Cinque gravidanze e un bambino, quasi due

di Francesca de Lena

All’ottavo mese della mia prima gravidanza chiamai mio padre, di cui non sapevo niente da più di dieci anni. Gli dissi chi ero e gli lasciai il mio numero, rassicurandolo perché non avevo intenzione di scombussolargli la vita. Se aveva tempo e voglia, se gli andava di sapere di me, poteva richiamarmi. Lui lo fece dopo qualche giorno, ci incontrammo, fui molto chiara sul motivo della mia telefonata: stava per nascermi un bambino e non volevo diventare madre con un così grande fantasma sul groppone, che mi ancorava al ruolo di figlia, per di più infelice. Meglio riprendere a vederci, nei modi e nelle capacità di entrambi. Io non avrei più cercato un padre, mi sarebbe bastata una qualsiasi altra relazione, potevamo essere amici o conoscenti, prendevo quello che c’era, andava bene. 

C’è un limite al peso che un cuore può sopportare: amori e dolori colmano quel limite e in certe occasioni bisogna scegliere: io dovevo fare spazio a un amore, scelsi di lasciare andare un dolore. Nacque Andrea.

All’ottavo mese della mia quinta gravidanza devo lasciar andare un dolore che potrebbe valere come testimonianza per altre donne, con una storia simile alla mia e la stessa incredulità di fronte agli eventi, la stessa esperienza di involuzione, passi indietro invece che in avanti, e l’impossibilità di farsi capire: la maggior parte dei lutti è devastante ma dicibile, mentre alcuni non posseggono neanche la dignità di essere nominati, e per questa mancanza di dignità si gonfiano, conquistano territori del corpo e di ciò che si è, del proprio rapporto con le cose, soffocandone altri, e si amplificano senza prendere mai forma. Come si può visualizzare lo spazio della non-forma? Come si abbandona un dolore che non la prevede? 

Lo spazio che devo creare serve ad accogliere l’amore per la mia seconda figlia, che spero nascerà tra poco. Si chiamerà Marea.

La sento singhiozzare mentre salgo le scale del consultorio verso la stanza della psicologa, è un meccanismo di allenamento alla respirazione: prova a prender vita e ingoia liquido amniotico che le va di traverso e le procura il singulto. In un certo senso è divertente, mi fa compagnia quando non mi fa terrore, quando non spinge forte e si incastra nei miei organi e punta i piedi sulla vescica e sono costretta a trovare un bagno in pochi secondi. Si è messa in una posizione scomoda, ha detto Ginecologo3, scomoda per lei intendo, non per la bambina. Le sembrerà che stia per uscire da un momento all’altro.

Sembra davvero così e invece deve restare stretta lì dentro, e io pensarmi come una porta chiusa dall’esterno che non deve aprirsi. Se mi abbandonassi all’attacco di panico che mi insegue da mesi, se prendessi uno strumento affilato per tagliarmi e liberarmi, lei morirebbe e sarebbe stato inutile questo tentare di curarmi, solidificarmi, farmi fortezza o quantomeno non sbriciolarmi a terra. Quando si è annunciata, a ottobre 2021, era ormai per me già impossibile considerarmi un nido sicuro, come le ostetriche del corso preparto continuano a chiamare noi quasi-madri, e da allora conto alla rovescia aspettando il momento in cui verrà via da me. Posso tagliarmi e farla uscire?, vorrei chiedere ogni giorno, Non posso neanche oggi?, vorrei implorare, Vi prego allora, vorrei supplicare, Tagliatemi voi. Portatela in salvo.

Il nido sicuro è la prima immagine della maternità con cui bisogna fare i conti: ti guardi allo specchio e vedi sempre te stessa, inutile credere di poter davvero visualizzare la tua funzione. Sono un nido. Sono una creatrice. Sono una madre. Resti te stessa e basta: Francesca con la nausea e la stitichezza, con l’affanno, le macchie sul viso, la difficoltà a vestirsi e il chiedere aiuto per depilarsi perché lo sguardo non ci arriva, ma non per questo un miracolo della natura, una potenza femminile, una luce, non per questo un nido per altri. 

Il primo giorno di questa quinta gravidanza ero già certa del risultato, e mi è sembrata una maledizione. Ormai riconosco di essere incinta dopo quanto, una settimana dal concepimento? Aspetto lo stesso il canonico ritardo, pipì sul bastoncino, positivo, lo dico al futuro padre, aveva già capito anche lui, non sappiamo neanche bene cosa dirci, non c’è niente da dire. Un paio di sorrisi giusto per convenzione, per omaggiare il rito, ci convinciamo a vicenda che è doveroso farlo, che bisogna ossequiare la bella notizia.

La nona settimana arriva la prima minaccia di aborto: riposo forzato, progesterone e siringhe. La minaccia rientra, bene ma non stancarti troppo, la tredicesima settimana arriva la seconda minaccia di aborto, nuovo riposo forzato, rientra anche questa, bene, ora si può solo aspettare

Notti al pronto soccorso, ottobre novembre dicembre stesa a letto. Forse non è neanche una soluzione scientifica, ma si fa. I controlli ecografici uniche uscite, a ogni visita aspetto di sentire cosa c’è che non va. Stavolta cosa? Il battito non c’è più? Non cresce? Non si attacca bene? La placenta non si sviluppa? È tutto buio signora, sono sicura che un giorno il dottore mi dirà così, Non vedo più niente. L’utero improvvisamente vuoto, una cosa del tipo: L’embrione è stato riassorbito, sa, il suo corpo lo ha mangiato

Può succedere, mi convinco. L’ho visto fare una volta a una gatta che stava partorendo, lo ricordo bene. Gattino uno, due, tre, il quattro è un groviglio minuscolo e senza sussulto, che la gatta mangia mentre esce il quinto. Il mio utero potrebbe fare lo stesso, penso, e senza che io me ne accorga: dall’interno, senza lasciare segni, senza sporcare. E all’ecografia: buio. I tragitti in auto verso lo studio del ginecologo sono una guerra tra razionalità e speranza, durante i quali rafforzo la convinzione di potermi auto-ingannare: succede il peggio, lo sai, comincia a prepararti, sii pronta. Pensa che se finisce tutto almeno potete confermare la settimana bianca. Pensa che non ingrasserai. Pensa che in fondo meglio così: preoccupazioni in meno, soldi in più. Non permetterti di piangere, non è il momento. 

Quinto mese, arrivano i risultati del dna fetale, nessuna anomalia riscontrata, le abbiamo valutate tutte, tutte le valutabili, 1200 euro di analisi del sangue, i cromosomi paiono intrecciati a dovere. La pancia si gonfia, lo diciamo ad Andrea, quasi costretti. Anche lui era cominciato con una minaccia di aborto, anche quella volta a riposo ma solo un mese, ventotto anni materni quindi pochi, felicità incontenibile, forza e determinazione e benessere, sentirsi indistruttibile, che bella pancia, che luce sul viso. Andrea è felicissimo di fare il maggiore, di più: è entusiasta, commosso, incontenibile. E io di rimando terrorizzata, senza strumenti, afasica.

Averlo detto al figlio che già ho trasforma il tragitto verso l’ecografia in terrore puro, rispetto al quale neanche l’autoinganno può niente. Andrà ogni volta così: prima immaginerò cosa c’è che non va (crescita embrione, betaHcG, utero refrattario, cellule cancerogene, alieni nemici), poi quale parte del meccanismo non avrà funzionato (Qualcosa non funziona, natura senza miracolo), poi come mi avvertirà il dottore (Signora, non so come dirglielo), poi come dovrò reagire (non piangere, non disperare, risolvi subito, risolvi bene), e infine sprofonderò nella paura di come farò mai a dirlo ad Andrea. A quel bambino che ogni sera vuole accarezzare la pancia e cantarle la ninnananna, mentre io voglio nascondermi e già chiedergli scusa per l’illusione che gli sto procurando e della quale, sono certa, non mi perdonerò mai. 

Al sesto mese la psicologa mi dice che dovrei invece cominciare a crederci, che la gravidanza c’è e non sta andando via, che potrei provare dandole un nome. Ha tenuto la bambina in un posto nel suo cervello, ha detto, o nel suo cuore, non ricordo, per i mesi in cui io aspettavo solo di poter vivere il lutto, aspettavo solo di potermi lasciar andare di nuovo alla rassegnazione. La tengo io al posto tuo, mi diceva, penso io a lei finché non ci riesci tu

Non ci riesco perché ho in mente la seconda gravidanza, che è stata il primo aborto, e la terza gravidanza, che è stata il secondo aborto, e la quarta gravidanza, che è stata il terzo aborto. È successo tutto nel 2019-2020. Quando siamo stati investiti dalla pandemia e abbiamo cominciato a sentirci male e stanchi e impauriti io avevo appena smesso di sanguinare. Dieci mesi di sangue dalla vagina, ogni giorno, come mestruazioni infinite, controllare di continuo il ferro e la ferritina e l’emoglobina, e non viaggiare e non allontanarsi dagli ospedali perché potrei avere un’emorragia da un momento all’altro. 

Avevo scoperto la seconda gravidanza a gennaio 2019, l’embrione cresceva poco e lentamente, ma batteva, il cuore si vedeva e sentiva, a volte succede, mi diceva Ginecologa1, non si preoccupi, certe gravidanze cominciano lente. Beta altissime quindi è solo pigro, torni dopodomani, e ancora dopodomani, e ancora dopodomani, lo controlliamo a vista, eccolo qui, piccolo ma c’è, piccolo ma c’è, lo vede? Vede il cuore? Decima settimana, ancora piccolo ma c’è, e però davvero troppo piccolo, non sono più tranquilla, cambio ospedale: quando ha fatto l’ultimo controllo? mi chiede Ginecologa2. Ieri. E il cuore batteva? Sì. Mi spiace, adesso si è fermato. 

Al padre scappano le lacrime, teme per la mia disperazione. Io invece rigida, sopravvissuta, in accelerazione. Cosa devo fare? Come si toglie? Può scegliere se aspettare che vada via da solo o intervenire chirurgicamente; da solo potrebbe volerci tanto e potrebbe essere doloroso. Allora interveniamo, quando? Tra tre giorni. Tre giorni? Sì. Tre giorni in questa compagnia, con la morte inchiodata nella pancia? Tre giorni nell’impostura di portare avanti l’umanità?

La seconda immagine della maternità con cui fare i conti è la custodia di un pezzo di umanità. Per quanto si possa pregare all’altare del nichilismo e del cinismo e della contro-spiritualità, e io a quell’altare ci prego tanto, ci sono cellule di homo sapiens sapiens nel tuo utero, che in quaranta settimane si sviluppano al punto da poter vagire, aprire gli occhi e succhiare latte, e di lì a poco sapranno alzarsi in piedi e impareranno a controllare gli sfinteri e voilà senza quasi che tu te ne accorga un +1 camminerà sulla terra perché ha potuto svilupparsi dentro di te. Mandare avanti l’umanità è pretenzioso? Immagino di sì, ma è l’unica cosa che mi interessa fare. 

Terzo giorno arrivato, bisogna raschiare. Ho paura di poche cose, una di queste è addormentarmi. Io dormo e loro mi puliscono, io dormo e loro mi liberano dalla morte. Quando mi sveglierò niente più cellule appassite, niente più evoluzione interrotta, solo l’involucro, la bara che sono stata. E se non mi sveglierò? Prima di partire faccio la doccia a occhi chiusi per non guardare il gonfiore ingannevole del pube. Cosa ne sa l’utero di quello che è stato? Come dirgli di tornare alle sue dimensioni iniziali? Arrivo in ospedale già sedata, ho preso xanax, lo dico all’anestesista, vuole sapere quanto, vuole calibrare l’iniezione. In una prima stanza mi infilano qualcosa in vagina, non ricordo cosa, serve ad aprire il collo dell’utero, mi pare. Come quando inducono il parto per far nascere un bambino che non viene fuori, ma qui non c’è nessun bambino, qui bisogna solo tirare via quel che non sarà, un cominciamento, un ologramma. 

Nella seconda stanza sono in sei, bianchi, guantati, mascherati, sotto luci esplosive, indicano il lettino, il mio ruolo nella rappresentazione, la mia x sul palcoscenico. Comincio a tremare, mi stendo, alzo la testa all’indietro per supplicare l’anestesista: può iniettarmene un po’ alla volta così mi ci abituo? Chiedo senza più cognizione, senza accorgermi dell’assurdità di quello che dico. È marzo 2019 e doveva essere il mio terzo mese di gravidanza, avrei dovuto aspettare un secondo figlio che sarebbe nato a ottobre, e invece no.

Mi risveglio e mi dicono Ora può anche alzarsi sulle sue gambe (ma non è vero, viene da svenire), Ora deve solo far guarire il cuore (quanta retorica, cosa ne sanno loro se provo dolore al cuore?). Lo provo. 

Due mesi dopo il raschiamento non arriva il capoparto. Il capoparto è la prima mestruazione post-gravidanza a cui sarebbe il caso di cambiare nome, quando il parto non c’è stato. Io mi sento stanca, ho mal di pancia, sono sempre affannata, tra una settimana devo partire per lavoro e non voglio più sentirmi così. I medici mi chiedono se c’è la possibilità che io sia di nuovo incinta, se ho avuto rapporti non protetti. Non li ho avuti. Insistono, mi insinuano il dubbio, potrebbe essere successo qualcosa di cui non mi sono accorta? Sono stata capace di perdere le preziosissime cellule di embrione che avevo in custodia, di cos’altro sono capace? Di fare l’amore a mia insaputa? 

Faccia le betaHcG, così ci togliamo ogni dubbio, dice ginecologo3. E le beta sono alte. Non è possibile, dico io, d’improvviso più sicura, meno disponibile a prendermi la colpa. Non si resta incinta senza saperne niente. Sono un’adulta, non una ragazzina. C’è un altro motivo per cui le beta salgono?, chiedo. No, mi rispondono; solo per una gravidanza. Vi dico che non è possibile. Smettetela di usare quella parola, non è possibile. Controllo ecografico e ho ragione io: l’utero è vuoto, nessuna camera gestazionale, nessun sacco vitellino, nessun embrione. Vedete dottori? Avevo ragione, ve l’avevo detto. Sono stata buona, sono ancora vuota.

C’è però una macchia. È un residuo della scorsa gravidanza, dice Ginecologa1, bisogna ripetere il raschiamento. Non lo è, dice Ginecologa2, che ha operato il raschiamento. È una M.A.V.: una malformazione artero-venosa. Un groviglio di capillari irrorati di sangue che si moltiplicano in una zona dell’utero, appoggiati su qualcosa, non sappiamo bene cosa e perché. Qualcosa che è rimasta lì e che va tolta. Come si toglie? Proviamo con un’isteroscopia operativa. Che significa? Che cos’è? Un’operazione, sarà un po’ doloroso. Ma resterò sveglia? . Allora va benissimo. 

Ne faccio una a giugno, una a luglio, una a settembre 2019. Il professore che mi opera ha vinto l’isteroscopio d’oro, mi dicono, e la notizia mi solletica una ridarella poco elegante che non riesco a trattenere; lui mi calma con sportività, promettendomi un punteggio per ogni volta che mi stenderò sul lettino, e alla fine avrò vinto un peluche. A ogni operazione sono in cinque, tutti a dirmi quanto sono brava a sopportare il dolore, tutti a ripetere Ancora un po’, ci siamo quasi, resisti ancora un po’. Il professore vuole andare più a fondo, scavare, ma Ginecologa2 lo ferma per timore di un’emorragia. I capillari sono lì, se li tocchiamo mi dissanguo. Dopo ogni operazione ripeto le beta, scendono di poco ma non si azzerano: sono sempre incinta, dice il mio corpo. Passano i mesi, non c’è nessuna pancia, non c’è nessun embrione, nessun feto, nessun bambino, ma io sono sempre incinta. Ogni sabato pago il prelievo alla cassa dell’ospedale per controllare le beta e il cassiere mi chiede: il solito? 

Dalla biopsia capiscono cos’è che non va via: il trofoblasto, l’origine della placenta, che si è innestato nella parete dell’utero, ha messo radici, e non molla. La M.A.V. si è aggrovigliata su di lui. Per il mio corpo se c’è il trofoblasto vuol dire che c’è una gravidanza, perciò continua a comportarsi come se così fosse ed ecco perché i valori della beta non scendono. Prima dell’ultima operazione decidono che può aiutarci la menopausa. In menopausa l’utero si atrofizza e può sputare fuori queste cellule aliene. Mi prescrivono l’Enantone, un farmaco che inibisce la mia attività riproduttiva. Dovrebbe fermare il sangue, asciugare i vasi sanguigni, spegnere la vita del trofoblasto, prosciugarmi da dentro. Come un rinsecchimento: non dare più linfa alle forme di vita impazzite, come un invecchiamento precoce. 

E in effetti ho le nausee, e le vampate di calore, e ingrasso e sono sempre arrabbiata. In menopausa e incinta contemporaneamente, una beffa, uno scherzo di cattivo gusto. Il prosciugamento non funziona, sanguinerò sempre, sanguinerò per dieci mesi di seguito, tortura cinese in forma di mestruazione costante, il contrario di quello che sarebbe dovuto accadere: se sei una donna che partorisce le mestruazioni scompaiono, se sei una donna che abortisce e per di più non si ripulisce possono restare lì a ricordartelo ogni santo giorno. 

Per la terza operazione si aggiungono degli studenti americani, il professore mi opera illustrando in inglese la rarità di quello che sta facendo, li guardo annuire concentrati, io a gambe aperte, buco all’aria, strumenti infilati dentro, corpo cavo che si rifiuta di svuotarsi definitivamente, di lasciare andare, di restituirsi a me, di lasciarmi in pace. Puzza di bruciato ogni volta che mi cauterizzano, sono io che caccio fumo, è la mia carne che prende fuoco. Quando ha finito il dottore mi infila una pallottola di garza in vagina, che in poco tempo si impregna di sangue e si gonfia. Più tardi riuscire a tirarla fuori sarà la cosa più vicina a un parto che avrò vissuto in questi mesi.

Una terza immagine della maternità è dare alla luce. Bisogna ammettere che è così intensa e suggestiva che diventa complicato contrapporle altro, per esempio l’oscurità che avvolge il corpo di una donna che deve fare lo sforzo incredibile, subire il dolore imparagonabile con qualsiasi altro di rigettare una massa di 50 centimetri per 3 kg (Andrea ne pesava 4) da una fessura minuscola. Una fessura di piacere, quella che fino a ieri non era che un gioco erotico o al massimo una rappresentazione stilistica e che si trasforma in una via di fuga per la sopravvivenza: per sopravvivere occorre che si spalanchi, occorre si deformi e si laceri e lasci passare il corpo estraneo che non può più ospitare pena la morte di entrambi. Quando ho partorito Andrea il mio travaglio durava ormai da ventisei ore, la dilatazione non arrivava seppure sollecitata da ossitocina e mille altre diavolerie, e infine il periodo espulsivo andò avanti per cinque ore. Una testa incastrata in vagina per cinque ore. Mai più urlato e tremato come quella notte. Venne fuori che era l’alba (e poi ci sarebbe stato il secondamento, e poi i punti da cucire). Non mi sembrò di aver dato alla luce, mi sembrò di essermi spezzata in due per sempre. Per tre mesi piansi ogni volta che facevo pipì. Ebbi incubi per un anno intero. 

Il giorno in cui le beta finalmente si azzerano mancano solo due settimane all’anniversario del test della mia seconda gravidanza. Quella tanto voluta, accolta con gioia, ingenuità ed eccitazione, che credevo avrebbe reso di nuovo me madre e mio marito padre e soprattutto mio figlio fratello maggiore e invece mi aveva resa una donna che abortisce. Da lì in poi sarei rimasta per lungo tempo solo questo: una donna che abortisce. È gennaio 2020 e io provo ancora a credere sia stato solo un caso, un brutto caso del destino, ancora mi sento dire Signora è stata molto sfortunata, e Quello che le è capitato è un evento rarissimo e Si figuri che alcuni medici neanche sanno cosa sia una M.A.V. ma anche Meglio così, mi creda, se la gravidanza fosse proseguita lei avrebbe rischiato la vita

Ma il caso si ripresenta. Il secondo aborto, la terza gravidanza, arriva il giorno del compleanno di mio figlio, il 19 giugno 2020. Ci sono le foto di me con un sorriso tirato che spengo le candeline insieme a lui e apro i regali insieme a lui e ringrazio gli invitati insieme a lui e tra un gesto e l’altro corro in bagno a cambiare l’assorbente, perché perdo molto sangue. Sono trascorsi sei mesi da quando mi hanno dichiarata “completamente guarita”, senza M.A.V., senza residui nell’utero, senza menopausa, una normale donna di trentacinque anni ancora in età riproduttiva: Può riprovarci quando vuole, signora. È come se nulla fosse successo. È pulita, l’utero è intatto. È come nuova.

Sei mesi sembravano un tempo giusto, sembrava potessimo “ricominciare a provare”. Provare è un verbo che solo da qualche anno si lega alla volontà di avere figli. Pare che prima non ci fosse nulla da provare, prima i figli c’erano e basta, oppure non c’erano e basta, e questo teneva soddisfazioni e sofferenze in penombra, ognuno conosceva le proprie e gli altri potevano solo intuirle, se ce n’era motivo, oppure ci si faceva la propria vita per come veniva, senza intellettualizzare il corpo, senza analizzare desideri e disillusioni, senza ricercare felicità ed elaborare dolori. Un’epoca più solitaria, chiusa e non empatica, in cui forse mi sarebbe piaciuto vivere se avesse significato non essere più guidata da questa volontà caparbia e indisciplinata di avere figli. 

Per me, comunque, pare non ci sia bisogno di provare. Mi basta pensarci anche solo una volta, che voglio un figlio. Ci penso, ho rapporti non protetti con mio marito, anche solo uno, e il mese dopo il test di gravidanza si colora. È successo per quattro gravidanze tranne una, la prima, quella che mi ha dato Andrea e che ha colorato il test dopo diversi mesi di tentativi. Questo prodigio della fecondità è forse l’aspetto più crudele di quello che mi è successo, la continua illusione che basta volere per potere, come un banale slogan anni ’80 che non ti avvisa di quello che invece accadrà. 

I nove mesi di gravidanza sono universalmente scanditi da tappe e convenzioni, probabilmente la sorte più ovvia per un evento che accade dalla notte dei tempi, come tutti continuano a ripetere. Per scaramanzia non si annuncia niente prima dei tre mesi, e non si acquista niente prima del settimo mese per lo stesso motivo, e si insinua di non avere preferenze tra figli maschi e figlie femmine, basta che sia sano, e ci si commuove al primo ausculto del battito e si inviano le foto delle ecografie ad amici e parenti prossimi. Deviare strada, tenersi lontana dalla traccia non è auspicabile dalla società e neanche tu lo vuoi davvero. E per quanto possa dirti preoccupata e sentirti stordita, per quanto possa dimostrarti ansiosa, anche quella è una convenzione, e mai davvero pensi che non farai parte della moltitudine, che non sarai in grado di tenere il passo. Quando invece succede, è come inciampare in uno squarcio dell’asfalto che, avresti giurato, un attimo prima non c’era.

Stavolta comunque l’aborto è spontaneo e naturale, va via tutto da solo, un paio di settimane e sono pulita, la beta azzerata, di nuovo vuota, pronta, come nuova, riproduttiva. È stato solo un caso, mi dicono di nuovo con le stesse parole e con una tranquillità invidiabile, quasi a volerlo più loro di me, a non arrendersi di fronte a questa donna ancora clinicamente giovane e così sfortunata. Questo tipo di aborti si chiamano chimici: arrivano molto presto, vanno via da soli, si figuri che ci sono donne che neanche se ne accorgono, li scambiano per normali mestruazioni, solo più abbondanti. In un anno può accadere anche due o tre volte. Ricominci, ricominci senza paura.

Va bene, mi dico, fiducia nella scienza, niente superstizioni, niente elaborazione di lutti, è solo un embrione e lo so bene, no? Non facciamo drammi inutili. Sono di nuovo fertile, sono i giorni giusti, amo mio marito, che ci vuole a fare l’amore, sicura che te la senti, mi chiede lui, ma certo che me la sento, l’amore è bello no?, e a luglio il test di gravidanza si colora di nuovo. La terza volta al primo colpo, senza neanche una pausa dall’aborto di giugno. È un miracolo che mi sta ripagando per il dolore subito o è la maledizione che ormai sono certa che sia? 

È una condizione clinicamente senza spiegazioni ma statisticamente rilevata, mi diranno poi le Ginecologhe4e5 all’Ambulatorio Aborti Ricorrenti del Policlinico Gemelli, quando nel 2021 farò mille esami che non riscontreranno mai alcuna falla, al termine dei quali mi sentirò di nuovo dire: Ci riprovi, non c’è nessun problema. È solo un caso. È solo sfortuna. Lo sanno che sta succedendo troppo spesso, ma lei è sana, insistono, non evidenziano niente che non va. Possono offrirmi solo un nome, per quello che mi capita, e il nome è “infertilità secondaria”: una donna che ha già avuto figli in maniera naturale e che per questo si considera fertile e invece non riesce a esserlo più. Una condizione senza motivazioni, un’etichetta costituita dalla parola che tutte quelle che desiderano figli temono come nessun’altra.

Quarta immagine della maternità: destino. Con la psicologa ragioniamo molto attorno al concetto di destino, a cui io mi lascio andare con molta difficoltà, come con tutto ciò che non so controllare e non so spiegare e non so capire. Destino, caso. Quel che dovrà accadere accadrà, se è successo quel che è successo un motivo ci sarà, se continui a restare incinta è perché così deve andare. Pensiero magico. Rassegnazione. Speranza. Tutti sentimenti per cui ci vuole fede, ci vuole credenza, ci vuole accettare che non dipende da me. Sono io a voler diventare madre ma non sono io a poter fare in modo che accada. Lasciarsi andare alla vita. Forze e debolezze della natura. Fortuna e sfortuna. 

La sfortuna del mio terzo aborto, della mia quarta gravidanza, è che stavolta non va via da sola. Il cuore non si ferma, quindi non è un aborto ritenuto; il sangue non esce a ripulire, quindi non è un aborto spontaneo. Tutto procede, ma qualcosa non va come dovrebbe e ancora una volta non sappiamo cosa. La beta non raddoppia ogni due giorni come naturale, si ferma intorno ai 2000, aggiungendo poche decine o centinaia a ogni ricontrollo. Dall’ecografia sembra ci sia un po’ troppo liquido amniotico, e sembra che il sacco vitellino sia un po’ troppo grande: entrambi possibili segnali di una malformazione genetica. E infine dalle analisi risulta un progesterone un po’ troppo basso. Il caso, il mio destino in equilibrio sull’avverbio un po’

Il 10 agosto del 2020, il giorno del mio trentaseiesimo compleanno, corro a Roma per un’ecografia di secondo livello in un centro iper-specializzato di un professore super-blasonato che forse può dirmi meglio che cos’ha questo embrione, se è malato, se andrà via da solo, o se forse non sia meglio fare da me, come l’ansia di rimanere di nuovo inghiottita in un incubo mi suggerisce, piuttosto che aspettare di vivere un’altra morte che fa cucù dall’ecografo, un altro raschiamento, un’altra post operazione, altri 40 giorni di ripresa, altri controlli delle stramaledette beta: il mio personale bollettino di guerra: dover essere felice quando vanno su perché significano gravidanza, dover essere felice quando vanno giù perché significano pulizia. Una montagna russa lentissima e fuori controllo, che sta divorando la mia sanità mentale e mi costringe a una guerra civile tra determinazione e sopravvivenza. Determinazione mia, sopravvivenza anche.  

Lo possiamo aiutare è la risposta del blasonato. Ma anche: Tanto se ci sono problemi molto probabilmente andrà via da solo dopo l’undicesima settimana. E però a undici settimane in Italia l’aborto volontario o è chirurgico o non è. Anzi già dopo la nona, cioè tra due giorni. Anzi tra un giorno solo perché tra due il dottore di turno del mio ospedale è un obiettore. Non posso sopportare un altro raschiamento, non posso sopportare nessun’altra operazione che preveda la mia vagina, il mio utero, qualsiasi cosa ci sia sotto la linea dell’ombelico. Ho ventiquattro ore di tempo per scegliere se avere un aborto farmacologico e risparmiarmi almeno tutto il resto, e scelgo di sì. 

Nelle settimane precedenti la possibilità della farmacologia era stata il mio pensiero fisso, più della gravidanza e della salute dell’embrione, che davo già per perso, più di quello che ne sarebbe stato di me e del futuro, che a quel punto sembrava ormai poter solo certificare l’impossibilità di procreare – ma perché? Mi chiedevo sempre, ho Andrea, un figlio ben fatto, intelligente, bello, ho le prove, lui è la mia prova: sono capace di fare da madre –; il mio pensiero era tutto rivolto a me e al mio corpo: non voglio più essere toccata, non voglio attrezzi che mi scavano, non voglio lettini, non voglio aprire le gambe. Me le incollo, giuro che me le incollo se provate a toccarmi.

Ero per questo già stata al consultorio a chiedere cosa avrei dovuto fare se avessi voluto prendere la RU-486. Ed ecco cosa: colloquio con ostetrica, colloquio con assistente sociale, colloquio con ginecologa, che però è un’obiettrice (come può, mi chiedo ancora adesso, come può una ginecologa obiettrice lavorare in un consultorio?). Tre persone addette alla maternità che devono dirmi di sì, accettare le mie motivazioni, che ho la fortuna (caso? Destino?) essere commoventi. Tre estranee che hanno il potere di decidere del mio corpo, di quello che mi aspetta. Che ci mettono la firma. Senza la loro firma, niente pillola abortiva.

Il permesso lo ottengo, dopo giorni di attesa e andirivieni, con l’embrione ancora nella pancia, ancora che batte e cresce e potrebbe farcela se lo aiutiamo. Senso di colpa perché non credo in lui, senso di colpa perché mentre lui moltiplica stentatamente le sue cellule io penso a come liberarmene senza soffrire troppo, senso di colpa perché sto per fallire di nuovo, è la terza volta che dovrei fare un figlio e non lo faccio, è incredibile, non posso crederci, cosa mi è successo, che problemi ho, non mi vergogno? 

E con quel permesso custodito come un gioiello e con la troppo fragile promessa del poterlo aiutare entro in ospedale alle 23:00 dell’11 agosto 2020 (la ginecologa non obiettrice ha il turno di notte) e ingoio la prima delle pillole che costituiscono l’aborto farmacologico, quella che inibisce il progesterone, che ferma gli eventi. In corridoio mi aspetta mia madre, in macchina mio marito con mio figlio che crede io abbia un misterioso mal di pancia cominciato a gennaio 2019 e dopo un anno e mezzo non ancora risolto. Una volta usciti ci sediamo su una panchina di fronte al mare, tutti e quattro stretti, Andrea si addormenta, io piango, mia madre mi tiene la mano, mio marito mi stringe: la mia famiglia è tutta qui, siamo noi. Eppure non mi basta, avrei voluto altro, ne avrei voluta ancora. Senso di colpa del non sapersi accontentare. 

Fin da ragazzina volevo avere figli perché una famiglia mi era mancata. Molto banale, molto vero. Ognuna nella scelta di maternità/non maternità fa i conti con il luogo da cui proviene e con quello in cui cerca di arrivare. E forse l’emancipazione è sempre la bussola: dai propri genitori o non genitori, dal paese asfittico che ti voleva sposata e con prole, dalla rete di conoscenze che del non desiderio genitoriale ne fa punto di merito e dimostrazione di intelligenza, dal proprio corpo, dall’idea che gli altri hanno di noi, dalla pretesa che i figli si fanno per donare la vita: quinta immagine della maternità. Non è onesta. I figli si fanno o non si fanno per sé e soltanto per sé. Li vuoi e li fai per te stessa, non li vuoi e non li fai per te stessa. Emanciparsi dagli arzigogoli, evitare di darsi un tono, ammettere le proprie spinte infantili. Francesca tu perché vuoi avere così disperatamente dei figli? Perché non lo sono stata. 

Ormai sono pallida, scheletrica, poco lucida, ho l’emoglobina bassissima, e il 13 agosto torno in ospedale per la seconda pillola, quella che porta le contrazioni, induce la perdita del “materiale”, insomma ancora sangue. Resto in reparto per cinque ore, mi mettono in una stanza dove sono sola, e grazie a questa accortezza per la prima volta in questi anni mi sento fortunata: so di donne che abortiscono assegnate a stanze in condivisione con le partorienti, una specie di sadica manifestazione plastica della convivenza tra vita e morte, in cui se hai abortito tu interpreti la morte. 

Le ore passano, ancora il tempo di controllare si sia tutto fermato, sia andato via il grosso. È andato via, sì. Ho mandato via qualcosa che forse potevo aiutare ma che quasi sicuramente no. E non ho più forze. Non ce la faccio più. Non riesco più a pensare, ho perso la capacità di ragionare, di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa fa bene e cosa no, cosa sono in grado di fare, cosa voglio e perché, chi sono. E finalmente mi fermo. E finalmente mi fermano anche loro. Non riprovarci prima di un anno, mi dicono. Riposati, fai riposare gli organi, riprenditi, assumi vitamine, ferro, integratori. Stai bene, cerca di stare bene.

Il 2021 è il mio anno di riposo e oblio. Ripiombo nel lavoro, torno a essere più presente con Andrea, faccio una lunghissima vacanza estiva piena di risate e alcol a tutte le ore. Mi iscrivo ad acqua gym, ricompaiono gli addominali, mi fotografo come non facevo da tempo, orgogliosa di quel territorio di mezzo tra il pube e il seno che mi pareva ormai di riuscire a immaginare solo in forma gonfiata, in versione ripiena, e che invece può essere così sano e sexy a lasciar intravedere le ossa e la discesa morbida tra la vita stretta e la curvatura dei fianchi, e l’ombelico seminascosto, che spunta presuntuoso dalle magliette corte, dai pantaloni a vita bassa.

È dal corpo che ho ricominciato. È sempre lì che si torna? Ragionare non basta, controllare è impossibile, misurare e analizzare forse persino inutile. Intellettualizzare il bisogno una magra sfiducia in sé, una disistima. Meglio dirsi la verità. A settembre 2021 varco lo studio della psicologa per la prima volta. Sono lì per raccontarle tutto, per confessarle che nonostante le mie convinzioni e i miei razionalismi e tutto quello che leggo e le battaglie di emancipazione che combatto sono andata in pezzi perché ho perso tre promesse di figli. Una dopo l’altra, come un domino che va giù. E che non mi bastano le spiegazioni e le accettazioni dei vari caso, sfortuna, destino. Sento un vuoto in mezzo alla pancia, è una mancanza fisica, una non-cosa che mi ha resa più fragile. 

Sono lì ad aggiustare questo vuoto da neanche un mese, quando scopro che a giugno 2022 arriverà Marea. Il caso, la fortuna, il destino. Il nome viene fuori da questo, da una forza che io non posso controllare, alla quale non posso fare altro che abbandonarmi. Che mi sommergerà se si alzerà a dismisura o mi lascerà asciutta se si abbasserà fino a richiamarsi tutta l’acqua, e io microscopica in mezzo alla sabbia ingigantita ed estesa, a misurarmi con la solitudine, l’interruzione, il vuoto, la vastità del mondo in confronto alle mie volontà. E però ok, accetto di nuovo la sfida. La quinta volta. È più forte di me, continuo a volerlo, ho la matematica contro, la storia contro, la natura contro ma una caparbietà, una determinazione che neanche conoscevo, che per un periodo ho temuto non fosse sana, fosse la mia crepa, ostentasse la mia infinita non guarigione, quella del corpo degli ultimi anni, quella della non-infanzia che è lì da sempre.

Ma non è vero che volere figli è un’ossessione, come avevo creduto. E non è vero che ne ho tanto voluto un altro perché non so stare ferma, come mi ero accusata di fare. Ognuno si risolve come sa e come può. Ognuno ha un ultimo giorno in cui chiuderà gli occhi e si guarderà indietro e farà i conti con quello che ha lasciato. Io voglio lasciare la potenzialità della felicità. Voglio una bella famiglia. Non mi interessa scrivere libri, fare musica e arte, far conoscere la mia firma, far ricordare il mio nome. Quello che voglio è mettere al mondo degli esseri umani che possano essere stati felici da bambini, più felici di come sono stata io. È poco, eppure ci sarà un motivo se la felicità costa così tanto. Voglio poter dire di aver pagato il prezzo, e che adesso ce la meritiamo tutti. 

5 R (+1) per sopravvivere a un figlio adolescente

Ritirarsi, quello che qualcuno definirebbe “dargliela vinta” a volte è meglio che portare lo scontro a un livello troppo alto, da cui poi sarebbe difficile tornare indietro. “Che faccio, lo costringo di peso?” si chiede prima o poi qualunque genitore, davanti alla creatura che adesso ha più ormoni, più muscoli e più tempo di lui. Il suo spazio personale cresce e insieme a quello la nostra necessità di tirarci indietro e lasciare che ogni tanto lo abiti da solo, anche quando sta sbagliando.

Rimandare, le conseguenze, le spiegazioni, i rimproveri, i chiarimenti, segna la differenza fra ritirarsi e dargliela vinta. E a volte anche la differenza fra educare e sfogarsi.

Raccontarsi, parlare di noi, è il ponte migliore che si possa costruire fra genitore e figlio, quello fra il nostro passato e il suo futuro. Rafforza le radici e il senso di identità, accorcia la distanza fra problema e soluzione e soprattutto invita a fare altrettanto. Aprirsi, esporsi, anche quando sembra che dall’altra parte ci sia lo stesso interesse di un piguino per un costume da bagno, quando è fatto senza ostentazione è una grande dimostrazione di fiducia.

Reggere la barca quando fa di tutto per ribaltarla, tenerla forte, impedirgli di imbarcare acqua fino ad affondare. Anche quando la tentazione sarebbe spingerlo giù e lanciargli un bel salvagente e che inizi a nuotare. In realtà non vuole affondare, ci sta sfidando a dimostrargli che non se lo merita, che non è destinato a fallire, che tutta la negatività che si è scoperto dentro non avrà la meglio e che c’è qualcuno che regge forte la barca insieme a lui. Ha solo bisogno di sapere che può farcela, e quale modo migliore che tentare disperatamente il contrario e non riuscirci.

Riflettere il meglio di lui, l’immagine che vorremmo che vedesse nello specchio anche quando non la vediamo più neanche noi, anche quando ci sembra scomparsa, anche quando lui diventa lo specchio dell’immagine di noi che non vorremmo mai vedere. La tenerezza, lo smarrimento, l’entusiasmo, la genialità della bambina o del bambino che conoscevamo c’è ancora, più lontana, confusa, un po’ estranea, fra contorni che non avremmo mai immaginato, ma c’è, deve esserci. Forse passiamo tutta la vita a inseguire quell’immagine e vederla riflessa negli occhi di un genitore la rende la misura del nostro valore.

E infine, recitare una preghiera, incrociare le dita, attirare energie positive, invocare qualche spirito… insomma, sperare che vada tutto bene. Perché per quanto ci faccia star bene pensare il contrario, contiamo molto meno di quanto vorremmo.

Il dovere di essere vulnerabili

“Come faccio a credere ancora nei seggiolini per neonati, nei paraspigoli, nei frullati biologici, nelle creme naturali, come faccio a illudermi di poter tenere al sicuro mio figlio, adesso?”

Se lo chiedeva anni fa la madre di una bambina a cui era stata diagnosticata la leucemia e mi rimase impresso per il modo in cui metteva drasticamente a nudo tutte le mie ansie da neo mamma e i modi un po’ patetici in cui cercavo di tenerle a bada: seggiolino per auto a prova di rapimento alieno, protezione solare, cappellino, guanti, sciarpa, corso accelerato di pronto soccorso di cui ricordo solo la Macarena da cantare durante il massaggio cardiaco. Non ero una neomamma, ero una amazzone sul piede di guerra, una sentinella senza turni di riposo, in crociata contro ogni pericolo possibile, contro l’idea stessa di pericolo. Fate largo zuccheri, conservanti, ansia da separazione e coliche notturne, il pargolo è mio e lo difendo io.

Da cosa? Non mi sono mai fermata a chiedermelo ma probabilmente lo difendevo dalle mie paure. All’improvviso erano tutte lì, dentro quel pigiamino adorabile con le orecchie da orso che forse era troppo caldo forse era troppo freddo forse era troppo sintetico e di sicuro gli avrebbe fatto odiare gli orsi a vita.

Adesso, sfido chiunque a pensare che basti un’attenta combinazione di cibo biologico, seggioloni partoriti da ingegneri spaziali e un discreto grado di paranoia per tenere al sicuro chiunque. La nostra percezione egocentrica del mondo, che ci si era incollata addosso a furia di leggere il nostro nome sul barattolo della Nutella e i nostri desideri spiattellati in bella vista negli annunci personalizzati, improvvisamente è esplosa. Per anni ci hanno cucito addosso l’illusione di un mondo ideale, che guarda tu che caso ci assomigliava tanto, e quel mondo si è rivoltato contro di noi.

Abbiamo riempito le camerette dei nostri figli di storie ribelli e adesso li inseguiamo con il gel igienizzante. Abbiamo vagato per il mondo come zombie dopo notti insonni per tenere a bada incubi e mostri sotto il letto e adesso il mostro è ovunque e se non ti metti la mascherina il mostro sei tu.

Non ho idea di come cresceranno i nostri figli, quali conseguenze può avere essere stati svezzati a pane e sicurezza e poi cresciuti a pane e regole. E se ce l’avessi probabilmente assomiglierebbe al figlio segreto della signorina Rottenmeier e di Joker, quindi preferirei non pensarci. Una cosa però credo di averla capita: prima abbandoniamo la pretesa della sicurezza come se fosse un nostro diritto di nascita, meglio sarà per tutti. Non è un diritto, non lo è mai stato, tutt’al più era un privilegio, un’illusione, un lusso, la favola che ci raccontavamo per andare a dormire.

Abbiamo il dovere di prenderci cura di noi e degli altri, e il diritto di pretendere che le persone a cui abbiamo affidato la nostra salute e il nostro benessere se ne occupino in modo serio ed efficace. Ma non abbiamo il diritto di essere al sicuro. Non ce l’abbiamo mai avuto.

Lo smartworking e la fabbrica dei sensi di colpa

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Di tutte le menzogne che racconta chi lo smartworking l’ha studiato a tavolino, o dalla scrivania del proprio ufficio, la più pericolosa per le donne è che sia un modo fantastico per conciliare casa e lavoro e mettere quindi a tacere ogni senso di colpa.

Lasciatevelo dire da chi lavorava in smartworking quando ancora si chiamava essere così sfigata da lavorare da casa: i sensi di colpa non scompaiono affatto, si moltiplicano.

Scena uno: lasciate il pargolo al nido in lacrime e correte in ufficio. Vi sentite uno schifo, non importa quante volte vi ripetono che appena svoltate l’angolo lui si trasforma nell’animatore dell’aula e fa il giocoliere con i cubi per le costruzioni, voi ve lo immaginerete comunque con l’espressione e l’allegria di quei cani sui poster delle pubblicità progresso che ti spiegano perché è sbagliato abbandonare il migliore amico dell’uomo in autostrada. Ma siete in ufficio, avete un orario da rispettare, un capo e quattro pareti e un intero sistema contrattuale su cui scaricare parte della responsabilità.

Scena due: lasciate il pargolo al nido in lacrime e correte a casa perché siete in ritardo con una consegna. Riuscite a ignorare la lavatrice, la lavapiatti e perfino quelle due dita di polvere che fanno tanto Sahara e vi tuffate davanti al pc. Al vostro tavolo. A qualche metro di distanza dal punto esatto in cui vostro figlio ora potrebbe giocare allegro e spensierato, senza traumi da abbandono e senza dover fare lo slalom fra i bacilli e la fase orale dei morsi altrui. Voi siete a casa, vostro figlio no, eccola la crudele verità. Nessuno vi obbliga a lavorare proprio adesso, diciamolo, la notte è il momento perfetto, nel silenzio, quando nessuno ha più bisogno di voi e non rischiate di perdervi qualche tappa epocale del suo sviluppo. Basta solo non essere così egoiste da pretendere di passarla dormendo.

Scena tre: siete in grado di lavorare con il piccolo sulle ginocchia, sulle spalle, sulla schiena, solfeggiando la canzone del Re Leone e lanciandolo per aria con una mano per poi afferrarlo con l’altra nel tempo che vi ci vuole a stendere un piano aziendale. Voi non avete bisogno di conciliare, voi siete la conciliazione, nulla vi separerà dal vostro cucciolo e dai vostri obiettivi. Nulla tranne un raggio di sole, quel raggio di sole che scenderà sul vostro tappetino per il mouse a ricordarvi l’esistenza dei parchi e delle malattie orribili dovute alla carenza di vitamina D. Per non parlare di idraulici, elettricisti, corrieri, pediatri e dei supermercati che dopo le sette c’è una coda pazzesca e se potessi passare tu dal meccanico sarebbe fantastico altrimenti non preoccuparti, prendo un giorno di permesso che sarà mai, l’ultimo l’hanno solo trascinato per l’ufficio coperto di pece e piume prima di licenziarlo ma non voglio mica disturbarti.

Lavorare in casa può essere la scelta migliore o la peggiore, non c’è una vita uguale all’altra, ma una cosa posso assicurarvela: piovono sensi di colpa grossi come pietre sulla classe lavoratrice a km 0, e piovono tutto il tempo, non solo in orario d’ufficio. Con ogni probabilità passerete l’intera giornata a schivarli e a sentirvi pure uno schifo per questo. Per lavorare da casa non serve il wi-fi, serve la convinzione incrollabile di meritarvi almeno una parte del vostro tempo in esclusiva, non solo gli avanzi spossati che vi deposita davanti a fine giornata la vostra famiglia. La certezza che il tempo che dedicate a voi stesse non è sempre e comunque rubato a qualcun altro e che il valore di una donna non si misura prima di tutto sul suo sacrificio. Se ne siete sicure, lo smartworking può essere fantastico. Se non lo siete, finirete per scoprire che cosa specificava la postilla scritta in fondo a corpo 8 e per pagare la tassa che il mondo ha messo sulla felicità e sulle ambizioni delle donne.

Ci servono padri, non “mammi”

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Dove sono i padri nell’educazione a distanza? Quanti se ne vedono dall’altra parte del computer o della mail? “Per la didattica a distanza dei miei settenni interagisco esclusivamente con madri” mi ha scritto una maestra e probabilmente non è l’unica. Non si tratta dunque delle ore trascorse a casa – “Vorrebbe tanto stare di più con i bambini ma non c’è mai” – il discorso è molto più complesso e l’abbiamo sempre saputo. Non si tratta neanche necessariamente di disinteresse o egoismo dei padri. L’ostacolo a cui giriamo tutti attorno, uomini e donne, nel nostro percorso verso i figli, è il concetto di cura.

Non c’è educazione senza cura ed è qui che noi madri tentenniamo al momento di cedere il controllo, per paura che delegare significhi scomparire. In una cultura in cui il valore della donna riposa ancora saldamente sulla maternità, rinunciare alla cura significa portare la corona scomoda e pesante di una solitudine egoista. Il tempo che le donne dedicano a se stesse è sempre tempo sottratto a qualcun altro, i progetti delle donne sanno di lusso e di superfluo, e i loro risultati portano il segno della concessione altrui.

Finché continueremo a definire “mammi” gli uomini che si prendono cura dei figli, il nostro immaginario sarà popolato da simpatici ragazzoni che fanno giocare i figli, cambiano pannolini e sanno cucinare e fare le treccine. E il concetto di cura continuerà a essere definito in termini di sacrificio e annullamento di sé quando lo decliniamo al femminile e in termini di creatività ed espressione di sé quando invece lo decliniamo al maschile.

Non ci servono “mammi”, ci servono padri che si occupino dei figli per lasciare spazio ai talenti delle donne. Ci serve una società disposta a rivedere il concetto di cura e ad accettare il fatto che se gestire il quotidiano dei figli non scalfisce la mascolinità di nessuno, non farlo, o farlo meno, non intacca la nostra femminilità e non ci rende meno madri di prima. I “mammi”  sono eccezioni allegre e giocose che vanno bene per i titoli dei giornali. Non ce ne faremo niente quando ci sarà bisogno di decidere chi resta a casa con i figli, quando ci serviranno soluzioni a lungo termine, non un cerotto con cui tamponare l’emergenza.

Abbiamo bisogno dei talenti delle donne per ripartire, non possiamo lasciarli indietro, non possiamo permetterlo e non possiamo permettercelo. Dove non arriverà più la scuola dovranno arrivare i genitori, insieme. E forse nel momento in cui cominceremo a spartirla, quando non sarà più una prerogativa esclusivamente femminile, la cura si scrollerà di dosso anche quell’aura di sacrificio, di rinuncia di sé, e non sarà più necessario alimentare gli equilibri domestici con i sogni sminuzzati e calpestati di chi se ne fa carico. Tolto il sacrificio delle donne dal gioco, chissà che non ci tocchi scoprire che di quel sacrificio, in realtà, non c’era mai stato davvero bisogno.

 

E se restassimo senza far niente?

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Foto di StockSnap da Pixabay

Mamma, confinati.

Non inseguire le maestre fra le spunte blu della giungla di Whatsapp per sapere quando ci faranno lezione online e quando ci daranno i compiti e se i voti valgono lo stesso e perché non studiamo più flauto traverso che nella vita non serve a un piffero, lo dicevi sempre, ma in quarantena a quanto pare è diventato indispensabile “perché la maestra di musica a fine mese lo stipendio lo prende lo stesso”.

Non organizzarmi una festa di compleanno con zii e cugini di secondo grado di cui fino a ieri ignoravo l’esistenza e che adesso sono tutti spiattellati sull’iPad come tanti quadratini di Minecraft, e non chiedermi di vedere spettacoli teatrali e film in bianco e nero e balletti e concerti “che adesso sono gratis”; se fino a ieri il picco intellettuale delle mie giornate era Lisa nella Casa dei Loud, che cosa ti fa pensare che restare chiusa in casa per settimane senza vedere la luce del sole mi abbia trasformata nella versione con le treccine dell’Enciclopedia britannica?

Papà, confinati.

Lo so che la quarantena è un’occasione fantastica per scrivere un fumetto, per imparare a suonare il piano, per tenere un diario, per fare karate, per scrivere haiku, per scoprire i miei chakra, per rimettere in ordine la stanza, per dipingere casa, per imparare il portoghese, per fare addominali, per studiare i decimali usando gli spaghetti, per imparare le costellazioni usando i piselli e stuzzicadenti, e per scoprire il senso della vita usando i meme, ma fra HouseParty e la lezione online di hip hop e la merenda virtuale con i nonni e il ripasso di solfeggio via Zoom e la app per ripassare matematica e le fiabe in diretta Instagram e quelle in differita su YouTube e quelle al telefono e quelle sull’iPad, ieri davanti alla porta del bagno sono rimasta ferma a chiedermi che password mi serviva per entrare.

Io non lo so che cos’è che deve andare bene e spero che la nonna guarisca ed esca dall’ospedale e che non le succeda come al nonno di Mario che un giorno l’hanno portato via e poi non hanno potuto fare il funerale neanche se si mettevano la mascherina e i guanti, e Mario gli aveva fatto un disegno e voleva darglielo, però sua mamma ha detto che bisogna aspettare di poter andare al cimitero, ma lui ci aveva già scritto Guarisci presto e non sa se lasciarlo o no. E spero che la mamma e il papà della maestra stiano bene, perché un giorno durante la videolezione è scoppiata a piangere, ma poi si è soffiata il naso come un elefante e ha detto che piangeva perché eravamo dei somari e noi l’abbiamo capito tutti che non era vero, che lo diceva solo per farci stare tranquilli, perché è meglio avere una maestra che ti dà del somaro che una maestra triste, anche se in quel momento è a casa sua e dietro c’è un mobiletto montato storto e il suo cane ogni tanto abbaia come un pazzo.

Quindi non importa se mi annoio e se il nostro balcone è così stretto che a correre dopo un po’ mi gira la testa e se la torta del compleanno è venuta piccolina perché nel supermercato non si trova più il lievito. È un po’ come la nostra vita, che si è ristretta anche lei e adesso siamo sempre vicini e le giornate sembrano più corte e non ci sta più dentro niente. Ma a me non importa e non è perché ci sono le dirette Instagram e le zie in videochat o perché facciamo la focaccia. È perché in un mondo piccolo piccolo puoi stare fermo o correre velocissimo e arrivi comunque insieme. In un mondo piccolo piccolo quando ti perdi ti basta restare fermo per ritrovarti. In un mondo piccolo piccolo puoi anche tirare il fiato, ogni tanto, e nessuno si accorge che sei rimasto indietro. O che ti sei saltato una lezione online.

(Mamma, confinati è il capitolo in quarantena del precedente Mamma, mollami.)

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Come il confinamento può far nascere tanti piccoli lettori

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Foto di PublicDomainPictures da Pixabay

Ci ho provato in tutti i modi. Erano anni che ci provavo in tutti i modi. La casa era piena di libri, entravamo in libreria a ogni occasione, anche solo per curiosare, gli leggevo la storia della buonanotte, lasciavo che fosse lui a scegliere le storie che più gli piacevano e al ritmo che preferiva. Ma niente da fare.

Entravamo in biblioteca e appena mi distraevo per prendere un altro libro dagli scaffali me lo ritrovavo davanti ai computer. A scuola durante la mezz’ora di lettura si fiondava sul libro dei labirinti e quando proprio gli andava di leggere, su quello delle barzellette. E ogni volta che lo sentivo pronunciare la frase fatale, mi si stringeva il cuore. “A me non piace leggere.” La persona di turno gli spiegava perché leggere era bellissimo fantastico meraviglioso e lui la fissava e ripeteva, scandendo meglio le parole e probabilmente chiedendosi quale fosse la parte difficile da capire: “A. Me. Non. Piace. Leggere”.

Poi ci siamo chiusi in casa, isolati dal coronavirus. I libri erano sempre gli stessi, di nuovi non ne entravano, e compiti da scuola neanche, le maestre erano scomparse nel nulla e insieme a loro anche il legame quotidiano con la parola scritta. Niente più amici, niente più attività nel pomeriggio, niente più uscite. Si prospettava una lunga caduta a precipizio nel mondo dei videogiochi, trattenuta a stento da divieti e norme e limiti massimi di tempo sempre più difficili da far rispettare. E invece no.

I videogiochi resistono, ovviamente, padroni del tempo concesso e anche di quello non concesso, che occupano comunque in forma di schemi mentali e desideri e fantasie di battaglie e armi e chissà che altro. Ma davanti a tutto quel tempo vuoto anche loro si sono dovuti arrendere. E così ho scoperto qual era l’alleato migliore della lettura. Era talmente facile, in realtà, che non so perché non ci sono arrivata prima. Era la noia.

È bastato annoiarsi, per riprendere in mano i libri e i fumetti. Anzi, no. Neanche questo è del tutto vero. È bastato rallentare. Rallentare fino a fermarsi. I bambini delle elementari sono forse gli unici che hanno la possibilità di farlo davvero, in questi giorni. Ed è stato in quel vuoto, in quel ritmo ritrovato, in cui il tempo si allargava e si distendeva e si faceva meno frenetico ed esigente, che le storie hanno ricominciato a far sentire la propria voce. È bastato rendere tutto più semplice, togliere le piccole sfide e le mille pressioni e le ansie quotidiane a cui era sottoposto fino a ieri, senza che ce ne accorgessimo. In questo tempo sospeso i bambini forse non sono più felici e di certo risentono di tante ore al chiuso e del poco esercizio, ma stanno tirando il fiato, secondo me, stanno rallentando. Hanno smesso di rincorrere i minuti e gli impegni e una soglia di attenzione che sembrava diventata infinitesimale e invece forse era soltanto vittima di una curiosità iperstimolata.

E in questo tempo sospeso, quasi per magia, sono tornate a vivere le storie.

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