
All’inizio non te ne accorgi. È già un mezzo miracolo arrivare a fine giornata senza essersi divorati a vicenda come i superstiti di qualche disastro aereo, precipitati all’improvviso da un volo di linea in una puntata di Lost. Ti ritrovi a spiegare come stai un sacco di volte al giorno, e ogni volta ti stupisci. Bene? Sì, bene. Finché dura. Finché c’è wi-fi, c’è speranza.
Poi un giorno ti sorge il dubbio. Perché quando ti chiedono “Come stai?” scivoli immediatamente dalla seconda persona singolare alla prima plurale e rispondi “Stiamo bene, grazie”? Sarebbe bello pensare che si tratti di senso di comunità, spirito di gruppo e ritrovati valori familiari, e in parte lo è, se non fosse per quel trasferimento automatico di importanza per cui all’istante ti chiami fuori e rispondi pensando a chi ti circonda. Eppure in questi giorni tutte le strade e le necessità di casa passano inevitabilmente da te. Sembra che qualcuno abbia impostato per ogni itinerario possibile, alimentare, psicologico, organizzativo, scolastico, igienico una tappa obbligatoria sulla tua testa. Sei diventata improvvisamente una via di mezzo fra Alexa e Google. Se non trovi, non sai, non sei sicuro, non ti azzardi, non c’hai voglia, eccomi qui. No, non mi disturba affatto, come direbbe Verdone. Sto solo lavorando.
E mentre risolvi dilemmi esistenziali con il piglio dello stratega (“No, niente tv a quest’ora”), dirimi questioni filosofiche della massima urgenza (“Fra Nairobi e Tokyo? Nairobi”), curi ferite invisibili prima che suppurino e schivi videochiamate e webcam saltando da un angolo cieco all’altro della casa, ti rendi conto che i tuoi progetti non hanno pareti che non siano fatte di solitudine. Non c’è porta chiusa che tenga, dietro ci sarà sempre una richiesta di aiuto che bussa silenziosa. Non c’è stipendio che valga, finirai sempre per sistemarmi nella posizione più precaria dell’equilibrio familiare. Ti sei conquistata il diritto di urlare che vuoi essere lasciata in pace, non quello di non rispondere comunque alla domanda che ti hanno appena rivolto. Ti sei guadagnata una stanza tutta per te, ma non riesci a liberarti del peso di tutte le altre. Se avessi il mantello dell’invisibilità di Harry Potter ti troverebbero lo stesso fiutando la scia di sensi di colpa che ti sei lasciata dietro.
La Sindrome dello strofinaccio in quarantena diventa più cattiva che mai. Perché quella vocina che ti sussurrava che il tempo per te stessa è tempo rubato agli altri ora non sussurra più, ora ti urla minacciosa all’orecchio. E scopri che è più facile voltare le spalle alla cura che alla consolazione, che dove non arriva la necessità di accudire arriva il bisogno di salvare. Noi donne saremo capaci di non barattare i nostri sogni per una illusione di sicurezza e incolumità malpagata? Saremo capaci di non farceli strappare via dall’uragano dell’emergenza collettiva? Quanto ci metteranno a convincerci che i sogni delle donne sono moneta di scambio per il futuro di tutti? Quanto ci vorrà a soffiarli via come polvere di brillantini per fare posto alle cose serie, ci chiediamo, mentre lavoriamo sul comodino in camera da letto perché tutte le altre stanze sono occupate?
Nel dubbio, iniziamo a tenerci stretti quei sogni fin da ora.