Non sono difetti, sono la prova che ce l’abbiamo fatta

album-2974646_1280

Le cicatrici, la pelle rimasta vuota dopo i chili persi, le grinze, le operazioni, un cesareo d’urgenza, una mastectomia, la pancia che reclama sempre più spazio, le braccia che sballonzolano un po’, i capillari di un sangue stanco e pigro,  i piedi un po’ storti, smagliature come corsie d’autostrada per ogni nostro cambiamento, i muscoli ingombranti dopo anni di sport, il seno afflosciato dall’allattamento, i segni incisi sulla pelle dalle operazioni…

È cominciata come una sfida, sulla pagina Facebook di Rosapercaso: ciascuna poteva indicare una parte del proprio corpo che non le piaceva, con cui provare a fare la pace quest’estate in spiaggia. E il risultato è stato magico. Perché a leggerli tutti insieme, quei commenti smettevano di parlare del nostro corpo e iniziavano a raccontare una storia. C’erano il trascorrere degli anni, il desiderio di essere diverse, le prove superate, gli ostacoli, le malattie, le guerre e i drammi e gli amori di tutte. C’erano parti sofferti e operazioni andate bene per miracolo e anni dedicati ai figli e il ricordo della giovinezza e la paura di invecchiare e tutte le tappe di una vita vissuta.

All’improvviso, a leggerli uno dopo l’altro, diventava evidente che quelli non erano affatto difetti. Tutta quella pelle in eccesso e la ciccia e il corpo che cambia e si trasforma e si rifiuta di obbedirci, e i peli e le gambe e il seno sempre troppo grande o troppo piccolo, e le vene che impazzano e le cicatrici non avevano più niente di brutto o di osceno o di vergognoso. Al contrario, erano meravigliosi. Erano la prova che siamo ancora qui, che abbiamo resistito, ce l’abbiamo fatta. Erano la dimostrazione della nostra tenacia, della nostra fortuna, della nostra forza. Del nostro ostinato rifiuto di essere perfette, per continuare a essere noi.

Come abbiamo fatto a non accorgercene? Come abbiamo fatto a scambiare per difetti il privilegio di abbassare lo sguardo su di noi e trovare quei segni ancora lì, nonostante tutto, nonostante noi, nonostante i nostri tentativi di scacciarli e farli scomparire? Quanto è magnifico un corpo che insiste, che non molla, che si aggrappa a se stesso in questo modo? Tutta quella pelle che si rifiuta di scomparire quando dimagriamo è eroica, non è oscena. Le cicatrici che ci ha scritto addosso la nostra storia non sono sgradevoli, sono la cosa più preziosa che abbiamo. Perché ci ricordano che siamo sopravvissute.

Che cos’è l’amore se non il privilegio di costruire ricordi comuni? Non è questo il segreto, non è questo che ci fa restare insieme, nonostante tutto, e ci riempie gli occhi di tenerezza e di desiderio, anche dopo tanti anni? E non è forse questo che continua a fare il nostro corpo, a scrivere i ricordi e a conservarli per noi, nonostante noi?

Stiamo sbagliando tutto, carissime, ma proprio tutto. Siamo ingrate, miopi e ci siamo lasciate fregare da quattro foto sulle riviste, invece di ascoltare chili di ciccia e di sangue e di pelle e di nei e peli, che ci conoscono e parlano di noi meglio di chiunque altro. Ci siamo lasciate convincere che il nostro corpo non ci appartenesse, che dovesse essere modellato sullo sguardo e sul desiderio altrui, che dovesse essere punito con un desiderio di perfezione impossibile. Portiamo addosso tutte le contraddizioni dell’essere donna, a cominciare dall’impossibilità di farci ascoltare, dal bisogno del permesso altrui, dalla necessità del castigo, dalla convinzione che il nostro corpo in realtà non ci appartiene.

Non c’è bisogno che il nostro corpo ci piaccia. Abbiamo confuso il nostro libro di storia con un romanzo rosa, il nostro diario personale con un articolo da rivista. Non è l’oggetto del nostro desiderio quello che vediamo allo specchio, non è la rappresentazione delle nostre aspirazioni e dei nostri sogni. Quel corpo siamo noi, è la nostra storia, porta scritte addosso tutte le nostre avventure, i nostri sbagli, le nostre paure. E il desiderio di essere diverse è solo una parte di quella storia.

Non siamo tenute a piacere nessuno. È da noi che il nostro corpo vuole essere ascoltato. Soltanto da noi. Ha custodito tutti quei momenti per ricordarci quanto siamo forti e tenaci, quanto siamo state fortunate, quanto siamo state sfortunate, quanto abbiamo lottato. I ricordi non sono forse tante cicatrici incise per sempre sui giorni e sulle ore? 

Non sono difetti, sono ricordi. Dobbiamo solo ricordarci di leggerli, ogni tanto. Il nostro corpo racconta la nostra storia. Non mettiamolo a tacere proprio noi.

 

Il burka anticellulite

borkum-3417900_1280

Chi vive al mare lo sa. A un certo punto arriva quel momento dell’anno in cui invece di salutare le madri degli amici dei tuoi figli al riparo di jeans e maglioni, ti ritrovi a farlo mezza nuda. E non solo le madri dei tuoi amici, anche le maestre, la parrucchiera, la cassiera del supermercato, l’idraulico, il tizio con cui hai litigato due mesi prima perché non ha rispettato lo stop, il dentista, l’imbianchino, e più il paese è piccolo, più l’elenco si allarga.

Dopo un po’ ci si abitua, ma salta anche all’occhio un dettaglio che, abituata alle mie interazioni cittadine, non avevo mai preso in considerazione. Il corpo degli uomini, svestito, non incide sulla loro autorevolezza, non più di quanto non faccia con i vestiti addosso. Tutt’al più ti può sorprendere con qualche tatuaggio o con qualche muscolo in più o in meno del previsto, ma poco altro. Perché il corpo degli uomini si può offrire allo sguardo o restarne indifferente, ma non è un pegno da pagare. Non è una colpa da scontare. Che sia terreno di esami appassionati e approfonditi o che passi indisturbato lungo il bagnasciuga, il corpo degli uomini esiste, è oggetto di desiderio come quello femminile, ma non è un biglietto di ingresso. Non chiede il permesso.

Questo ho capito interagendo con le persone che facevano parte della mia vita quotidiana pancia all’aria e cosce in bella vista. Il corpo della donna non è solo oggetto di desiderio, ha sempre qualcosa da farsi perdonare. È il nostro biglietto di ingresso e al tempo stesso la ragione per cui ne abbiamo bisogno e la moneta con cui lo paghiamo. Ci portiamo addosso un burka invisibile, fatto di creme anticellulite e cerette e cure dimagranti. Il nostro corpo non ha diritto di cittadinanza in quanto tale, non gli basta esistere, come a quello degli uomini, deve rispettare determinati canoni, deve essere attraente, deve occupare lo spazio che è stato previsto per lui e nel modo in cui è previsto che lo occupi. Il corpo della donna deve obbedire.

La “prova” della prova costume è un lapsus maschilista, uno di quei momenti in cui il linguaggio tradisce la mentalità a cui appartiene e la svela per quella che è. Non c’è niente di scherzoso in quella prova, non lasciamoci ingannare dai titoli ammicanti delle riviste e dalla finta complicità delle diete che compaiono sui siti di salute e bellezza. Quella prova non ha niente di amichevole, in realtà, è una sorta di attrai quindi esisti sotto una patina estetica che gli serve per dissimulare la propria ferocia e fingersi docile e nostro alleato. Quella prova è il nemico che dobbiamo combattere, non il nostro corpo, con quelle che ci hanno insegnato a chiamare imperfezioni e invece sono caratteristiche che lo rendono unico, diverso dal modello che ci vuole eternamente fertili e desiderabili. Eternamente giovani, la legittimazione di un immaginario maschile malato, intriso di pedofilia e sopraffazione.

Il nostro burka è l’eterna giovinezza che rende perdonabile il corpo femminile in tutta la sua fisicità, la maternità è (anche) un’arma con cui tenerlo a bada, il body shaming sono le frustate che riceviamo quando disobbediamo. Sì, è una metafora, no, non è la stessa cosa, ma resta comunque una forma di controllo che non ci appartiene e limita la nostra libertà. Ricordiamocene, ora che inizieranno a sommergerci di consigli su “come arrivare preparate alla prova bikini”. Ricordiamoci di quanto male ci stiano facendo, in realtà, quei “consigli”, e poi decidiamo se seguirli o meno, se continuare a guardarci nello specchio di cristallo delle aspettative e dei giudizi altrui o in quello che riflette soltanto il nostro benessere e il piacere e la necessità di stare bene con noi stesse.

Non chiamatela prova bikini

grey-seal-2164736_1280Capillari. Peli. Smagliature. Da almeno trent’anni ci combatto come se fossero piante infestanti nel giardino all’inglese impeccabile ed eternamente giovane che il mio corpo non è mai stato, in realtà.

Non è certo l’unica guerra in corso. C’è anche quella contro i chili di troppo, per citarne una, ma in quel caso se non altro la battaglia non è solo contro il mio corpo, anche contro uno squilibrio che lo minaccia, non solo estetico, contro un punto di non ritorno all’orizzonte. O almeno io così sempre l’ho vissuta. Ma l’accanimento contro i peli, contro la pelle che invecchia, inesorabile, ed è liscia e giovane e uniforme più o meno come un fossile del pleistocene, quello è diverso. In realtà sto combattendo contro me stessa. Quella con cui me la prendo sono io.

Certo, i capillari sono il segno di una circolazione che non funziona come dovrebbe e quindi a loro volta la spia di un disequilibrio, ma una spia accesa ormai da quando avevo quindici anni e che non si spegne se non dietro lauto compenso e sempre e comunque in modo provvisorio. Un po’ come la cellulite. Non dovrebbe esistere una sorta di condono cellulitico, dopo tutto questo tempo? Trascorso un determinato numero di anni, non è più perseguibile per legge. Ormai ce l’hai e te la tieni, come la veranda abusiva del vicino o il gatto randagio che dorme ogni sera nel tuo giardino. Dopo un po’ non si fa prima a lasciarlo entrare e dargli un nome?

All’improvviso mi sono resa conto che quella sono io. Non è una malattia, non è un errore di fabbricazione, non è un difetto, sono io. Mi sono stufata di accanirmi contro me stessa, come se non ci pensassero già abbastanza l’avanzare degli anni e i sensi di colpa. Basta. No, non ho le gambe giovani e lisce e perfette che farebbero così bene il paio con l’immagine di me stessa che coltivo dentro e che nessuno vede, ma che fa capolino dietro i sogni e i sorrisi. Continuerò a prendermi cura di me stessa, ma non a misurarmi con un traguardo che non mi appartiene. Prima di guardarmi allo specchio, mi assicurerò che lo sguardo che giudica sia il mio, e il mio soltanto.

Niente prova bikini, quest’anno, insomma. Rimandata a mai più. Se quel che vedete non vi piace, sentitevi liberi di guardare dall’altra parte. Il corpo degli uomini viene esibito, si allarga, si espande, occupa spazio, lo rivendica, si fa metafora del loro potere. Il corpo delle donne viene limato costantemente dagli sguardi e dalle aspettative altrui. Ma è nostro, ci appartiene, possiamo farne quello che vogliamo, ed esistono sicuramente modi migliori di vivere i mesi in cui lo liberiamo dai vestiti che trasformarli in un esame continuo.

Non chiamatela prova bikini, almeno finché non esisterà anche una prova bermuda al maschile e la posta in gioco sarà esattamente la stessa, quella sorta di diritto di cittadinanza sulla spiaggia che le donne si guadagnano a suon di diete e creme anticellulite. C’è uno specchio di cristallo, nell’immaginario collettivo, uno specchio in cui noi donne riusciamo a vedere solo il riflesso del giudizio degli altri e mai davvero ed esclusivamente noi stesse. L’estate è un ottimo momento per provare a farne a meno. Per vedere soltanto il nostro corpo, in quello specchio.