“Io non lo so più chi sono.” La violenza di genere fra i minori

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Foto di Karen Arnold da Pixabay

Le bambine ribelli sono cresciute. E il femminismo non ha ancora trovato il modo giusto per parlare con loro. I toni infantili e le storie della buonanotte non servono più e per gli spunti adolescenziali più duri e senza filtro è ancora troppo presto. E così finiamo per lasciarle sole. Le lasciamo sole negli anni delle prime curve e delle prime mestruazioni, quando diventare donna rischia di sembrare una condanna, non un privilegio, quando la libertà ti si stringe addosso come il primo reggiseno. Rischiamo di lasciarle sole quando si affacciano alle relazioni di coppia e azzardano le prime definizioni dell’amore e del sesso.

Il discorso femminista non sempre arriva alle preadolescenti, non parla abbastanza il loro linguaggio, e le conseguenze iniziano a farsi sentire. Lo dimostra l’ultimo rapporto della fondazione spagnola ANAR (Ayuda a Niños y Adolescentes en Riesgo) che rivela come la violenza di genere aumenti fra preadolescenti e adolescenti in modo preoccupante. L’età dei minori che si rivolgono alla fondazione è sempre più bassa: la media sono 15,7 anni, contro i 16,1 dell’anno precedente, e il 17,6% rientra nella fascia fra i 12 e i 14 anni. Non solo, nell’1,8% delle situazioni l’adolescente convive con il suo aggressore.

“Io non so se la colpa è mia, se mi ama e mi odia. E la cosa peggiore è che se mi chiamasse tornerei fra le sue braccia, come faccio sempre.” “È geloso, non mi lascia uscire con le mie amiche, mi dà della puttana solo perché vado a farmi un giro. Mi ha detto che se lo denuncio mi ammazza.” “Mi insulta continuamente, mi dice che sono una zoccola, una schifosa… Io non lo so più chi sono.” “A volte devo farlo con lui perché se no si arrabbia e diventa violento.” “Io gli dico che non mi piace e lui mi risponde: dai, tranquilla, sopporta, abbiamo quasi finito.” Sono alcune testimonianze raccolte al telefono dell’associazione da ragazze di 15 e 16 anni.

Messaggi di WhatsApp dai toni sempre più violenti e minacciosi, l’obbligo di condividere la propria posizione in ogni momento, il controllo esercitato sul cellulare, la richiesta di fotografie intime come prova d’amore… Nel 67,5% dei casi le aggressioni avvengono per mano del fidanzato, nel 32,5 di un ex fidanzato. A quell’età le nuove tecnologie giocano ovviamente un ruolo rilevante, ma per il resto le dinamiche non cambiano.  Se non fosse che nel 39,3% dei casi l’aggressore ha meno di 18 anni e in due casi su dieci le vittime hanno fra i 12 e i 14 anni.

Il dato più preoccupante però è quello sulla consapevolezza. Nel 53,5% dei casi, la minore che chiama al telefono dell’associazione non è cosciente di essere vittima di violenza. Nell’80,9% dei casi non ha alcuna intenzione di denunciare. Siamo abituati a leggere frasi e dati simili nel contesto della violenza di genere, ma quanto fa male scoprire che a quindici anni ancora oggi puoi cadere in una relazione tossica, essere isolata dalle tue amiche, essere sminuita, insultata, umiliata, controllata in modo ossessivo, presa a schiaffi, violentata, e non riuscire a dare un nome diverso dall’amore a quello che ti sta succedendo? Se la forma di violenza più frequente fra le adolescenti è quella psicologica, questo significa che c’è stato un vuoto preoccupante nel discorso femminista rivolto a quella fascia d’età. Ce la siamo cantata e suonata fra di noi, insomma, e anche quando eravamo convinte di rivolgerci a loro, parlavamo un linguaggio così distante e incomprensibile da non riuscire a farci sentire, o a far venire loro voglia di ascoltarci.

L’età anagrafica delle vittime della violenza degli uomini sta diminuendo più in fretta della nostra capacità di adattarci e imparare il loro linguaggio. C’è una nuova sfida all’orizzonte del nostro discorso femminista e dobbiamo raccoglierla il più in fretta possibile.

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La gratitudine che uccide le donne

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Foto di Free-Fotos da Pixabay

La gratitudine in una coppia è pericolosa, quando si insinua nelle fondamenta e diventa materia stessa della relazione, quando la definisce. Come il rancore, vi apre crepe sottili e impercettibili, che finiscono per minarla e renderla fragile. Possiamo essere riconoscenti al partner per decine e centinaia di motivi diversi. Ma nel momento in cui siamo riconoscenti perché ci ha portate all’altare, perché ha accettato di formare una relazione stabile e mettere su famiglia, allora la gratitudine, come il rancore, rischia di trasformarsi in uno scarto impossibile da colmare. Una relazione nata all’insegna del debito non può essere sana, vi sarà sempre una parte più debole e una più forte, una che si sente in dovere di pagare il prezzo di quel debito e/o un’altra in attesa di riscuoterlo.

Che cosa succede allora in una società che ha fatto della gratitudine un aspetto fondante delle relazioni fra uomini e donne? In una società in cui gli uomini vengono “incastrati” dalle donne, trascinati all’altare, costretti a rinunciare al proprio scanzonato ego adolescente dai ceppi del matrimonio e da quelli della paternità? In cui alle donne con troppo carattere si dice che non troveranno nessuno che se le piglia e in cui “donna sola” è un ossimoro sgradevole che evoca gatti e porte che si chiudono invece di aprirsi? In cui le donne rompono, per definizione, e gli uomini le sopportano? Succede che le donne si convincono di dover essere grate all’uomo che le ha scelte, che se le è prese, che ha sacrificato la propria libertà per loro. Quando basterebbe dare un’occhiata alle statistiche per capire che, nel caso, la gratitudine dovrebbe essere tutta maschile, per ogni donna che accetta a suo rischio e pericolo di entrare in una relazione in cui vengono commessi l’85% dei delitti in cui la vittima è di sesso femminile.

Questo squilibrio di fondo nelle relazioni di coppia non è solo il pretesto per battute e barzellette tanto radicate quanto sessiste. Questo squilibrio di fondo uccide. È quella gratitudine a convincere molte donne a tacere, a sopportare, a pagare il prezzo per essere state sposate. È quella gratitudine che si traduce in diritto, compreso il diritto di alzare le mani, a volte. Ogni volta che facciamo i complimenti a una sposa e le nostre scherzose condoglianze allo sposo stiamo rafforzando una cultura che uccide. Ogni volta che una donna sente, da qualche parte dentro di sé, di dover essere grata all’uomo che l’ha sposata non per la felicità che le ha regalato, non per gli anni meravigliosi trascorsi insieme, non per i gesti quotidiani di rispetto e di amore, ma perché quella gratitudine rientra fra i suoi doveri di donna, diventa automaticamente più vulnerabile.

La colpa di chi uccide è sempre e solo di chi uccide. Ma ad armargli la mano, a volte, è un’intera società.

I sogni delle donne

Che curioso, il sogno della moglie del dentista era fare l’assistente dentale. Il sogno della moglie del meccanico era fargli da segretaria. E ti ricordi quel nostro amico, quello che sognava di aprire una tenda dedicata al ciclismo? Ce l’ha fatta e va alla grande. Sua moglie gli tiene la contabilità, è bravissima. Sì, è vero, voleva diventare fotografa. Avrà cambiato idea.

I sogni delle donne sono moneta da poco, perdono valore al primo ciclo mestruale, al primo vagito di un neonato, al primo appuntamento romantico. I sogni delle donne hanno qualcosa di vagamente osceno e infantile e pericoloso, vanno bene per i diari, devono essere nascosti dietro un lucchetto di cui poi gettare via la chiave, arrivate all’età adulta.

Altro che Tre metri sopra il cielo, i lucchetti dei nostri sogni irrealizati ce li portiamo appesi al collo, abbiamo dato in pegno la chiave in cambio di una famiglia, è il nostro ex voto per il desiderio di essere madri, di sentirci sicure, protette, accettate.

Non potevamo avere le due cose insieme, l’abbiamo sempre saputo, almeno le donne della mia generazione, nate negli anni Settanta, strette fra il bisogno di realizzarsi e la necessità del sacrificio. Le donne della mia generazione non hanno tempo per sé, hanno scampoli di sogni e di ore con cui ricavare piccole gioie segrete, con cui vestire il proprio quotidiano con la stessa capacità di arranagiarsi con cui si può ricavare un abito da sera da una tenda.

Non è un abito da sera, però, resterà sempre una tenda, proprio come i nostri scampoli non saranno mai sogni realizzati, qualunque cosa ci raccontiamo.

I sogni sono amanti esigenti, hanno bisogno di tempo, ci vogliono tutte per sé, almeno ogni tanto. I sogni delle donne non si realizzano di nascosto, vogliono la luce del sole, hanno bisogno di tutta la nostra forza e fiducia e determinazione, e muoiono sotto i sensi di colpa, appassiscono al primo dubbio. I sogni delle donne sono fragili e preziosi, e non sopportano di essere trascurati. I nostri sogni hanno bisogno di noi, proprio come quelli degli uomini, anzi, di più.

E sì, siamo ancora in tempo per realizzarli, non è troppo tardi, basta non perdere tempo ad aspettare il permesso altrui. Ci basta il nostro permesso e la convinzione di essere nel giusto. Siamo bellissime sempre, anche con una tenda addosso, ma con un vestito da sera ci crederemo di più, ci crederemo davvero anche noi.

Andiamo a ripescare la chiave dei nostri sogni, ovunque l’abbiamo gettata, andiamo a riprendercela da sotto il cuscino dei nostri figli, dalla tasca di nostro marito, dal fondo della nostra autostima, torniamo ad aprire quel diario e non lasciamo più che i nostri sogni facciano da assistenti a quelli di qualcun altro. Sì, solo perché lo vogliamo noi, perché l’abbiamo deciso noi, noi e nessun altro, e chi ci ama e ci merita ci seguirà. A cominciare da noi stesse.

Se hai paura, è violenza

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“Non sarà esagerato chiamare un centro antiviolenza se non mi ha mai messo le mani addosso?”

“Farò la figura della scema?”

“Mi diranno che hanno cose più gravi e importanti a cui pensare?”

Quando è violenza? Dove inizia la violenza psicologica? Quanti tipi di violenza esistono? Troppe donne non sono consapevoli di trovarsi in una situazione di pericolo, che le legittima a chiedere aiuto. Grazie alle risposte e alle testimonianze raccolte sulla pagina Facebook di Rosapercaso, ecco un elenco (incompleto) di casi in cui sì, è violenza. E sì, probabilmente hai bisogno di aiuto. Se ti sembra troppo presto, non aspettare che sia troppo tardi.

Se ti minaccia, è violenza.

Se ti controlla, se ti segue, se vuole sapere sempre dove sei, è violenza.

Se ti umilia, è violenza.

Se urla, è violenza.

Se prende a pugni le porte, se sbatte le sedie per terra, se spacca un bicchiere contro il muro, è violenza.

Se ti spinge, se ti pizzica, se ti graffia, se ti stringe troppo, se ti prende a calci, se ti strattona, se ti schiaffeggia, se non si ferma quando gli dici che ti fa male, è violenza.

Se ti costringe a restare in una situazione di dipendenza, di qualunque dipendenza si tratti compresa quella economica, è violenza.

Se non rispetta i tuoi no, è violenza.

Se vuole accompagnarti ovunque, se ti impedisce di andare in palestra, di viaggiare, di uscire con i tuoi amici o ti dice a che ora devi rientrare, è violenza.

Se ti fa sentire una nullità, è violenza.

Se pretende di gestire quello che ti appartiene, è violenza.

Se ti fa il vuoto attorno, è violenza.

Se limita la tua libertà in qualunque modo, è violenza. 

Se decide per te, è violenza.

Se ti colpevolizza, è violenza.

Se ti manda regali indesiderati e inopportuni, è violenza.

Se ti ignora costringendoti ad affrontare il suo silenzio, è violenza.

Se ti proibisce di lavorare o di studiare, è violenza.

Se ti addossa compiti e responsabilità che dovrebbero essere di entrambi, è violenza.

Se ti controlla il cellulare, è violenza.

Se hai paura, è violenza.

Se credi di avere bisogno di aiuto, o anche solo se vuoi scoprire se hai davvero bisogno di aiuto, puoi rivolgerti a un centro antiviolenza (li trovi sul sito di D.I.Re Donne in rete contro la violenza) o chiamare il numero gratuito 1522, il servizio pubblico del Dipartimento per le Pari Opportunità che offre sostegno per i casi di violenza e stalking.

No, non sei uno dei casi patetici di cui parlano i giornali o gli spot contro la violenza di genere, non lo sei perché non esiste una situazione uguale all’altra, come non esiste una donna, una relazione o una soluzione uguale all’altra. Ma fingere di non avere bisogno di aiuto non ti salverà. Provare a chiederlo forse sì.

 

Due cuori e una capanna e due stipendi

piggy-2889041_1280“Io voglio restare a casa con i miei figli, vederli crescere, preparare le torte insieme a loro il pomeriggio, portarli ai giardini e cucinare la cena a mio marito. C’è qualcosa di sbagliato? Perché dovrei sentirmi meno donna o meno femminista per questo?”

Decidere di non lavorare e restare a casa non ci rende, ovviamente, meno donne. E neanche meno femministe. Ci sono più battaglie femministe da combattere fra le pareti domestiche, forse, di quante non ce ne aspettino fuori. Su un punto però non dobbiamo ingannarci. Ci rende meno indipendenti.

Sarà poco romantico ricordarlo, ma dopo aver teso la mano per farci infilare la fede, la tenderemo palmo all’aria per farci passare i soldi che ci servono. E questo, per quanto ci si ami, per quanto sia stata una decisione comune, per quanto suoni sgradevole e odioso, non rende il rapporto paritario e mette la donna nell’eterna condizione di chiedere. Non facciamoci illusioni. I figli crescono, l’amore cambia e si trasforma, in meglio o in peggio, ma i soldi resteranno sempre lì, a far pendere l’ago della bilancia in una direzione sola. I soldi pesano. E nessuno, tranne voi, penserà che ve li siete guadagnati.

Suona tutto poco romantico, certo, ma non è che ricevere la paghetta a fine mese per “le nostre necessità” lo sia molto di più. E forse, fra i tanti miti romantici da rivedere c’è anche questo. Forse dovremmo iniziare a scrivere i nostri diritti partendo dalla fine della coppia, non dall’inizio. I soldi non sono tutto, ma dove c’è uno squilibrio economico c’è uno squilibrio di potere. E quello squilibrio di potere potrebbe fare la differenza fra la vostra felicità e la vostra infelicità, un giorno. Potrebbe impedirvi di uscire da una relazione pericolosa, tossica o semplicemente sbagliata. Potrebbe farvi sentire sempre l’anello debole della coppia. Potrebbe convincervi che il vostro valore dipende dalla sfera domestica e da quella di coppia, e che da sole, fuori nel mondo, non avreste alcuna possibilità. Che non ne siete capaci. Quante situazioni di abuso partono proprio da qui? Dalla convinzione della donna di non essere capace di farcela, fuori di casa e dalla coppia?

Ci sono molti modi diversi di vivere il proprio diritto a essere felici e non spetta a nessuno tranne noi decidere quale sia quello che ci assomiglia di più. Ma non facciamoci illusioni. I soldi fanno la differenza. Sempre. Qualunque sia l’equilibrio che troveremo, qualunque sia l’accordo a cui si giungerà, ricordiamoci che potrebbe arrivare il momento in cui quei soldi ci verranno rinfacciati. Potrebbe arrivare il momento in cui la persona di cui ci fidavamo di più ci chiederà dove cavolo crediamo di andare, se non abbiamo neanche i soldi per l’autobus. E noi non sapremo che cosa rispondere. E tutte le cene che abbiamo cucinato e i pavimenti che abbiamo lavato e i dolci che abbiamo preparato non varranno più nulla e, quel che è peggio, non serviranno a comprarci la libertà.

Donne, difendete il vostro tempo

people-2582815_1280“Però difenditi i tuoi spazi. Se non lo fai tu non lo farà nessuno.”

È quello che avrei voluto dire a un’amica, ce l’ho avuto sulla punta della lingua per tutta la durata della conversazione, mentre lei mi raccontava che da qualche tempo si dedica soprattutto ai bambini e alla casa, e ha messo da parte il lavoro, per un po’. “Del resto è lui che porta i soldi a casa, adesso.”

“È un circolo vizioso” avrei voluto dirle. “Più tempo hai a disposizione, più coltivi il tuo lavoro, più frutti ti dà. Meno tempo dedichi alla tua attività, meno la coltivi, meno frutti ti darà.” Quante donne conosco che hanno iniziato sottraendo solo qualche ora al proprio lavoro, per poi essere inghiottite sempre di più dalle esigenze familiari. La routine domestica è un aspiratore impazzito, cattura il più vicino, senza distinzioni, e lo trascina nel proprio vortice di spese, pasti da cucinare, vestiti da comprare, figli da accompagnare, domande a cui rispondere, sciroppi da dosare, orari da rispettare… Ed è un aspiratore senza fondo e senza fine. Più dai e più ti chiederà, più bisogni soddisfi più ne salteranno fuori. Ed è bellissimo, è un privilegio, questo cerchio di affetto e di cure, di amore e di preoccupazioni, è un lusso potervisi dedicare e probabilmente sarà la cosa che rimpiangeremo di più quando terminerà, ma è anche sfiancante. Ti lascia senza fiato. E senza tempo.

E per quanto il nostro compagno ci ami, per quanto ci incoraggi a seguire la nostra strada, per quanto creda in noi, non sarà lui a tirarci fuori dall’aspiratore. Mors tua vita mea. Suona terribile, lo so, ma nelle coppie con figli piccoli e senza nonni a portata di mano da schiavizzare  funziona un po’ così. Ci si vuole bene lo stesso, ma se tu lavori io non lavoro, e non c’è scadenza che regga davanti a un figlio con la febbre o al costo di una baby sitter a fine giornata.

Ecco, questo avrei voluto dire alla mia amica. Tieni duro, difenditi il tuo tempo, anche quando sembra un lusso. Anche quando sembra un vezzo. Anche quando significa creare tensioni in famiglia. Le tensioni passano, quando ci si vuole bene. Ma passa anche il tempo, passa veloce, e ci lascia più vecchie e più stanche e meno fiduciose nelle nostre possibilità. “Ne vale la pena”, avrei dovuto dirle questo. Ne vale sempre la pena, se si tratta di te.

Ma a lei non l’ho detto, per lo stesso motivo probabilmente per cui lei adesso lavora meno. Per non creare tensioni, perché le cose continuassero a scorrere, nel modo più facile per tutti. E così adesso lo dico a voi. A tutte le donne che leggeranno questo post e che lo condivideranno. Lo grido a pieni polmoni da qui. Donne, difendiamo il nostro tempo, ne vale la pena, non ce lo dirà nessuno probabilmente, ma se ci crediamo noi per prime non avremo bisogno di aspettare il permesso. Prendiamoci il nostro tempo. Difendiamolo con le unghie e con i denti. Non siamo egoiste, non siamo cattive mogli, non siamo pessime madri. Siamo solo noi stesse. E abbiamo bisogno di tempo. E va bene così.