Sui social siamo tutte ribelli, condividiamo i post più battaglieri, esortiamo le altre donne a fare la voce grossa e ci facciamo grasse risate al primo segno di debolezza altrui.
In libreria siamo tutte ribelli, ci riempiamo le braccia di libri sul femminismo, riempiamo i nostri scaffali di storie di donne che ce l’hanno fatta e la testa e i sogni delle nostre figlie di parole come forte, indipendente, guerriera.
Eppure io di donne ribelli fuori dai social e dalle librerie ne vedo poche, confesso. Vedo donne stanche, esauste, che schizzano via dall’ufficio per portare i figli in piscina perché il marito non può, deve andare a correre con gli amici. Vedo donne oberate di carichi e di pensieri, che si svegliano mezz’ora prima per stirare la camicia al compagno, che si affannano per essere o sembrare l’angelo del focolare. Vedo donne che si vantano di non sedersi fino a fine giornata, che si vantano di farsi in quattro e in otto e in cento mille pezzi per i figli e un’idea di famiglia che poco assomiglia alla felicità.
Vedo donne che si indignano al primo slogan in odor di maschilismo, ma che criticano le donne che hanno accanto al primo segno di debolezza. Vedo donne che confondono la forza con il valore, l’efficienza con la felicità, la cura degli altri con la propria. Sento di donne che continuano a morire per mano dei compagni, che continuano a non essere indipendenti economicamente perché mettono il proprio lavoro in secondo piano, che continuano a occuparsi di tutto prima che di se stesse.
Che cosa ce ne facciamo, allora, di tante storie di donne ribelli? Dove vanno a finire, una volta uscite dai social e dalle librerie? Forse le donne non hanno bisogno di tanti slogan, ma di essere più sincere con se stesse, di pretendere meno o di più dalle proprie forze, di ignorare le richieste altrui, di imparare a perdonarsi. Forse non hanno bisogno di esempi illustri, ma di accettare la propria debolezza, la propria leggerezza e la propria stanchezza. E forse hanno bisogno (anche) di ribellioni diverse da quelle di cui parlano i social. Di ribellioni silenziose e discrete, di piccoli gesti, di no prima sussurrati e poi detti ad alta voce, di non perdere mai di vista il proprio spazio e i propri sogni, di avere sempre “una stanza tutta per sé”.
Vedo donne che avrebbero bisogno di essere meno ribelli, forse, e più più felici.
La rivoluzione è donna. Che sollievo. Che sollievo capirlo e non sentirsi più tutte sbagliate. La rivoluzione è donna e non c’è felicità senza trasgressione. E non c’è trasgressione senza solitudine. E va bene così.
Prima lezione dei romanzi rosa: la donna per essere felice deve guardare a se stessa in modo diverso. E non è mica tanto facile, quando ogni ventotto giorni madre natura ti rimette al tuo posto, quando gli ormoni fanno di te quello che vogliono, quando per capire che giorno è basta il tuo umore e non c’è bisogno del calendario, quando per cinque giorni al mese vai in giro con qualcosa nelle mutande, con buona pace dei pubblicitari che ci infilano i pantaloni bianchi e ci fanno fare le capriole (si infilino il cotone nel sedere e le facciano loro, le capriole).
Non sta bene parlarne, non lo si dovrebbe dire, lo so, la donna soffre in silenzio. Certo, se toccasse agli uomini probabilmente sarebbe una festa nazionale. In memoria del sangue versato per la sopravvivenza della specie, o qualcosa del genere. Ma noi siamo donne, quindi soffriamo e sanguiniamo in silenzio, grazie e prego e tanti saluti agli assorbenti passati dal sistema sanitario. E ringrazia che io ai tuoi tempi avevo le mutande di plastica e non potevo andare in spiaggia.
Seconda lezione dei romanzi rosa: la donna per essere felice deve trasgredire. Deve trasgredire i confini della propria condizione economica e sociale, deve osare e superare i propri complessi e i propri limiti e le proprie insicurezze. Non è che una donna può vivere la propria vita di tutti i giorni e ops, ci inciampa, nella felicità, tu guarda è sempre stata lì e non l’avevo mai vista. No, bisogna osare, uscire dalle regole, alzare la testa, essere un po’ meno ligie al dovere, un po’ meno compiacenti. “Con quel caratteraccio non andrai mai da nessuna parte”, insomma, è la balla più grande che ci abbiano mai raccontato.
Terza lezione dei romanzi rosa: per essere felici dobbiamo smettere di sentirci in colpa. Se non abbiamo traumi nascosti nel passato, castighi da scontare, tragedie familiari nascoste nel cassetto, ci resta pur sempre la cara vecchia Sindrome dello Strofinaccio con cui fare i conti. No, non possiamo essere felici e servizievoli, non tutte e non necessariamente. Per essere felici non è necessario rimboccarci le maniche, come ci insegnavano le nostre mamme, ogni tanto basta alzare il dito medio e sollevare i piedi sul divano.
Insomma, facciamocene una ragione, a volte tocca alzare la voce, girare le spalle, dire la cosa sbagliata al momento sbagliato, farsi riconoscere, perché sono le bambine che si sentono dire “non farti riconoscere” “sento solo te” “non gridare”, sono le bambine e le ragazze che devono farsi piccole piccole e occupare meno spazio, quel che è concesso al gentil – dito medio – sesso. A volte allora l’unica soluzione è lasciare che ci piovano addosso critiche come coriandoli e spazzarcele di dosso con la stessa leggerezza.
La rivoluzione è donna. Non c’è felicità possibile senza rivoluzione. Non è maleducazione. Non è ingratitudine. Non è mancanza di rispetto. Non è volgarità. Siamo solo nate per occupare più spazio di quello che ci hanno dato, e adesso stiamo per riprendercelo. E no, non lo faremo necessariamente con le buone.
Nell’immaginario popolare le femministe sono, spesso, quelle donne che nel privato le proprie battaglie le hanno già vinte. Le femministe hanno le idee chiare, sono battagliere, inarrestabili, sono preparate, colte, determinate, coraggiose. Le femministe hanno una mappa dei punti erogeni che neanche alla Nasa, conoscono la propria vagina come il cassetto delle posate, con il pudore ci si soffiano il naso e al primo rigurgito maschilista si trasformano nella versione incazzata di Lara Croft, una specie di via di mezzo fra Wonder Woman e la Sora Lella, e fanno pentire il malcapitato di essere nato uomo.
Nell’immaginario popolare le femministe sono esigenti e intransigenti. Il femminismo per alcune donne non è uno strumento o una mano tesa, non è una conquista, non è quella preziosa rete di solidarietà e collaborazione che lo rende speciale. Per alcune donne il femminismo è una prova da superare, è un traguardo irraggiungibile, è ansia da prestazione, è un po’ come il gruppo delle ragazze popolari al liceo: se hai l’apparecchio ai denti e non sai fare benzina, ti emozioni al momento sbagliato e vuoi qualcuno che ti apra la porta al ristorante, ti versi il vino e divida il conto, sei fuori.
Il romance non fa tante domande. Il romance è anonimo, rassicurante, nel romance c’è posto per tutte, belle e brutte. Nel romance i sospiri non hanno note a piè di pagina e norme ortografiche da rispettare. Per questo il romance è liberatorio, perché offre e ha offerto a molte donne un terreno di confronto, il posto dove dare un nome a ciò che provavano, dove trovare una definizione rassicurante ai propri sintomi, a quella voglia e quel bisogno di evasione, di sensazioni, di sogni, che in un quotidiano fatto di doveri e ricette e lavatrici, rischiano di suonare pericolosamente sovversivi e sbagliati. Ed ecco che nelle pagine del romance compaiono gli stessi sintomi. E, sorpresa sorpresa, pare che non ci sia niente di male. È normale. Non ditelo in giro, ma è del tutto normale. La felicità femminile a volte assomiglia un po’ alla masturbazione: si può praticare, è del tutto normale, per carità, ma meglio tenersela per sé e non tirarla fuori, chessò, a tavola a cena. E nel dubbio, meglio ricorrervi con moderazione, si sa mai che si diventi cieche davvero.
Così, se non puoi andare in un seminterrato, fumare marijuana, tirarti giù le mutande con una mano e reggere uno specchio nell’altra, come abbiamo visto fare nei gruppi di autocoscienza dei film, se non hai il coraggio o l’attitudine per quello, le pagine di un romance saranno meno esigenti. E qualcosa si impara lo stesso.
Il romance per molte donne è stato e continua a essere uno spazio di crescita, è stata una mano tesa verso la loro educazione emotiva e sessuale. Il romance è liberatorio, a qualunque età. Il romance è lo spazio in cui la nostra follia diventa innocua, i nostri sogni meno improbabili e le nostre inquietudini meno scandalose. Ecco, allora, il ponte teso fra rosa e femminismo, quel ponte di corda un po’ traballante che dovremmo rendere sempre più solido e attraversare più spesso.
E oggi che il romance sembra guardarsi intorno un po’ spaesato, fra le avventure spesso dilettantesche del self, fra le pericolosissime derive dark fra stupri e dominazione spacciata per romanticismo, e le tentazioni autoriali talvolta traballanti, oggi quel ponte è una tentazione sempre più forte, di quelle a cui vale la pena di cedere.
Da una parte del ponte c’è un genere in crisi di identità (ma non di vendite), dall’altra c’è un’etichetta usata fino allo sfinimento, contesa fra il marketing e il rigore della vecchia guardia e la caccia ai clic a suon di provocazioni. Che cosa succederebbe se la smettessero di guardarsi intorno e provassero ad andarsi incontro? Sarebbe un matrimonio combinato o vero amore?
Non lo sapremo mai finché non ci proviamo, ma a me il rosa e il femminismo sembrano sempre di più i due attori di una commedia romantica che si ostinano a cercare l’amore altrove quando il pubblico ha già capito da mo’ che la coppia prescelta sono loro e aspetta solo il momento del bacio. Sono entrambi mossi da una passione e da un entusiasmo rari, sono capaci di creare reti femminili solide e intraprendenti, sono fucine di sogni ed emozioni, sono mossi dallo stesso anelito verso la libertà e la trasgressione di norme che non ci appartengono, verso la rottura del quotidiano per aprirlo al nuovo. Insomma, come tutti i protagonisti romantici che si rispettino, sono fatti l’uno per l’altra, anche se tutto sembra indicare il contrario.
Si baceranno o non si baceranno? Il femminismo arriverà in tempo all’aeroporto per impedire al rosa di decollare verso il dark romance o il diario adolescenziale? Il romance salverà il femminismo dai roghi del #metoo e dai pregiudizi retrogradi e dagli slogan acchiappaclic? Ancora non lo sappiamo, ma io continuo a tifare per loro.
Quando abbiamo confuso lo star bene con l’essere felici?
Quando abbiamo lasciato che la nostra vita diventasse uno spot, in cui il benessere viene prima di tutto?
Ci siamo lasciati confondere. A furia di sentirci ripetere che il bagnoschiuma ci coccolava, che il cotone sulla pelle ci faceva bene, che la crema al cioccolato portava il nostro nome, ci siamo convinti che la felicità fosse quella cosa lì.
Abbiamo scambiato la comodità per un’ambizione, il piacere dei sensi per un obiettivo, abbiamo ceduto i nostri sogni per un pugno di morbidezza. Le nostre giornate per un pugno di foto costruite ad arte.
Quando ci siamo dimenticati che la vita è una corsa contro l’inadeguatezza e il dolore, che la scomodità è un calcio in culo che ci spinge verso i nostri sogni, non un segno di fallimento? Quando sono riusciti a convincerci che il benessere fosse la meta e non una condizione provvisoria che non dura neanche il tempo di uno scatto? E che non merita molto di più?
La vita vera passa per la malattia, per la paura, passa per le ferite dell’animo e del corpo, passa per i dolori che ci affliggono ogni giorno e che nascondiamo sotto il trucco e la messa in piega e i filtri di Instagram.
La vita è fatta di malattie temute e schivate, e di altre che ti investono come un treno merci e ti costringono a scordare tutto il resto, proprio quando scopri di averne bisogno. La vita è fatta di paura, di chili di troppo, di sangue, di rughe, di macchie, di capelli bianchi, di litigi, di incomprensioni, di fallimenti, di tensioni e delusioni e di parole sbagliate dette nel modo sbagliato. La vita è tutto quello che ci hanno convinto a nascondere sotto il tappeto come la polvere e che invece parla di noi. La vita siamo noi quando meno ci piacciamo, quando ci fa male tutto quanto, quando non siamo all’altezza, quando ci sentiamo soli, quando ci sembra di non farne una giusta. Quando cadiamo e poi ci rialziamo. No filter. Perché è chi sa rialzarsi chi vive davvero, chi sogna, chi rischia, chi ama, chi sbaglia, chi prende testate contro il muro in continuazione, chi arriva sempre troppo tardi, chi è sempre fuori moda, fuori tempo, fuori tema. Chi non sta bene.
Non voglio una foto su Instagram per ogni momento felice. Voglio un sogno per ogni fallimento, una storia da raccontare per ogni ferita, un amico per ogni paura, un nuovo inizio per ogni fine. Voglio ritrovare me stessa sul fondo dei miei sbagli, nella fatica e nel dolore, nelle perdite e nei fallimenti.
Voglio una vita tutta sbagliata per i social in cui trovare la parte migliore di me, quella che resiste, nonostante tutto. Voglio cercare me stessa e trovare tutte le mie ferite e il coraggio di guardarle in faccia a una a una senza vergognarmi. Non voglio la morbidezza del benessere e il languore compiaciuto di successi passeggeri. Voglio essere orgogliosa dei miei sbagli, nonostante tutto, e dei miei mali. E il giorno in cui riuscirò a indossarli come indosserei il mio vestito migliore, senza nasconderli per paura di svelare le mie debolezze e la mia fragilità, allora forse proverò qualcosa di simile alla felicità.
La situazione è sempre la stessa. Siamo in coda al self service e qualcuno deve prendere qualcosa nel frigorifero accanto alla fila, allungando il braccio.
Una delle due persone era un uomo e l’altra una donna. Vediamo se indovinate chi ha detto che cosa. Scommetto di sì.
«No, è rotto, mi spiace.»
L’ha ripetuto fino allo sfinimento, una ragazza in treno, seduta accanto a un sedile ribaltabile rotto. Non diceva «Attenzione». Non lasciava che si sedessero e guardava dall’altra parte. Li avvisava e sentiva comunque il bisogno di scusarsi, neanche fosse colpa sua. I passeggeri tiravano dritti, qualcuno la ringraziava, qualcun altro no. Poi è arrivato un uomo sulla quarantina, aspetto e statura nella media. Ha fatto per sedersi, lei lo ha avvertito, si è scusata e gli ha offerto il proprio posto… e lui ha accettato! Come se fosse la cosa più normale del mondo.
Presentazione di due autori, un uomo e una donna, parimenti famosi.
L’autrice sorride, sceglie un tono umile e competente assieme, riesce a far ridere il pubblico, resta seduta. L’autore si alza, declama le doti del proprio libro, i propri successi personali. La donna ringrazia le persone che leggeranno il libro, l’uomo dà per scontato che lo faranno. Proprio come gli autori uomini che sui social si sentono in diritto di scriverti privatamente per avvisarti che è uscito il loro libro e che sono certi che ti interesserà. Sulla base di che cosa, poi, se è la prima volta che ti scrivono e non avete avuto alcuno scambio in passato? Non sono ovviamente tutti così, ci sono autrici sfacciate e autori modesti e simpaticissimi.
La prepotenza non è una caratteristica tipicamente maschile e la docilità non è un tratto tipicamente femminile. Ma resta il fatto che le donne si sentono spesso in dovere di chiedere scusa, di aspettare il permesso, di tenersi in disparte, di farsi perdonare se occupano tutta la scena o di ringraziare per avere avuto la possibilità di farlo.
Le donne tendono a scegliere gli altri come misura del proprio valore, a impostare la propria felicità sulla soddisfazione e la felicità altrui, sanno che la compostezza è una virtù che mette al riparo da ogni critica, che un sorriso modesto servirà a schivare i colpi, che non si entra mai a gamba tesa in una discussione fra uomini.
«La tua bisnonna sì che ci sapeva fare con gli uomini, diceva sempre di sì al tuo bisnonno e poi faceva di testa propria.» Quante donne della mia generazione sono cresciute sentendoselo ripetere? Siamo la generazione dell’indipendenza ma con riserbo, dell’emancipazione ma senza alzare troppo la voce, dell’insegui pure i tuoi sogni ma senza richiamare l’attenzione. Questo se si era fortunate.
Finché non riusciremo a spostare lo sguardo e a dirigerlo verso noi stesse al momento di cercare la ragione e il permesso, finché non la smetteremo di aspettare l’autorizzazione e il beneplacito altrui, finché non la smetteremo di chiedere scusa, non riusciremo a scrollarci del tutto di dosso le maglie del genere.
C’è una sottomissione strisciante, la vedo nelle madri verso i figli maschi, nelle mogli verso i mariti, nelle colleghe verso i colleghi, la vedo nelle donne più emancipate e istruite, in quelle giovani e in quelle meno giovani. La convinzione che ci portiamo sottopelle che tenere testa a un uomo sia un affronto, che la donna perbene non contraddice mai il marito davanti agli altri, mentre lui può farlo senza ledere la dignità e la reputazione di nessuno.
Allora smettiamola di chiedere scusa, smettiamola di sentirci indifese se entriamo da sole in un bar pieno di uomini, smettiamola di sentirci in colpa se occupiamo lo spazio che ci spetta, se ci sediamo sul divano senza far niente, se correggiamo qualcuno, se abbiamo ragione, se occupiamo tutta la scena, se siamo felici per qualcosa che riguarda noi e soltanto noi. Smettiamola di chiedere scusa, a parole o con il linguaggio del corpo, se abbiamo più successo di un uomo, se siamo più brave di lui, più spiritose, più forti, più determinate.
Smettiamola di chiedere il permesso, di pensare che uno stipendio in più o in meno possa limitare la nostra libertà, di desiderare momenti per noi stessi e restare in attesa che qualcuno ci conceda di prenderceli.
Non aspettiamo che ci insegnino il coraggio e l’audacia, perché non lo farà mai nessuno. Non inseguiamo l’approvazione altrui come moneta del nostro valore e non cerchiamo il senso delle nostre azioni in un posto diverso da noi stesse. È molto più difficile e rivoluzionario di quanto possa sembrare, per qualcuna sarà uno stravolgimento completo del proprio sistema di valori e di riferimento, e forse sarà meno consolatorio e gratificante di quanto crediamo, ma è l’unico modo, secondo me, per andare verso una felicità che ci assomigli, ogni giorno.
Ma è una conquista, questa indipendenza? si chiedeva Gramellini qualche giorno fa su Vanity Fair, dove avvertiva che gli uomini si innamorano della “donna cerbiatto che sbatte gli occhioni in cerca di protezione”, non delle donne forti e indipendenti, ma che comunque le due lettrici che si erano rivolte a lui devono restare fedeli a se stesse, forti ed emancipate ed esauste come sono.
L’unica volta che ho provato a sbattere le palpebre con un uomo, mi ha chiesto se mi era entrato qualcosa nell’occhio, quindi d’accordo, Gramellini, a ciascuno il suo. Del resto, come scrivi, al mio compagno resta pur sempre una sua utilità nei “momenti in cui mi sento piccola e vulnerabile” (ed è subito Drupi).
Ma è una conquista, questa indipendenza? In realtà, la lettrice di Gramellini si lamentava di dover fare tutto da sola, di non avere aiuti, perché era convinta che l’emancipazione femminile significasse diventare una donna che non deve chiedere mai, che può cavarsela da sola. Nella lettera scrive di essersi stancata, di volere qualcuno che le dica di non preoccuparsi di niente, che pensa a tutto lui, “e fanculo il femminismo e i suoi principi”.
La domanda da porsi, però, non è se l’indipendenza sia una conquista, ma se il femminismo fosse davvero questo. Chi l’ha mai detto che per essere femminista una donna debba ammazzarsi di fatica? Chi l’ha mai detto che una donna femminista debba fare tutto da sola, che non possa contare sull’aiuto di un uomo? Che non possa aver voglia di cedere il timone ad altri, ogni tanto? Chi l’ha detto che una femminista non voglia un bel paio di spalle larghe su cui appoggiarsi, a volte?
È dietro questo fraintendimento pericoloso che si nasconde uno dei problemi del femminismo. Abbiamo tutte e tutti bisogno di rifugiarci dentro la nostra debolezza, ogni tanto, e questo non dovrebbe allontanarci dalla nostra felicità o dai nostri diritti. L’incapacità di un certo femminismo di accostarsi al romanticismo nelle sue forme più semplici ed elementari, la sua diffidenza nei confronti delle emozioni che rischiano di essere scambiate per debolezza e svagatezza, la necessità della durezza e della forza che trapela, a torto o a ragione, da un certo discorso femminista, rischiano di tenere a distanza gran parte delle donne, ma soprattutto rischiano di far passare il messaggio pericoloso che dove inizia la coppia cessano i diritti della donna.
Ecco perché credo che sia importante quello che chiamo “femminismo rosa”, con buona pace di chi trova spassoso l’accostamento dei due termini. Un femminismo che metta l’accento sulla felicità delle donne, non sulla loro forza. Un femminismo capace di andare a braccetto con il romanticismo, con i sogni di coppia, con il bisogno e la necessità di chiedere aiuto, un femminismo che ci liberi della Sindrome dello Strofinaccio e dei sensi di colpa, in cui trovino posto tutte le emozioni delle donne e che ci insegni a viverle con orgoglio, perché sono la nostra arma, non la nostra debolezza.
Un femminismo che riparta dalle donne, da tutte le donne, quelle che sentono il bisogno di fare tutto da sole e quelle che vogliono delegare, quelle che solo nella solitudine riescono a prendersi cura di sé e quelle che si realizzano nella cura altrui e del darsi, quelle che inseguono i tanto detestati maschi alfa, quelle che vogliono restare single, quelle che non hanno figli e quelle che sognano la famiglia Bradford. Un femminismo più intimo, che ci insegni che abbiamo il diritto di essere felici sempre e comunque, il diritto di non fare niente, di riposarci, di essere superficiali, ma soprattutto il diritto di sognare e il dovere verso noi stesse di provare a realizzare quei sogni.
Un femminismo in cui a nessuna donna venga il dubbio di dover mandare al diavolo i propri principi per tirare il fiato e che non confonda la felicità con l’indipendenza. E in cui a nessun uomo venga in mente di poter calpestare i diritti di una donna solo perché si considera o si lascia credere frivola, fragile e vulnerabile. Un femminismo che piaccia anche alle “donne cerbiatto” di Gramellini, insomma, e che non ci obblighi a sbattere le ciglia per farci aiutare.
La spiaggia è un osservatorio privilegiato sulla famiglia. Padri piegati sotto il peso di borsoni coperti da orsetti dietro madri che avanzano a passo di marcia con il pargolo avvolto nel pareo stile crisalide. Mariti tempestati da raffiche di indicazioni e consigli da mogli e suocere, e che esibiscono le spalle scottate come scampolo di indipendenza. Madri che riempiono di crema da sole i quattro figli nel tempo che ci vuole al marito per togliersi i sandali e lamentarsi perché la doccia è troppo lontana.
Andare in spiaggia in famiglia è una prova di sopravvivenza. La spiaggia sta alla famiglia come l’Ikea alla coppia. Ma senza l’hot dog a salvare la situazione nel finale.
C’è la famiglia che sceglie la strategia della chiocciola e si porta dietro tutta la casa, con tanto di tavolini, sedie, caffè, ammazzacaffè, carte per la partita, sdraio, lettino, amaca, pinne, maschera, muta, salvagente per la nonna, tutto nel perimetro delimitato da due ombrelloni montati stile bunker, con i sacchetti di sabbia a tenere fermi i lati. Mangiano un pranzo di cinque portate, si alzano dalla sedia pieghevole il tempo di andare a fare la doccia e poi tornano a casa abbuffati e contenti.
C’è la famiglia selvaggia, che scende con due figli e un costume solo e niente giochini che poi si perdono, usate pure quelli degli altri. Niente, neanche essere sepolta viva sotto la sabbia o le urla del vicino quando i pargoli passano a lui, può distogliere la madre dalla cura del sonno o richiamare a riva quel puntino all’orizzonte che è diventato il padre. Quando il sole tramonta la madre apre gli occhi, il padre emerge stile Tritone dalle acque, prende i primi due bambini che si trova di fianco e se ne tornano a casa ustionati e contenti.
Di questa esiste anche la versione da terza età, con modalità praticamente identiche, quando i nonni in vacanza con i nipoti (“Vacanza un corno”) decidono di voler arrivare all’estate successiva e che il modo più sicuro per riuscirci sia fingere di essere scesi in spiaggia da soli e contare sulla benevolenza altrui.
Poi c’è la famiglia novella, quella che porta il bebè in spiaggia per la prima volta, con un padre ansioso che non perde di vista il pargolo per evitare che si metta in bocca i sandali, la crema da sole, il rastrello, cinque chili di sabbia, il telo del vicino, la coda del cane del vicino, l’alluce del vicino, e quando finalmente la creatura si addormenta sulla sdraietta torna a rilassarsi, pronto a scattare al primo vagito, mentre la moglie sfoggia il libro che non ha avuto il tempo di aprire negli ultimi dieci mesi e di cui leggerà sì e no due righe, per poi tornare a casa orgogliosa e contenta.
Non ci saranno viti e nomi impronunciabili, ma anche la spiaggia, proprio come l’Ikea, è un faro puntato su tutte le crepe del nostro nido d’amore. Che si tratti di scegliere il divano o di montare l’ombrellone, la domanda di fondo è più o meno sempre la stessa: perché non assomigliamo un po’ di più alle famiglie felici delle pubblicità? Perché il nostro equilibrio familiare è solido come il fondo della cassettiera da 29,9 euro?
In realtà, secondo me, le famiglie felici sono l’equivalente del tipetto calvo con l’aria saccente disegnato sui manuali delle istruzioni dell’Ikea. Non esistono. Servono solo a farci sentire sbagliati, incapaci e falliti. Le famiglie solide sono quelle in cui accartocci esasperato le istruzioni fin dall’inizio perché manca una vite, ti sei accorto di non avere il pezzo fondamentale, in cui ammacchi uno spigolo ancora prima di cominciare. E solo così, mettendoci una pezza, trovando una soluzione impensata, puntellando qua e là e ignorando il tipetto calvo e le famiglie degli annunci, si riesce a reggere, anno dopo anno, spiaggia dopo spiaggia, divano dopo divano.
La soluzione non è mai nel libretto di istruzioni, la soluzione è dimenticarsi della foto del catalogo e smetterla di sentirsi in colpa se non ci assomigliamo per niente.
Per essere felici non serve una famiglia felice, ma una famiglia in cui ci sia spazio per la felicità di tutti quanti. Anche sotto l’ombrellone.