e che se parlo bene l’inglese andrò ovunque e che la signora della mensa è una stronza a gridarci addosso in quel modo e che se tutte le altre mamme annusassero il fiato dell’autista prima della gita certe tragedie non succederebbero e che non va bene portare la bottiglietta d’acqua perché è antiecologico e che non posso bere dai rubinetti e che devo mettere il casco quando vado in bici e che la crema solare va messa anche all’ombra e che la musica classica farà di me una persona migliore. Credimi, lo so, ma non me ne frega niente. Anzi, ti dirò, per me la vita è piú bella quando non faccio le cose giuste, quando mi spavento, quando rischio l’osso del collo, quando mi sgridano, quando cado, quando combino una cavolata, quando piango, quando mi arrabbio, quando mi difendo da solo, quando mi rialzo, quando parlo la mia lingua inventata con il bambino inglese di seconda e ci capiamo benissimo, quando faccio i compiti da solo e la maestra si arrabbia sempre ma ogni tanto no, quando sbaglio, quando non mi sembra di capirci più niente, quando non riesco a gestire i miei sentimenti, quando mi sento un bambino, e basta.

Tanto lo so che poi arriva la sera e tu mi dai il bacio della buonanotte e mi dici che mi vuoi bene e io mi sento di nuovo invincibile. A me basta che tu ci sia, sei perfetta così. Ma non chiedere di essere perfetto anche a me.

Mamma, ti leggi una storia?

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Alzi la mano chi dopo dieci minuti di gioco con i cubi o con le macchinine insieme al pargolo non ha provato il desiderio improvviso di fare qualcosa di più gratificante, tipo pulire il water. E per quanto io adori leggere insieme ai bambini, all’ottava rilettura di Riccioli d’oro credo che avrei preso la sedia di papà orso e gliel’avrei tirata in testa. All’orso, non al bambino.

No, non siete finite in un blog per mamme. Si parla sempre di rosa e femminismo. Perché uno dei motivi per cui il rosa può essere femminista è che insegna a essere felici. Ma allora, considerato che come è noto insegna più l’esempio di mille parole, per quale motivo dopo aver letto Peppa Pig non possiamo prendere in mano il nostro libro per dieci minuti, con buona pace del pargolo? Quale modo migliore per insegnare ad amare la lettura? Non sarebbe fantastico per le nostre figlie vedere che la mamma ogni tanto legge qualcosa che le piace? Così sì che si sentirebbero autorizzate e incoraggiate a fare altrettanto. Perché allora leggiamo il nostro libro di nascosto, la sera, quando i bambini sono andati a dormire, neanche fosse un piacere proibito, e di giorno ci facciamo vedere lavorando e o svuotando lavatrici? Che messaggio crediamo di trasmettere con tanta abnegazione, se non che altrettanta abnegazione sarà richiesta loro più avanti?

Intendiamoci, non sto dicendo di fregarsene mentre il pargolo fa l’equilibrista sul davanzale e neanche di creare un clima di terrore imponendo il silenzio assoluto. Anzi, se il libro o l’età del pargolo lo permettono, potete leggerlo a voce alta. Si tratta solo di educare alla lettura, davvero, nel quotidiano.

Di educare al piacere, senza sensi di colpa. Per non rischiare di insegnare anche quelli.