La spiaggia è un osservatorio privilegiato sulla famiglia. Padri piegati sotto il peso di borsoni coperti da orsetti dietro madri che avanzano a passo di marcia con il pargolo avvolto nel pareo stile crisalide. Mariti tempestati da raffiche di indicazioni e consigli da mogli e suocere, e che esibiscono le spalle scottate come scampolo di indipendenza. Madri che riempiono di crema da sole i quattro figli nel tempo che ci vuole al marito per togliersi i sandali e lamentarsi perché la doccia è troppo lontana.
Andare in spiaggia in famiglia è una prova di sopravvivenza. La spiaggia sta alla famiglia come l’Ikea alla coppia. Ma senza l’hot dog a salvare la situazione nel finale.
C’è la famiglia che sceglie la strategia della chiocciola e si porta dietro tutta la casa, con tanto di tavolini, sedie, caffè, ammazzacaffè, carte per la partita, sdraio, lettino, amaca, pinne, maschera, muta, salvagente per la nonna, tutto nel perimetro delimitato da due ombrelloni montati stile bunker, con i sacchetti di sabbia a tenere fermi i lati. Mangiano un pranzo di cinque portate, si alzano dalla sedia pieghevole il tempo di andare a fare la doccia e poi tornano a casa abbuffati e contenti.
C’è la famiglia selvaggia, che scende con due figli e un costume solo e niente giochini che poi si perdono, usate pure quelli degli altri. Niente, neanche essere sepolta viva sotto la sabbia o le urla del vicino quando i pargoli passano a lui, può distogliere la madre dalla cura del sonno o richiamare a riva quel puntino all’orizzonte che è diventato il padre. Quando il sole tramonta la madre apre gli occhi, il padre emerge stile Tritone dalle acque, prende i primi due bambini che si trova di fianco e se ne tornano a casa ustionati e contenti.
Di questa esiste anche la versione da terza età, con modalità praticamente identiche, quando i nonni in vacanza con i nipoti (“Vacanza un corno”) decidono di voler arrivare all’estate successiva e che il modo più sicuro per riuscirci sia fingere di essere scesi in spiaggia da soli e contare sulla benevolenza altrui.
Poi c’è la famiglia novella, quella che porta il bebè in spiaggia per la prima volta, con un padre ansioso che non perde di vista il pargolo per evitare che si metta in bocca i sandali, la crema da sole, il rastrello, cinque chili di sabbia, il telo del vicino, la coda del cane del vicino, l’alluce del vicino, e quando finalmente la creatura si addormenta sulla sdraietta torna a rilassarsi, pronto a scattare al primo vagito, mentre la moglie sfoggia il libro che non ha avuto il tempo di aprire negli ultimi dieci mesi e di cui leggerà sì e no due righe, per poi tornare a casa orgogliosa e contenta.
Non ci saranno viti e nomi impronunciabili, ma anche la spiaggia, proprio come l’Ikea, è un faro puntato su tutte le crepe del nostro nido d’amore. Che si tratti di scegliere il divano o di montare l’ombrellone, la domanda di fondo è più o meno sempre la stessa: perché non assomigliamo un po’ di più alle famiglie felici delle pubblicità? Perché il nostro equilibrio familiare è solido come il fondo della cassettiera da 29,9 euro?
In realtà, secondo me, le famiglie felici sono l’equivalente del tipetto calvo con l’aria saccente disegnato sui manuali delle istruzioni dell’Ikea. Non esistono. Servono solo a farci sentire sbagliati, incapaci e falliti. Le famiglie solide sono quelle in cui accartocci esasperato le istruzioni fin dall’inizio perché manca una vite, ti sei accorto di non avere il pezzo fondamentale, in cui ammacchi uno spigolo ancora prima di cominciare. E solo così, mettendoci una pezza, trovando una soluzione impensata, puntellando qua e là e ignorando il tipetto calvo e le famiglie degli annunci, si riesce a reggere, anno dopo anno, spiaggia dopo spiaggia, divano dopo divano.
La soluzione non è mai nel libretto di istruzioni, la soluzione è dimenticarsi della foto del catalogo e smetterla di sentirsi in colpa se non ci assomigliamo per niente.
Per essere felici non serve una famiglia felice, ma una famiglia in cui ci sia spazio per la felicità di tutti quanti. Anche sotto l’ombrellone.