La Sindrome dello strofinaccio e l’irresistibile bisogno di salvare tutti fuorché noi

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Foto di Claudia24 da Pixabay 

All’inizio non te ne accorgi. È già un mezzo miracolo arrivare a fine giornata senza essersi divorati a vicenda come i superstiti di qualche disastro aereo, precipitati all’improvviso da un volo di linea in una puntata di Lost. Ti ritrovi a spiegare come stai un sacco di volte al giorno, e ogni volta ti stupisci. Bene? Sì, bene. Finché dura. Finché c’è wi-fi, c’è speranza.

Poi un giorno ti sorge il dubbio. Perché quando ti chiedono “Come stai?” scivoli immediatamente dalla seconda persona singolare alla prima plurale e rispondi “Stiamo bene, grazie”? Sarebbe bello pensare che si tratti di senso di comunità, spirito di gruppo e ritrovati valori familiari, e in parte lo è, se non fosse per quel trasferimento automatico di importanza per cui all’istante ti chiami fuori e rispondi pensando a chi ti circonda. Eppure in questi giorni tutte le strade e le necessità di casa passano inevitabilmente da te. Sembra che qualcuno abbia impostato per ogni itinerario possibile, alimentare, psicologico, organizzativo, scolastico, igienico una tappa obbligatoria sulla tua testa. Sei diventata improvvisamente una via di mezzo fra Alexa e Google. Se non trovi, non sai, non sei sicuro, non ti azzardi, non c’hai voglia, eccomi qui. No, non mi disturba affatto, come direbbe Verdone. Sto solo lavorando.

E mentre risolvi dilemmi esistenziali con il piglio dello stratega (“No, niente tv a quest’ora”), dirimi questioni filosofiche della massima urgenza (“Fra Nairobi e Tokyo? Nairobi”), curi ferite invisibili prima che suppurino e schivi videochiamate e webcam saltando da un angolo cieco all’altro della casa, ti rendi conto che i tuoi progetti non hanno pareti che non siano fatte di solitudine. Non c’è porta chiusa che tenga, dietro ci sarà sempre una richiesta di aiuto che bussa silenziosa. Non c’è stipendio che valga, finirai sempre per sistemarmi nella posizione più precaria dell’equilibrio familiare. Ti sei conquistata il diritto di urlare che vuoi essere lasciata in pace, non quello di non rispondere comunque alla domanda che ti hanno appena rivolto. Ti sei guadagnata una stanza tutta per te, ma non riesci a liberarti del peso di tutte le altre. Se avessi il mantello dell’invisibilità di Harry Potter ti troverebbero lo stesso fiutando la scia di sensi di colpa che ti sei lasciata dietro.

La Sindrome dello strofinaccio in quarantena diventa più cattiva che mai. Perché quella vocina che ti sussurrava che il tempo per te stessa è tempo rubato agli altri ora non sussurra più, ora ti urla minacciosa all’orecchio. E scopri che è più facile voltare le spalle alla cura che alla consolazione, che dove non arriva la necessità di accudire arriva il bisogno di salvare. Noi donne saremo capaci di non barattare i nostri sogni per una illusione di sicurezza e incolumità malpagata? Saremo capaci di non farceli strappare via dall’uragano dell’emergenza collettiva? Quanto ci metteranno a convincerci che i sogni delle donne sono moneta di scambio per il futuro di tutti? Quanto ci vorrà a soffiarli via come polvere di brillantini per fare posto alle cose serie, ci chiediamo, mentre lavoriamo sul comodino in camera da letto perché tutte le altre stanze sono occupate?  

Nel dubbio, iniziamo a tenerci stretti quei sogni fin da ora.

E se restassimo senza far niente?

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Foto di StockSnap da Pixabay

Mamma, confinati.

Non inseguire le maestre fra le spunte blu della giungla di Whatsapp per sapere quando ci faranno lezione online e quando ci daranno i compiti e se i voti valgono lo stesso e perché non studiamo più flauto traverso che nella vita non serve a un piffero, lo dicevi sempre, ma in quarantena a quanto pare è diventato indispensabile “perché la maestra di musica a fine mese lo stipendio lo prende lo stesso”.

Non organizzarmi una festa di compleanno con zii e cugini di secondo grado di cui fino a ieri ignoravo l’esistenza e che adesso sono tutti spiattellati sull’iPad come tanti quadratini di Minecraft, e non chiedermi di vedere spettacoli teatrali e film in bianco e nero e balletti e concerti “che adesso sono gratis”; se fino a ieri il picco intellettuale delle mie giornate era Lisa nella Casa dei Loud, che cosa ti fa pensare che restare chiusa in casa per settimane senza vedere la luce del sole mi abbia trasformata nella versione con le treccine dell’Enciclopedia britannica?

Papà, confinati.

Lo so che la quarantena è un’occasione fantastica per scrivere un fumetto, per imparare a suonare il piano, per tenere un diario, per fare karate, per scrivere haiku, per scoprire i miei chakra, per rimettere in ordine la stanza, per dipingere casa, per imparare il portoghese, per fare addominali, per studiare i decimali usando gli spaghetti, per imparare le costellazioni usando i piselli e stuzzicadenti, e per scoprire il senso della vita usando i meme, ma fra HouseParty e la lezione online di hip hop e la merenda virtuale con i nonni e il ripasso di solfeggio via Zoom e la app per ripassare matematica e le fiabe in diretta Instagram e quelle in differita su YouTube e quelle al telefono e quelle sull’iPad, ieri davanti alla porta del bagno sono rimasta ferma a chiedermi che password mi serviva per entrare.

Io non lo so che cos’è che deve andare bene e spero che la nonna guarisca ed esca dall’ospedale e che non le succeda come al nonno di Mario che un giorno l’hanno portato via e poi non hanno potuto fare il funerale neanche se si mettevano la mascherina e i guanti, e Mario gli aveva fatto un disegno e voleva darglielo, però sua mamma ha detto che bisogna aspettare di poter andare al cimitero, ma lui ci aveva già scritto Guarisci presto e non sa se lasciarlo o no. E spero che la mamma e il papà della maestra stiano bene, perché un giorno durante la videolezione è scoppiata a piangere, ma poi si è soffiata il naso come un elefante e ha detto che piangeva perché eravamo dei somari e noi l’abbiamo capito tutti che non era vero, che lo diceva solo per farci stare tranquilli, perché è meglio avere una maestra che ti dà del somaro che una maestra triste, anche se in quel momento è a casa sua e dietro c’è un mobiletto montato storto e il suo cane ogni tanto abbaia come un pazzo.

Quindi non importa se mi annoio e se il nostro balcone è così stretto che a correre dopo un po’ mi gira la testa e se la torta del compleanno è venuta piccolina perché nel supermercato non si trova più il lievito. È un po’ come la nostra vita, che si è ristretta anche lei e adesso siamo sempre vicini e le giornate sembrano più corte e non ci sta più dentro niente. Ma a me non importa e non è perché ci sono le dirette Instagram e le zie in videochat o perché facciamo la focaccia. È perché in un mondo piccolo piccolo puoi stare fermo o correre velocissimo e arrivi comunque insieme. In un mondo piccolo piccolo quando ti perdi ti basta restare fermo per ritrovarti. In un mondo piccolo piccolo puoi anche tirare il fiato, ogni tanto, e nessuno si accorge che sei rimasto indietro. O che ti sei saltato una lezione online.

(Mamma, confinati è il capitolo in quarantena del precedente Mamma, mollami.)

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Uno stipendio di sensi di colpa

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“Oggi le donne possono lavorare senza problemi.”

Ogni volta che lo sento ripenso a quando entravo in macelleria spingendo il passeggino e la macellaia mi guardava sogghignando ed esclamava “Oh, oggi tocca a te, eh!”. Mi ricordo di quando hanno chiesto al marito di un’amica, che lavorava e si prendeva cura dei figli, se per Carnevale si vestiva da casalingo. Mi ricordo di quando hanno detto a un’altra amica che avrebbe dovuto ringraziare il suo compagno, che era disoccupato e si occupava quasi esclusivamente di casa e bambini, perché le permetteva di lavorare.

Mi ricordo di tutte le volte che hanno compatito mio marito quando io viaggiavo per lavoro e non hanno mai ricambiato il favore quando ero io a restare da sola con figli e computer. Di ogni occasione in cui le maestre hanno detto che la mamma doveva aiutare il bambino a fare i compiti e controllare il diario, delle riunioni scolastiche a cui i padri si contano sulle dita di una mano, dei gruppi di whatsapp in cui i pochi uomini presenti sono osannati come special guests da un esercito di geishe che parlano per emoticon.

E non è neanche questo il peggio. Questa è la parte divertente. Non fa male quanto sentire tuo figlio che ti dice che non c’eri quando ha fatto i suoi primi biscotti. Non fa male come sopportare il cattivo umore di tuo marito quando tutte le biglie che di solito fai girare per aria tu all’improvviso gli cascano addosso come tanti proiettili di inadeguatezza e frustrazione. Non fa male come rientrare a casa dopo una giornata di lavoro di dieci ore e sentirsi in colpa nell’istante in cui giri la chiave nella serratura.

Perché non ci sei stata. Ecco la tua colpa. La colpa delle donne non è lavorare. La nostra colpa imperdonabile è non esserci. È quello il peccato che dobbiamo espiare. Non esserci quando gli altri hanno bisogno di noi. Non esserci quando gli altri non hanno bisogno di noi ma potrebbero averne. Non esserci, non essere pronte a ricucire litigi, a curare graffi sulle ginocchia a suon di baci, a chiedergli com’è andata a scuola quell’unico giorno in cui ha intenzione di rispondere qualcosa di diverso da “bene”.

La nostra colpa è non irrorare il nido familiare di amore, pasti in tavola, magliette piegate, merende biologiche e cessi puliti. Nessuno ci dirà mai che non possiamo andare a lavorare. Ma nessuno dice mai abbastanza che ogni donna che lavora si porta a casa uno stipendio fatto di assenze e mancanze materne e tensioni familiari e sensi di colpa. Eccolo il vero motivo per cui non lavoriamo. Non è che qualcuno ce lo impedisca, non è che ci costringano ad andare da casa al lavoro con una lettera scarlatta cucita sul petto. Se non lavoriamo, spesso, è soltanto perché così è più facile per tutti.

E possiamo raccontarci tutte le storielle che vogliamo e ripeterci che non c’è insegnamento più prezioso di una madre che lavora e insegue i suoi sogni, ricordare quanto è stato importante il ticchettio della macchina da scrivere di tua mamma, da bambina. Ma al momento di aprire la porta di casa la sentiremo, quella scheggia dentro di noi che si ribella e che vorrebbe tanto che fosse più facile continuare a sentire di meritarsi l’amore che c’è dall’altra parte. Che tornare a casa non significasse anche dover mettere a tacere un pezzetto di sé.

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In quanto donna

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Non in quanto persona. Non in quanto parte di una famiglia, di una coppia, di una comunità, non in quanto genitore o inquilina o proprietaria di un animale domestico. In quanto donna.

La nostra vita è plasmata da decine, centinaia e migliaia di “scelte” che crediamo di fare ogni giorno e che in realtà sono il frutto di sensi di colpa e di una percezione distorta del nostro ruolo e dei nostri doveri. È anche questa una forma di violenza. Se usciamo dal racconto tutto maschile di una violenza fatta di colpi, di lividi e ossa rotte. Se torniamo ad appropriarci anche del significato delle parole. Le battaglie non sono solo quelle che si combattono armi in spalla, nello spazio pubblico, sono anche quelle che combattiamo dentro di noi, negli spazi privati. E per difenderci non basta il nostro corpo, serve quella difesa che prende forma dentro di noi, che traccia limiti e apre orizzonti nuovi e mette a tacere i sensi di colpa. Sembra tutto molto sciocco e superficiale e debole, vero? Già, come tutto quello che ci appartiene e ci riguarda. È quello che ci hanno fatto credere fino a ieri.

Alla violenza fisica, psicologica, economica e patrimoniale bisogna aggiungere quindi anche quella culturale e sociale. Perché se condiziona la nostra vita, se ci obbliga a cambiare e ci trasforma, allora è violenza. Eccone alcuni esempi, raccolti come sempre grazie alla pagina Facebook di Rosapercaso. A leggerli tutti d’un fiato ci si rende improvvisamente conto, come ha scritto Debora in un commento, che “la donna perfetta che ci hanno raccontato, quella a cui dovevamo somigliare, non è mai esistita”. L’abbiamo mantenuta in vita noi, senza accorgercene, a suon di sensi di colpa e di fatica e di inadeguatezza.

In quanto donna mi sento obbligata a:

– depilarmi

– avere figli

– cucinare

– tenere pulita e in ordine la casa

– pensare al bucato

– accudire

– essere sempre presente e disponibile

– lasciare tutto pronto prima di uscire

– fare sesso anche se non ne ho voglia

– rimandare i miei momenti, spazi o pensieri

– non scontentare nessuno

– stare calma

– essere forte

– essere prudente

– essere comprensiva

– essere sorridente

– essere paziente

– essere disponibile

– essere magra

– controllare il mio linguaggio

– non ribellarmi

– essere attraente

– stare all’erta quando cammino per strada

– fare la spesa pensando ai gusti degli altri e non ai miei

– ridimensionare le mie ambizioni lavorative

– farmi accompagnare

– essere all’altezza delle aspettative in quanto figlia

– mettere per ultime le mie esigenze

– giustificarmi per il mio aspetto

– chiedere il permesso prima di prendere un impegno

– sopportare gli uomini che mi dicono come dovrei pensarla in quanto donna.

Ora provate a immaginare che cosa succederebbe se qualcuno si sentisse obbligato a farlo per il colore della sua pelle, per la sua nazionalità, per via delle sue convinzioni religiose o politiche o del suo peso o del suo colore di capelli o del suo orientamento sessuale. Come lo definiremmo, a quel punto? E quanto la nostra società sarebbe disposta a sopportarlo?

 

 

 

Madre? Presente

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“Non ho tempo.”

“Magari quando sarà più grande.”

“Mi sono licenziata. Solo per qualche anno, finché i miei figli hanno bisogno di me.”

Certo, i nostri figli hanno bisogno di noi. Non solo. I nostri figli hanno sempre bisogno di noi. E quando loro smettono, a quel punto siamo noi che non siamo più capaci di fare a meno del loro bisogno, come pupazzi caricati a molla che non hanno più un posto dove andare.

“No, non posso lasciarlo con il padre e partire. Non me la sento. Magari fra un paio d’anni, quando sarà più grande.” “Ma fra un paio d’anni sarà maggiorenne!” “Sì, l’adolescenza è un periodo difficile e lui e suo padre non si capiscono proprio. Così magari ci può accompagnare lui in macchina. Non sarebbe carino?”

“No, mi spiace, non posso fermarmi, devo andare di corsa a casa, Arturino torna dall’università e non gli ho lasciato il pranzo pronto.” “Non può aprire il frigo e prepararsi qualcosa?” “Oh, povero, no. È sempre così stanco quando arriva. Ieri è rimasto a studiare fino a tardi. Si sente così in colpa per essere di nuovo fuori corso.”

Dovrebbero avvisarci, come sui pacchetti delle sigarette. “Nuoce gravemente al tuo futuro.” Nel momento in cui decidiamo di fare un passo indietro, di restare a casa, di dedicarci ai nostri figli, dovrebbero spiegarcelo. “Sì sì, lo dicono tutte che possono smettere di restare a casa quando vogliono.” “Sai quante ne ho viste che cominciavano così, solo qualche mese, perché lo facevano le amiche, per curiosità, per provare, e poi a cinquant’anni si facevano di rosolio e scoprivano di avere buttato via la loro vita?”

C’è una cosa che dovremmo chiederci: lo facciamo davvero perché i nostri figli hanno bisogno di noi? O perché siamo stanche di sentirci in colpa? Perché non importa se poi passeremo la metà delle nostre giornate a guardare il Grande Fratello e a studiare ricette che non prepararemo mai, adesso che siamo a casa non dovremo più difenderci dalle accuse altrui, esplicite o silenziose. Abbiamo preso la nostra vita e i nostri sogni e le nostre ambizioni e li abbiamo immolati sull’altare dell’accettazione e della serenità familiare, perché era più facile che dover dimostrare costantemente che avevamo il diritto di farlo, perché sentire nostro marito brontolare ci logorava, perché così finalmente la maestra la smetterà di dire che se Luigino non legge bene è perché non si esercita abbastanza “a casa”, e che se finisce sempre in direzione è perché ha bisogno di affetto e vuole richiamare la nostra attenzione, e che se non pronuncia bene la S è per qualche motivo terribile che prelude a qualche sindrome terrificante e che la colpa è tutta della mamma.

La figura materna, l’affetto materno, le attenzioni materne, la presenza materna… sono la causa e il rimedio di ogni male. E così ci sacrifichiamo. Smettiamo di lavorare, restiamo in casa, non usciamo con le amiche perché il momento della buonanotte è fondamentale e non andiamo in palestra perché lì è pieno di donne che non hanno niente da fare e noi invece qualcosa da fare ce l’abbiamo eccome. Dobbiamo portare il bambino a inglese e poi a scherma e poi dal logopedista per quella cazzo di S che ha preso dalla famiglia del padre, non sia mai che a quarant’anni parli come nostro cognato, e in piscina perché suo padre ci tiene tanto che faccia sport; e non ci perdiamo un solo saggio di fine corso e andiamo a prenderlo a scuola e quando gli chiediamo come è andata ci risponde “Bene” e quando gli chiediamo che cosa ha fatto a scuola  dice “Cose” e quando gli chiediamo se è felice ci chiede se può giocare al videogioco, ma se non altro ci siamo, per la miseria. Ci-sia-mo. E nessuno potrà più venire a dirci che è tutta colpa nostra.

Abbiamo trasformato la nostra vita in un ex voto. Abbiamo rinunciato al nostro tempo a tutto quello che ci piaceva davvero, che ci faceva sognare, che ci faceva sentire importanti. Che ci rendeva perfino più orgogliose del saggio di danza in cui la creatura zompetta per cinque minuti con le orecchie da gatto. Quante volte hai peccato, madre? Cinque torte di farina integrale e due feste di compleanno fra i gonfiabili.

Sì, i nostri figli hanno bisogno di noi. Sì, daremmo qualunque cosa per vederli felici. Ma immolarci non è la soluzione. Anche se sembra l’unica che mette sempre tutti d’accordo. (Tranne noi.)

La tristezza indecente delle donne

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“Super vitamine per una super mamma.”

“Dieci trucchi per conciliare famiglia casa e lavoro e riuscire a fare tutto, senza perdere il sorriso.”

“Sei stressata? Figli cane marito lavoro casa e genitori anziani ti sembrano un peso insostenibile? Scopri come arrivare a fine giornata e avere ancora energie per andare in palestra!”

Siamo circondate. Siamo subissate di consigli su come riuscire a prenderci cura degli altri e tenere la casa in ordine e smacchiare i grembiulini e tenerci in forma e il tutto dopo una giornata lavorativa di otto ore. Lo trovo meraviglioso. Mi fa sempre l’effetto di chi si aggira fra le rovine dopo un’esplosione e ti consiglia un panno per la polvere che fa miracoli. O di chi vede qualcuno affogare e gli ricorda che bisogna bere almeno due litri d’acqua al giorno.

Super mamma. Super donna. Le donne possono, sanno e soprattutto fanno. Ah, la forza delle donne. Uh, se non ci fossero loro. Eh, quanto sono brave. Dimmi quante volte ti sei seduta oggi e ti dirò che donna sei. Conta quante cose riesce a fare contemporaneamente una donna nel tempo necessario a un uomo per trovare i calzini. Oh, le donne, le mamme, il centro del mondo.

Ci stanno prendendo per il culo, lo sappiamo, vero?

Non abbiamo bisogno di integratori, non abbiamo bisogno di consigli su come combinare famiglia casa e lavoro, non abbiamo bisogno di trucchi. Abbiamo bisogno di fare l’unica cosa che nessuno vuole vederci fare, men che meno quelli che levano odi e glorie alla nostra capacità di stringere i denti: abbiamo bisogno di mollare.

Non possiamo fare tutto. Non siamo tenute a fare tutto, ma soprattutto, ed è questa la parte più dura da mandare giù, per prenderci cura di noi e dei nostri sogni dobbiamo smettere di prenderci cura degli altri. Almeno un po’. Almeno per un po’.

Non ci stanno (e non ci stiamo) solo prendendo in giro. Ci stanno (e ci stiamo) facendo male. E siccome ci hanno insegnato a soffrire in silenzio, ci ammaliamo in silenzio. E no, la nostra malattia non si cura con gli integratori. E neanche con le vitamine e con i trucchi delle riviste. La nostra malattia si chiama tristezza. Che roba squallida da fotoromanzo, no? Come suona antiquata e patetica, la tristezza delle donne. È volgare, indecente, egoista e segno di squilibrio mentale. Non la vuole vedere nessuno, la nostra tristezza. Per questo la nascondiamo come una brutta macchia sul tappeto buono e ci mordiamo le labbra e ogni tanto riempiamo troppo il bicchiere e ogni tanto prendiamo una pastiglia di troppo e ogni tanto ci facciamo del male. Perché siamo tristi. E non possiamo neanche dire che è per qualche nobile motivo che in quanto tale ovviamente non riguarda soltanto noi, come un amore non corrisposto. Non sono le lacrime della madre, non sono le lacrime della moglie, sono solo le lacrime della donna.

Che cosa terribile e indegna. La tristezza della donna che si è persa e non si trova più. Perché le sue cure non bastano agli altri e non servono a lei. Perché sotto tutte quelle cure e quei pasti e quei vestiti stirati e quella casa pulita di cui non frega niente a nessuno ci sono tutti i suoi sogni, anche quelli di cui si vergogna, c’è la sua paura di fallire, anche quella che non vorrebbe ammettere. È rimasto tutto lì sotto, un po’ per colpa sua, un po’ perché così era più facile, un po’ perché era quello che si aspettavano tutti da lei, un po’ perché i sensi di colpa, a fare il contrario, erano perfino più insopportabili del peso di tutti quei sogni e di tutte quelle paure.

Chissà che cosa succederebbe se provassimo a guardarla in faccia, quella tristezza, tutte insieme. A gridare forte che esiste e che non ce ne vergogniamo perché riguarda la cosa più importante del nostro universo, ossia – sorpresa! – noi stesse. Smettiamo di nasconderla, se c’è, smettiamo di pensare che sia sbagliata, o che renda sbagliate noi. Diamo un posto e un volto e un nome a quella tristezza. Quella tristezza a forma di vuoto, il vuoto lasciato da aspirazioni e desideri e sogni che forse possiamo ancora provare a spolverare e indossare. Anche se sono della taglia sbagliata, anche se non ci entriamo più, almeno all’inizio, saranno sempre e comunque meglio di quel vuoto a forma di noi stesse. A forma di quel che eravamo e di quel che non siamo diventate.

Obblighiamo gli altri a vederla, quella tristezza, se esiste, non teniamocela per noi, come se fosse il nostro sporco segreto, il più inconfessabile di tutti. Quello che fa più male. Non siamo folli. Non siamo stressate. Non siamo lunatiche. Non siamo isteriche. Siamo tristi. E siamo ancora in tempo per cambiare.

 

“Dove li hai lasciati?” o delle madri che viaggiano

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Sì, le madri viaggiano. No, non sempre con i figli appresso.

Sembra abbastanza logico, a pensarci. Invece no. Una madre che viaggia senza figli, ve lo dico per esperienza, è un’anomalia. Una locomotiva senza vagoni. Una macchina senza portabagagli. Un aereo senza passeggeri. Che cosa viaggia a fare, se i figli non sono con lei? E soprattutto, che cosa li ha fatti a fare, quei figli, se poi non se li porta dietro ovunque? Dalla retorica sulla madre che non espleta alcuna funzione biologica senza che il pargolo gattoni oltre la porta del bagno a quella della madre che non farebbe mai una valigia con dentro uno spazzolino solo, il passo è breve, se non brevissimo.

E infatti, se vi capita di viaggiare da sole, prima o poi arriva la domanda fatidica, la più temibile, quella che vi inchioda alla vostra colpa: “Dove li hai lasciati?” Con la variante “Dove hai lasciato i tuoi cuccioli?” con l’accento su tuoi, non importa se il cucciolo in questione ha quindici anni e ti supera in altezza di almeno venti centimetri.

Ogni volta che me lo chiedono mi sorge il dubbio che pensino che li abbia persi, come se fossero le chiavi di casa o la borsa, e sono tentata di rispondere con un’alzata di spalle e un sorriso rassegnato: “Chi lo sa? Ma tanto prima o poi saltano sempre fuori”.

Poi capisco che in realtà pensano che li abbia abbandonati, non persi. In un terribile orfanotrofio gotico e scuro in cima a una montagna. Chiusi in casa con tante ciotole di cibo e di acqua quanti sono i miei giorni di baldoria, ops, viaggio. O sul bordo dell’autostrada, magari. “Oh, bambini, guardate, che belle margheritine! Andate a raccoglierne qualcuna, volete? … Adesso! Sgomma, sgomma, prima che se ne accorgano. Tanto passo a riprenderli fra quattro giorni.”

La domanda, rivolta peraltro con un certo sgomento mal dissimulato, potrebbe avere un senso se fossi una ragazza madre, se fossi vedova, se vivessi su un’isola deserta o se mio marito fosse accanto a me, quando me lo chiedono. Ma in assenza di una qualsiasi di queste variabili, resta tuttora inspiegabile per me dover ogni volta soddisfare la loro curiosità e svelare il mistero: “Con il padre. Avete presente, quella storia degli spermatozoi e dell’ovulo? Quel tizio che ogni tanto risponde al telefono a casa mia? Quello a cui i miei figli erano tutti identici, secondo voi, fin dal minuto zero? Ho una notizia da darvi: quello è il loro padre. Incredibile, eh?”

Non c’è niente da fare, non c’è età, credo religioso o appartenza politica che tenga: tutti a questo punto ti guarderanno come se li avessi lasciati in un vascello in mezzo al mare in tempesta, roba che si stupirebbero se li trovassi ancora vivi, al tuo rientro. Qualcuno si stupirebbe perfino se tu al rientro trovassi ancora un marito e non le carte per il divorzio.

Nel frattempo, se al marito in questione prude la schiena mentre voi non ci siete, tranquillizzatelo: sono le ali.