
La gratitudine in una coppia è pericolosa, quando si insinua nelle fondamenta e diventa materia stessa della relazione, quando la definisce. Come il rancore, vi apre crepe sottili e impercettibili, che finiscono per minarla e renderla fragile. Possiamo essere riconoscenti al partner per decine e centinaia di motivi diversi. Ma nel momento in cui siamo riconoscenti perché ci ha portate all’altare, perché ha accettato di formare una relazione stabile e mettere su famiglia, allora la gratitudine, come il rancore, rischia di trasformarsi in uno scarto impossibile da colmare. Una relazione nata all’insegna del debito non può essere sana, vi sarà sempre una parte più debole e una più forte, una che si sente in dovere di pagare il prezzo di quel debito e/o un’altra in attesa di riscuoterlo.
Che cosa succede allora in una società che ha fatto della gratitudine un aspetto fondante delle relazioni fra uomini e donne? In una società in cui gli uomini vengono “incastrati” dalle donne, trascinati all’altare, costretti a rinunciare al proprio scanzonato ego adolescente dai ceppi del matrimonio e da quelli della paternità? In cui alle donne con troppo carattere si dice che non troveranno nessuno che se le piglia e in cui “donna sola” è un ossimoro sgradevole che evoca gatti e porte che si chiudono invece di aprirsi? In cui le donne rompono, per definizione, e gli uomini le sopportano? Succede che le donne si convincono di dover essere grate all’uomo che le ha scelte, che se le è prese, che ha sacrificato la propria libertà per loro. Quando basterebbe dare un’occhiata alle statistiche per capire che, nel caso, la gratitudine dovrebbe essere tutta maschile, per ogni donna che accetta a suo rischio e pericolo di entrare in una relazione in cui vengono commessi l’85% dei delitti in cui la vittima è di sesso femminile.
Questo squilibrio di fondo nelle relazioni di coppia non è solo il pretesto per battute e barzellette tanto radicate quanto sessiste. Questo squilibrio di fondo uccide. È quella gratitudine a convincere molte donne a tacere, a sopportare, a pagare il prezzo per essere state sposate. È quella gratitudine che si traduce in diritto, compreso il diritto di alzare le mani, a volte. Ogni volta che facciamo i complimenti a una sposa e le nostre scherzose condoglianze allo sposo stiamo rafforzando una cultura che uccide. Ogni volta che una donna sente, da qualche parte dentro di sé, di dover essere grata all’uomo che l’ha sposata non per la felicità che le ha regalato, non per gli anni meravigliosi trascorsi insieme, non per i gesti quotidiani di rispetto e di amore, ma perché quella gratitudine rientra fra i suoi doveri di donna, diventa automaticamente più vulnerabile.
La colpa di chi uccide è sempre e solo di chi uccide. Ma ad armargli la mano, a volte, è un’intera società.