La trappola del consenso nella cultura dello stupro

  1. Conformità di intenti e di voleri.
  2. Permesso, approvazione.

Quale di questi due significati della parola “consenso” abbiamo in mente, quando la usiamo in relazione a uno stupro? In quanti casi è un no mancato a travestirsi da consenso/permesso agli occhi di una società in cui la donna è sempre consenziente, salvo dimostrazione del contrario?

Nelle storie che arrivano a Rosapercaso, quando le donne sono in dubbio e si interrogano sulla definizione da dare alla violenza subita, è quasi sempre questo il discrimine: il permesso dove avrebbe dovuto esserci conformità di intenti e di voleri. Quelle donne si trovavano in una strada buia, in una situazione di pericolo, non avrebbero saputo come gestire un no, non si fidavano abbastanza di se stesse per dirlo, così hanno finito per accettare, per paura che lui diventasse violento, per non peggiorare la situazione. L’unica faccia del consenso che era possibile rintracciare era il permesso, non certo la conformità di intenti. Ti do il permesso di fare sesso con me, per evitare di essere lasciata sola in una strada isolata/di essere picchiata/di essere trattata da stupida/di essere umiliata… Nella realtà non abbiamo davanti un grande tasto rosso da premere per comunicare la nostra decisione. La realtà è fatta di momenti che corrono rapidi, di sensazioni che non abbiamo imparato a riconoscere e a tenere in conto, di cui non ci hanno insegnato a fidarci. In una realtà di analfabeti del consenso e del piacere femminile, la violenza sulle donne a volte precede (di qualche frazione di secondo o di qualche anno) la sua definizione, anche per chi la subisce. “Io non lo so se ho subito violenza, perché in realtà l’ho lasciato fare per evitare che andasse a finire peggio.”

Ed è spesso lì, in quel permesso travestito da consenso, il punto. “In realtà si conoscevano già, erano amici” mi hanno detto a mo’ di attenuante commentando lo stupro di una minorenne durante una festa in spiaggia. Se lui è uno sconosciuto che la trascina in un angolo con la forza, allora (forse) è stupro. Ma per tutto il resto il consenso è ovunque, basta cercarlo con un po’ di attenzione e ne trovi quanto ne vuoi. Perfino nelle parole delle vittime: era un mio amico, gli avevo sorriso, non gli ho detto di no, sono stata ingenua, avrei dovuto capirlo, avevo su un bel vestito.

La ragazza in spiaggia si era allontanata di sua spontanea volontà con un amico, poi era tornata dal gruppo piangendo. Ma fra amici, fra fidanzati, fra sorrisi e alcol e divertimento non è mai stupro. Al massimo la versione un po’ spinta di un gioco di potere, e piovono allegri gettoni di mascolinità tossica e cameratismo. E se proprio non si riesce a strappare un permesso, resterà sempre il desiderio maschile come eterna attenuante. Eccolo, allora, tutto il consenso di cui ha bisogno la cultura dello stupro.

  1. Conformità di intenti e di voleri.
  2. Permesso, approvazione.
  3. Qualunque cosa ecciti un uomo.

L’unico consenso che ha valore e significato è la conformità di intenti e di voleri. Non si tratta di aggirare un no o di portare a casa un d’accordo, ma di incontrare un sì, lo voglio. Tutto il resto è violenza.

Come insegniamo alle bambine a subire la violenza maschile

“I maschietti sono fatti così, sono più portati ai giochi aggressivi.”

“Ha bisogno di esprimere la propria energia, è molto fisico.”

“Se ti picchia è perché in fondo in fondo gli piaci.”

“È tutto testosterone!”

“È colpa tua che ti metti a piangere e gli dai soddisfazione.”

“Il mio Mario tocca già il sedere alle compagne, da grande sarà un donnaiolo.”

“Ha solo bisogno di sfogare l’energia.”

“Devi portare pazienza con lui, ha difficoltà di apprendimento e ti picchia per sfogare la frustrazione.”

“Non mettetevi la gonna, se non volete che i maschi cerchino di guardarvi le mutandine.”

“Con i maschi bisogna avere pazienza.”

“È il suo modo di esprimersi.”

“Se vuoi fare giochi da maschi, tanto vale che ti abitui.”

“Voi femmine siete più mature, cerca di capirlo e vai tu a chiedergli scusa.”

“Sicura di non avere fatto niente per provocarlo?”

Sono alcune frasi che probabilmente abbiamo sentito e forse anche detto, magari senza renderci conto che erano tanti mattoncini della cultura dello stupro che ci circonda e che dietro ogni frase si nascondeva il bisogno di giustificare la violenza maschile, perché è su quella violenza che poggiano le basi del potere in una società patriarcale. Possono sembrare innocue, ma sono frasi pericolose, perché abituano le bambine a essere dalla parte sbagliata del potere, a dubitare prima di tutto di se stesse, le convincono che il valore e la maturità di una donna si misurino anche con la sua capacità di sopportare. Lo dimostra il fatto che dietro quelle frasi si nasconda spesso la paura di crescere un maschio “debole”, che scivoli troppo lontano dalla propria posizione di privilegio. E sì, certo, esiste anche la violenza femminile, ma non fa parte del sistema di potere in cui viviamo e proprio per questo si è spesso molto più rapidi e meno esitanti al momento di condannarla.

Grazie come sempre alla community della pagina Facebook Rosapercaso, da cui arrivano questi esempi.

Non siamo mica tutti così (ma lo diciamo solo alle femministe)

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Si passa dal “Ma non siamo tutti così” a “Se voi femministe odiate gli uomini il problema non è nostro” curiosa contraddizione per cui se noi condanniamo un comportamento maschile ci viene risposto che non sono tutti così (loro, gli uomini), mentre noi invece (le femministe, donne) a quanto pare sì, siamo tutte così. Così come, non è dato capirlo. Incazzate, forse, e vorrei anche vedere. Incazzate senza garbo e senza grazia, peccato imperdonabile per il gentil sesso. Incazzate senza garbo e senza grazia per un problema che non ha niente a che vedere con l’accudimento altrui, ergo, al rogo.

C’è anche la versione più furbesca e malandrina del “Ero femminista anch’io, finché non ho capito che siete in guerra contro di noi” che sottintende probabilmente che scatti una ola alla dichiarazione di femminismo da parte di un portatore sano di testicoli, cosa che se non rientra nei motivi di beatificazione immediata dovrebbe se non altro garantirti uno stuolo di femmine adoranti.

Nello specifico, ho letto tutte queste reazioni al post in cui si denunciava un gruppo Telegram in cui padri si scambiavano foto delle figlie dodicenni, i fidanzati foto delle ex fidanzate e in cui la cosa più educata che si leggeva era l’invito a omaggiare a suon di sperma la foto della donna di turno. Il gruppo nel frattempo si è vantato di essere finito su Wired e ha già cambiato nome, come hanno fatto i molti che l’hanno preceduto e come faranno tutti quelli che verranno dopo. Sì, perché non basterà tutta l’indignazione social a fermarli, proprio come soltanto il coronavirus – forse – è riuscito a fermare i voli su cui posati capofamiglia cinquantenni andavano a fare sesso con minorenni thailandesi. Eppure anche in quel caso i “Non siamo mica tutti così” si sono sprecano da anni.

Perché non si fermeranno? Forse anche perché il mondo è pieno di tutti quegli uomini che non sono mica tutti così, ma quando ricevono un meme sessista su whatsapp rispondono con l’emoticon che si sganascia dalle risate. Poi certo, fra sé sono sicura che si stracciano le vesti per l’indignazione, ma quanti di loro davanti alla foto di un culo o di un paio di tette con battutaccia scopereccia di rigore alzano le dita sulla tastiera e scrivono “Questo meme nasce dalla stessa cultura dello stupro che in altri contesti vi fa schifo, cari miei, decidetevi”?

Quindi no, non siete tutti così, ma se viviamo in una società affascinata dalla violenza maschile, immersi in una cultura tutta testosterone, dove il maschile è potere e tutto il resto sono gradevoli sfumature di piacevolezza e maternità, se il femminile è un’eccezione di cui continua a decidere il genere maschile, questo succede perché il maschile se l’è conquistato non a suon di meriti, ma a suon di stupri, veri o virtuali che siano. Quello stupro a cui allude la metà dell’immaginario e dei messaggi da cui siamo circondati. Succede perché lo stupro è un’arma di potere e il motivo per cui pochi uomini fanno la morale davanti agli amici maschi, anche se poi drizzano la cresta indignati nei gruppi femministi, è che nel fondo lo sanno. Lo sanno che la loro indignazione stonerebbe come una nota non accordata, lo sanno che la loro indignazione li rende deboli fra i maschi e forti fra le femmine.

Quindi sì, vi crediamo, non siete tutti così. Ma non è a noi che dovete spiegarlo. Andate a dirlo alle persone giuste. Nei contesti giusti. Quando state per farvi una risata davanti a quel bel culo femminile e a tutto quello che in quel momento qualcuno millanta di farci, fermatevi a pensare a quanta fatica ci vuole per dire che “no, non fa ridere” e avrete la misura di quanta strada resta ancora da fare. A tutti quanti, insieme.

Uomini che amano le donne

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Foto di Igor Ovsyannykov da Pixabay

“L’uomo che ama le donne.” L’ho letto di recente in un titolo, non ricordo riferito a chi, a uno stilista, mi pare. Basta provare a inserire “l’uomo che ama le donne” in Google e i risultati non mancano. Sono decine, forse anche di più, gli uomini che sono stati fregiati del titolo. Stilisti, registi, dalla bellezza all’erotismo, dai capelli alle scarpe alla moda, chi se ne occupa, per definizione, “ama le donne”. Ora provate a cercare su Google “la donna che ama gli uomini”. I risultati sono molti di meno e sono tutti porno.

Mi è tornato in mente in questi giorni in cui si parla di registi quarantenni che abusano di ragazzine tredicenni e vengono comunque difesi da un esercito di sì, ma e però. Perché il nesso esiste. L’amore degli uomini verso le donne ha sempre qualcosa di magnanimo, generoso, inattaccabile. Nessuno degli uomini che sono stati definiti così è automaticamente uno stupratore, va da sé, ma l’idea di amore sottesa a quella definizione è la stessa che rende tanto facile giustificare lo stupro di una minorenne, soprattutto quando l’uomo in questione è ricco e potente. Perché l’amore degli uomini ha sempre i toni della concessione. L’amore degli uomini, nella mentalità e nella cultura dello stupro in cui siamo immersi, non è quasi mai colpevole.

L’amore delle donne invece sì. L’amore delle donne è egoista, esigente, fastidioso, molesto. Le donne che amano gli uomini non concedono, si prendono qualcosa di loro, danno sfogo a libidini e lussurie che hanno qualcosa di illecito non appena escono dal letto coniugale. L’amore degli uomini è simpaticamente godereccio, un po’ zozzone a volte ma comunque romantico, abbastanza da cancellare ogni abuso di potere, anzi, più grande è il potere, più piccolo sembra diventare l’abuso, più lo stupro finisce per tingersi di privilegio, un biglietto di sola andata per il successo.

Gli uomini che amano le donne esistono, certo, ma dovrebbero essere le donne a scrivere la definizione e i confini di quell’amore. Finché a deciderlo saranno gli uomini o una cultura declinata al maschile, i quarantenni ricchi e famosi continueranno a stuprare tredicenni in un silenzio colpevole, e se non saranno abbastanza ricchi e famosi, voleranno fino a un paese in cui lo sembrano, e ci sarà sempre qualcuno pronto a dire sì, ma anche lei però. E un sacco di uomini pronti a spiegare alle minorenni perché quello non era uno stupro.

 

Dolcemente complicate

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Un giorno il padre di un’amica mi raccontò che l’animale a cui più aveva voluto bene era stato un pappagallino cenerino. Era morto una notte d’estate, se lo ricorda perché era la settimana più calda degli ultimi dieci anni, secondo la televisione, e lui non riusciva a dormire. E al piano di sotto il pappagallo non stava zitto un secondo.

Al mattino, quando si alzò, lo trovò morto. Si avvicinò alla gabbia e si accorse che era rimasto senz’acqua. “Come facevo a capirlo?” mi chiese, sconsolato. Mi trattenni dal fargli notare che probabilmente era quello che l’animale aveva cercato di dirgli per tutta la notte, mentre lui sprimacciava il cuscino e gli gridava di non rompere e lasciarlo dormire.

L’episodio mi torna in mente ogni volta che sento un uomo sostenere che le donne non le capisce nessuno e che diciamo una cosa ma ne intendiamo un’altra e che è impossibile decifrare che cosa vogliamo. Nove volte su dieci, quello stesso uomo poi si lamenterà perché la fidanzata non sta zitta un attimo e non fa che dargli il tormento e parlare e parlare, perché le donne devono sempre essere così rompiscatole e non ci lasciano in pace, ogni tanto?

Siamo come quei pappagallini senz’acqua. Parliamo e nessuno ci sta a sentire, perché la voce delle donne è fastidiosa, è carica di pretese e di capricci e di presunzione. La voce degli uomini sa, insegna, consiglia, informa. La voce delle donne è lamentosa, arrogante, incontentabile, umorale. E così, che strano, nessuno ci capisce e a nessuno sorge il dubbio che forse, se ci ascoltassero, scoprirebbero che non c’è niente di così misterioso e impenetrabile in noi.

Chissà, forse ascoltandoci qualcuno scoprirebbe che abbiamo dei sogni e che i nostri sogni hanno bisogno di tempo e che spesso è del sacrificio di quei sogni che si nutre l’equilibrio domestico e familiare. Che averli calpestati ha reso tutto più facile agli altri, ma ha reso tristi e insoddisfatte noi. Che i nostri progetti sono incompatibili con la cura altrui, che la nostra forza non serve solo a sopportare, anche a creare. Che se non ci proviamo, quasi sempre, è perché ci hanno convinte che non ne saremo capaci. E che se stiamo zitte, molto spesso, è perché sono riusciti a farci sentire sole e sbagliate, fra tante altre donne che si credono sole e sbagliate in silenzio.

Se ci ascoltassero, scoprirebbero che la violenza sessuale ha mille facce diverse, che avviene anche nel silenzio e non solo fra urla e schiaffi. A volte perfino fra una dichiarazione d’amore e l’altra. Se ci ascoltassero, si renderebbero conto di quanto suona vuota la parola violenza del loro vocabolario in confronto all’umiliazione, all’impotenza, ai sensi di colpa, al mutismo doloroso in cui sprofondano le donne che subiscono, che perdono il diritto sul proprio corpo. Se ci ascoltassero scoprirebbero mille sfumature di dolore, quel dolore che non lascia lividi e non lascia tracce, in una cultura che non ha interesse ad ammetterlo e a riconoscerlo.

Se ci ascoltassero, forse, sarebbe più facile capire che quando una donna viene penetrata senza averlo deciso e senza averlo desiderato, quella è violenza. Che se una ragazzina ubriaca viene penetrata a turno da più uomini, quella che ha subito è un’aggressione che nessuna società civile dovrebbe tollerare. Anche se non ha detto di no. Perché se ci ascoltaste, quel no l’avreste sentito eccome, l’avreste sentito nascere dentro di voi, prima che sulle labbra di quella ragazza. Se ci ascoltaste, invece di sbuffare e girarvi dall’altra parte nel letto, forse avremmo qualche possibilità in più di salvarci.

Fai un favore a tuo figlio, regalagli un romanzo d’amore

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A partire dai 12 anni, quasi tutti i ragazzini hanno in mano un cellulare, alcuni anche molto prima. Questo significa, con buona pace dei genitori che fingono di non saperlo, che a partire dai 12 anni praticamente tutti hanno visto un contenuto pornografico. Chiunque abbia fatto una ricerca su Google sa quanto sia facile arrivarci, anche involontariamente. Da lì ai video porno la curiosità è tanta e il passo è breve. E non c’è Safe Search che tenga, purtroppo, se teniamo conto dei cellulari degli amici.

Il problema non è solo che quando penseremo che sia arrivato il momento della storiella delle api e dei fiori, nostro figlio ci chiederà se durante un sessantanove è meglio usare il preservativo oppure no, il problema non è che imparano tutto prima, il problema è che lo imparano nel modo sbagliato.

Non si tratta più di qualche rivista “sconcia” nascosta fra gli asciugamani del bagno, i nostri figli non sognano le conigliette di Playboy, perché dovrebbero accontentarsi di quelle, quando hanno un universo di dettagli anatomici e prodezze sessuali a portata di clic? Ed è così che sul terreno fertile e indifeso di un’immaginazione sessuale ancora tutta da formare, arrivano le immagini dei video porno. Un porno che a sua volta è cambiato e non si limita a essere esplicito e godereccio. I video a cui hanno accesso i nostri figli sono infarciti di violenza legittimata da una patina sottilissima di consenso; in quei video il corpo femminile viene abusato, conteso da cinque o sei uomini, sminuito, usato come strumento di castigo, in quei video l’umiliazione e la degradazione sono moneta corrente e vengono spacciate per trasgressione, divertimento ed eccitazione. Le situazioni che si sono trovati davanti i 28 miliardi di visitatori annui nel mondo (e questo solo per la piattaforma Pornhub, che rende noti i suoi dati ogni anno) in molti casi non erano dissimili da quelle che ci indignano quando le leggiamo sui giornali. Non c’era stupro, certo, ed è una differenza non da poco, ma questo non ha impedito a quei video di cementare la cultura dello stupro e renderla sempre più radicata e inattaccabile. Le cifre lo dicono meglio di qualunque post: nel 2017 le ricerche su Pornhub sono state 800 al secondo, come gli hamburger venduti da tutti i McDonald’s del mondo in un secondo, fa notare la stessa piattaforma.

“In una società senza educazione sessuale, il porno è il tuo libro di istruzioni.” Era il messaggio di un video del Salone erotico di Barcellona, che non ha molto da insegnare in termini di educazione di genere, ma che su un punto è andato a segno. Se cresci pensando che il sesso sia quello che vedi nel porno, cresci anche pensando che una ragazza scollata sia una ragazza che aspetta di essere violata, cresci pensando che se una donna non grida aiuto non si tratta di stupro, e che il rispetto sia da riservarsi per l’amore e abbia poco a che vedere con il sesso.

Serve un’educazione sessuale che compensi i vuoti in cui prolifera il porno e ne limiti i danni. Serve un porno femminile più diffuso, probabilmente, che proponga una visione diversa del sesso. I dati forniti da Pornhub per il 2017 rivelano che le donne che hanno usato il sito in Italia sono state il 23 per cento, nel mondo il 26 per cento. Un quarto degli utenti, quindi.

E le altre? Dove vanno le donne quando hanno voglia di esplorare il piacere, anche sessuale? La risposta arriva dal successo delle Cinquanta sfumature, probabilmente. Vanno in libreria, o in edicola. Leggono erotici. E leggono rosa. Per anni, soprattutto prima di internet, il rosa è stato il luogo in cui le donne andavano alla ricerca dell’educazione sentimentale e sessuale che non trovavano altrove. Era il posto in cui confrontarsi, in cui misurare le proprie emozioni, trovare conferme, rispecchiarsi, capire la propria sessualità e sentirla meno estranea. Era il posto in cui affrontare problemi tipicamente femminili che altrove venivano banditi, in cui esplorare la propria intimità, in cui i desideri e le paure venivano declinati finalmente al femminile. Non senza zone oscure, a sua volta, nei confini talvolta troppo labili fra passione e autorità, fra innamoramento e sottomissione.

Quando si parla di genere e letteratura, l’accento cade sempre su argomenti sacrosanti come il diritto delle donne a leggere e scrivere quello che vogliono. Un tempo, al termine di una cena in una nobile dimora, le donne si spostavano nel salottino rosa a chiacchierare di frivolezze come gli abiti e l’amore, e gli uomini invece migravano nel salottino blu a discutere di argomenti seri come i sigari e la guerra. Le lotte femministe sono riuscite almeno in parte a portare le donne nel salottino blu, a dimostrare che anche noi siamo in grado di parlare di argomenti seri e che quegli argomenti ci interessano, tanto quanto agli uomini. E lo stesso è successo nel mondo della letteratura, convincendo sia pure faticosamente gli amanti del giallo, per esempio, che esistono scrittrici più che valide che si cimentano in quel genere.

Quello che il femminismo non è ancora riuscito a fare, invece, è stato portare gli uomini nel salottino rosa. E non ci può essere una vittoria all’orizzonte, non si arriverà mai alla radice delle diseguaglianze di genere, finché questo non succederà, anche in letteratura. Finché gli uomini non si convinceranno che non esistono i “problemi” e i “problemi femminili”, finché non la smetteremo di essere una sottocategoria dell’umanità, finché quello che ci riguarda, che non succede solo nel salottino rosa, ma anche lì, non riguarderà tutti, uomini compresi. E quale momento migliore di questo, per farlo? Quale momento migliore per cercare di portare gli uomini nel “salottino rosa” di questo, in cui i ragazzi rischiano di diventare tasselli inconsapevoli di una cultura dello stupro sempre più pervasiva e dominante? Quale momento migliore per cercare di riscrivere la sessualità anche in questo modo, convincendoli a sbirciare nel rosa, fra le pagine delle storie d’amore?

Dopo aver usato tante energie per convincere le donne che non hanno bisogno di un principe azzurro, (travisando almeno in parte il messaggio delle favole e delle storie d’amore, che in realtà insegnano a sognare e a combattere per quel che si vuole, a sconfiggere i propri sensi di colpa e le proprie paure), perché non proviamo a usarne altrettante per convincere gli uomini a fare loro un passo in più e a spostarsi nel salottino rosa, per conoscere il sesso e l’amore da un punto di vista diverso e smettere di considerare quel punto di vista esclusivamente femminile? Perché non approfittare degli strumenti offerti dal genere letterario più venduto, per combattere un immaginario sessuale pericolosamente infarcito di violenza e abusi, che si riflette sempre più spesso nelle dinamiche sentimentali e di coppia? Per disegnare un mondo in cui ciascuno sia finalmente libero di andare nel salottino che gli pare, sulla base degli argomenti che vi si discutono e non del sesso di chi lo frequenta.

Approfittiamo dei romanzi d’amore, allora, soprattutto adesso che sono più consapevoli e femministi, popolati da donne forti, intelligenti e decise, non da donzelle svenevoli e lamentose. Difendiamo i romanzi d’amore ben scritti, sdoganiamoli, facciamo un favore a tutti e regaliamoli, soprattutto ai maschi.