Se ci emoziona, non può essere sbagliato

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“Sono bisessuale”. L’ha scritto una ragazza di tredici anni, su una crostata alle fragole che aveva preparato per i genitori. A farle paura non era l’omofobia dei compagni o degli amici. Aveva solo bisogno di capire chi era e di ritagliare uno spazio a quella sua nuova identità nel mondo degli adulti e delle persone che le volevano bene.

Questo episodio, che mi è stato raccontato da alcuni amici, è uno dei motivi per cui ho deciso di scrivere Speciale Elsa. Un romanzo non sarà mai all’altezza di un messaggio scritto con le lettere dell’impasto di un dolce, che è la metafora più bella che mi venga in mente del bisogno di essere accettati, ma può fare qualcosa di molto simile: ritagliare uno spazio nel discorso pubblico, far capire ai lettori che non sono soli e non sono sbagliati, e che nel mondo degli adulti c’è posto per loro.

Le serie per il target adolescenziale (che spesso vengono viste già dai preadolescenti) raccontano amori omosessuali da tempo, basti pensare a Euphoria, Élite, Skam, Sex Education, Atypical, fino alla più recente Heartstopper. Le storie omosessuali fanno parte della vita dei ragazzi e delle ragazze, che li vivono con una naturalezza che stupisce noi adulti, che siamo cresciuti fra il dramma del coming out e lo spettro dell’emarginazione sociale. L’omofobia continua a esistere, ma con connotati diversi da quelli a cui siamo abituati, e finché non viene convalidata dallo sguardo adulto è sopraffatta facilmente dalla realtà in cui sono immersi. Le storie d’amore omosessuali invadono TikTok, gli outfit dei cantanti sfidano ogni rappresentazione di genere, le storie d’amore fra celebrità (vere o presunte) emozionano perfino di più quando sfuggono ai canoni etero. Se non la insegnassimo noi ai ragazzi, insomma, l’omofobia probabilmente sarebbe destinata a estinguersi.

“C’è qualcosa di pericoloso in quello che provo per Nora, lo so. Nel modo in cui mi fa sentire, in quello che mi fa desiderare di fare. È come se mi portasse via da tutto quello che ero fino a ieri, da quello che mi tiene ancorata a terra, come le zampe del drago sotto l’asfalto. Dalla Elsa che conoscono gli altri. Nessuno conosce la Elsa che ha baciato Nora e questo mi fa sentire molto libera e molto spaventata.”

Speciale Elsa, Il Battello a Vapore

È il concetto stesso di identità del resto a essere cambiato fra i giovani, è diventato più fluido e meno ingombrante (basti pensare al modo in cui usano Instagram, non come vetrina, bensì come contenitore di momenti fugaci), ma al tempo stesso anche più difficile da afferrare. La Generazione Z non ha bisogno di punti fissi, fossero anche quelli del binarismo di genere, li schiva e ci scorre in mezzo, insegue trend collettivi destinati a essere fuggevoli, li incrocia e li trasforma e poi cambia direzione di nuovo.

La riflessione sulla propria identità è un altro dei motivi per cui ho scritto Speciale Elsa. Per raccontare quel momento in cui, crescendo, ci imbattiamo in un’immagine di noi stessi diversa da quella che credevamo di conoscere, e più cerchiamo di assomigliare a quell’immagine, più abbiamo la sensazione di tradire le nostre radici. Quanto possiamo allontanarci dall’idea che gli altri hanno di noi senza perderci? E quanto possiamo sfuggire all’immagine che ci rispecchia davvero senza perdere noi stessi?

Ecco perché è fondamentale parlarne e perché bisogna farlo già alle medie, quando è più facile e al tempo stesso ancora più necessario. Non si tratta solo di insegnare a non discriminare; usare un atteggiamento normativo e punitivo nelle battaglie per i diritti rischia di essere controproducente. Normalizzare gli amori omosessuali e le diverse identità di genere, invece, fare loro spazio nella vita scolastica, nei romanzi per quel target d’età, nei discorsi pubblici, rende tutto accessibile, prossimo, familiare e quindi meno estraneo. Se ci emoziona, non può essere sbagliato. Se ci emoziona, in qualche modo riguarda anche noi. Dovremmo smettere di associare l’omosessualità, nell’immaginario dei bambini, a qualcosa di clandestino e pericoloso. L’omofobia si combatte anche a colpi di lieto fine e di normalità. Certo, è importante spiegare ai ragazzi che alcuni insulti non sono come gli altri. Così come è fondamentale saper riconoscere il bullismo omofobico e avere gli strumenti per intervenire. Ma è altrettanto importante, secondo me, insegnare ai ragazzi a non avere paura di essere come sono.

L’estate dei miei quattordici anni. La prima delle superiori. Ero convinta che a quattordici anni sarebbe cambiato tutto. E infatti è successo, solo che è cambiato tutto quello che non doveva cambiare. A volte la vita ha un senso dell’umorismo proprio del cavolo.

Speciale Elsa, Il Battello a Vapore

La letteratura per ragazzi racconta il mondo e disegna traiettorie, e quel mondo deve assomigliare alla realtà dei suoi lettori, dev’esserci posto per il loro coraggio e la loro libertà, non per le paure degli adulti. I ragazzi e le ragazze sanno già come amare, hanno solo bisogno di spazio, di essere rappresentati, di sapere che non sono sbagliati, che se ascoltano la propria voce andranno nella direzione giusta e che le loro radici li seguiranno sempre, ovunque andranno. Non si perderanno strada facendo, anzi, succederà esattamente il contrario. Come dice la nonna di Elsa: “La gente si abitua a tutto. Tu preoccupati solo di non essere diversa da te stessa”.

Fra i tanti motivi per cui è importante combattere l’omofobia fra i ragazzi, quindi, ce n’è uno che forse non viene ricordato abbastanza spesso: perché è il modo migliore per insegnare a tutti, qualunque sia il loro orientamento sessuale, ad assomigliare sempre a se stessi.

Le donne in Nepal: Kumari la dea bambina e l’isolamento mestruale

MATERIALE DIDATTICO PER ACCOMPAGNARE LA LETTURA DI “FAZZOLETTI ROSSI”

La Kumari: la dea bambina in Nepal

kUMARI

La Kumari, o Kumari Devi, è una dea bambina, la reincarnazione di una divinità conosciuta come Durga, nella religione indù. Una dea vivente, insomma.

La più conosciuta è quella di Kathmandu ed è scelta fra le bambine di un’alta casta buddista quando è ancora molto piccola. Le candidate poi vengono sottoposte a una serie di prove, da cui emergerà la futura Kumari. Perfino il suo oroscopo deve ricevere l’approvazione di un astrologo! Devono avere una pelle e una dentatura perfetta, nessuna cicatrice e una bellezza fuori dal comune, oltre ovviamente a essere sane. Inoltre non devono avere mai perso sangue, neanche per un taglietto. Ma come si definisce e si riconosce la bellezza necessaria per diventare una Kumari? Nulla è lasciato al caso. Esistono infatti ben 32 criteri di perfezione, che devono essere rispettati. La lingua piccola, per esempio. Il collo come una conchiglia e le cosce di un daino. Le ciglia di una mucca e una pelle chiara e profumata. Piedi proporzionati e le guance di un leone e una voce morbida e limpida. E via così.

Fra le prove, alcune servono a dimostrare che la bambina ha un carattere sereno, che non ha paura, in particolare del sangue, e che non piange mai. Per questo viene rinchiusa in una stanza con decine di teste mozzate di capra e 108 bufali morti e lasciata lì tutta la notte, mentre alcuni uomini mascherati da demoni cercano di spaventarla. Solo la bambina che resterà impassibile diventerà la nuova Kumari, che letteralmente significa “vergine”.

A quel punto dovrà abbandonare la sua famiglia e trasferirsi a palazzo, da dove non potrà mai uscire, se non per occasioni particolari. Si vestirà sempre di rosso e non potrà mai toccare terra con i piedi. L’unico posto in cui può camminare infatti sono le sue stanze, per il resto dev’essere portata in braccio o su una portantina. È circondata da servitori pronti a esaudire ogni suo desiderio e negli ultimi anni riceve anche una certa istruzione, a differenza di quanto accadeva in passato; i suoi tutori però non possono obbligarla a studiare o darle ordini: si tratta di una dea, non di un’alunna qualsiasi!

Nelle rare occasioni in cui esce o si affaccia alla finestra, viene venerata e osannata e la folla si accalca attorno a lei, nella speranza di una benedizione. L’occhio disegnato al centro della sua fronte rappresenta il potere divino di cui è portatrice e ogni sua reazione e ogni minimo gesto acquistano un significato preciso: se resta immobile, per esempio, significa che la richiesta che è stata fatta verrà esaudita; se trema significa che qualcuno finirà in prigione; se piange, che il futuro riserva morte e malattia.

Non si resta Kumari per sempre, però. Vi è un evento ben preciso nella vita di quelle ragazze che segna la fine della loro condizione divina. E quell’evento è l’arrivo delle mestruazioni. Da quel giorno infatti cessano di essere Kumari e tornano a essere comuni mortali. Devono abbandonare il palazzo, che verrà occupato dalla nuova Kumari, e prepararsi a una vita tutto fuorché facile. Avranno un vitalizio, certo, ma non hanno ricevuto un’istruzione adeguata e sono completamente impreparate ad affrontare il mondo. Come se non bastasse, la leggenda dice che l’uomo che sposa una Kumari è destinato a morire giovane.

copertina fazzoletti rossi

Le mestruazioni in Nepal

Nel maggio del 2019, alcune donne del villaggio nepalese di Ripi si ribellarono e rifiutarono di sottomettersi al rito mestruale della chapaudi. In che cosa consiste? Nelle zone rurali del Nepal occidentale, quando le donne hanno le mestruazioni sono considerate impure, quindi devono allontanarsi da casa e rinchiudersi in capanne primitive, spesso di fango e senza finestre, dove non possono lavarsi e non possono consumare carne o latticini, né usare coperte per scaldarsi. L’isolamento nel chaughot, come è chiamata la “capanna delle mestruazioni” inizia fin da giovanissime, anche a 13 anni, e significa dover restare da sole e al freddo, di notte e di giorno, senza poter prendere parte alla normale vita familiare.

È stato calcolato che ogni anno almeno una donna muore durante quei giorni, spesso asfissiata dopo aver acceso un fuoco per cercare di riscaldarsi. In un caso, una giovane morì morsa da un serpente. La chapaudi è stata dichiarata illegale più di una volta, eppure l’usanza prosegue. Non basta infatti la legge a cancellare la convinzione che le donne con le mestruazioni siano pericolose per la loro famiglia e che quindi isolarsi sia un modo per proteggerla. Se una donna che ha le mestruazioni tocca un uomo, per esempio, questo si ammalerà; se beve latte, la mucca non ne darà più; se attinge acqua dal pozzo, il pozzo si prosciugherà. Per ragioni analoghe, legate alla stessa visione del femminile come impuro, durante le mestruazioni le donne non possono andare al tempio o a scuola, e hanno il divieto di toccare gli uomini o di mangiare determinati alimenti.

Scaricate la scheda didattica Raccontare le mestruazioni, con i percorsi tematici e le attività da svolgere in classe.

Consultate la scheda del romanzo su LeggendoLeggendo, il sito per insegnanti, con altre proposte didattiche di approfondimento e le pagine del Diario di Camilla da scaricare gratuitamente.

Perché leggere “Fazzoletti rossi” a scuola:

  • Un libro che ha il coraggio di affrontare una tematica considerata tabù e di normalizzarla.
  • Una storia che parla di bullismo e sessismo a scuola.
  • Un inno all’amicizia tra ragazze che farà molto bene anche ai ragazzi

Per l’8 marzo, meno mimose e più #fazzolettirossi

foto braccio mare3

“Perché vorrei poter dire in classe che ho le mestruazioni senza che tutti facciano la faccia schifata.”

Per quanto mi sforzi, non riesco a trovare un solo ricordo scolastico sulle mestruazioni. Nessuno. Da un rapido calcolo approssimativo, dovrei averle avute almeno una sessantina di volte, fra medie e liceo. Possibile che non me ricordi neanche una? Che abbia rimosso tutto completamente? Che abbia finto così bene che non esistevano da cancellarle? In vita mia ho avuto le mestruazioni più di 400 volte eppure l’unica cosa che ricordo sono macchie: cuscini macchiati, costumi macchiati, pantaloni macchiati, lenzuola macchiate. Il terrore di essermi macchiata e la vergogna di essermi macchiata. Dovermi cambiare di nascosto, non sapere che cosa fare dell’assorbente sporco, non trovare un bagno quando ne avevo bisogno. Per 400 volte ho finto di non perdere sangue quattro o cinque giorni di fila, con il terrore di essere scoperta, perché in “quei giorni” le brave ragazze perbene si mettono i pantaloni scuri e se proprio sono costrette a confessare, dicono di “avere le loro cose”.

due amiche

“Perché mi sono stufata di nascondere i tampax, neanche stessi spacciando droga.”

C’è qualcosa che non va. È evidente. Vivere nel segreto e nella vergogna del tuo corpo una volta al mese significa stravolgere il senso dell’essere donna. Significa che essere donna ha qualcosa di sporco e di sbagliato, che ti fa sentire inadatta. Significa che giochi in un’altra categoria, che gli spazi pubblici a poco a poco ti vengono negati e ti assomigliano sempre di meno. Un mondo in cui non c’è posto per le mestruazioni è un mondo in cui non c’è posto per le donne. Una società in cui le mestruazioni devono restare un segreto è una società in cui quel che riguarda le donne si sussurra a parte, in privato, per non rubare la scena pubblica ai desideri degli uomini. Soprattutto quando quei desideri riguardano proprio il corpo delle donne, un corpo reinventato e riscritto per aderire alle esigenze altrui. Quante possibilità abbiamo di vivere serenamente nel nostro corpo, con queste premesse?

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“Perché quando sento che devo cambiarmi l’assorbente significa che devo cambiarmi subito! E invece non mi danno il permesso di andare in bagno.”

Quante sono ancora oggi le scuole in cui alle ragazze non è permesso andare a cambiarsi a metà lezione? Quante ragazze hanno sporcato la sedia in aula? Quante scuole si rifiutano di sistemare una scatola di cartone per gli assorbenti sospesi, perché ci sono “questioni più urgenti” di quello che succede alla metà della popolazione studentesca (e alle stesse insegnanti) una volta al mese? Quante ragazze sono costrette a soluzioni di emergenza perché non hanno un assorbente nel momento del bisogno e si vergognano troppo per chiederne uno? Per quante l’ora di ginnastica significa ansia e imbarazzi, una volta al mese?

Ecco perché questo 8 marzo dovremmo portare tutte un fazzoletto rosso: perché parlare di mestruazioni apertamente, sin dalle scuole medie, è il primo passo per permettere alle ragazze di crescere nella convinzione di meritarsi davvero le stesse opportunità dei maschi. “Nessuno può cancellarti” scrive Luna in Fazzoletti rossi. “Se ti senti invisibile, allora significa che devi gridare più forte.” Le bambine ribelli sono cresciute e non hanno intenzione di sussurrare quando si raccontano. Perché hanno imparato che non c’è gesto più rivoluzionario che parlare di sé.

copertina fazzoletti rossi

 

 

Il gesto rivoluzionario di parlare di noi. Le prime mestruazioni

 

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“Parla di noi” scrive una protagonista all’altra all’inizio di “Fazzoletti rossi”. Ed è quell’invito, in qualche modo, a cambiare tutto. Per questo in occasione dell’uscita del romanzo ho chiesto sulla pagina Facebook di Rosapercaso se qualcuna aveva voglia di ricordare le sue prime mestruazioni. Confesso, pensavo che sarebbero state in poche a raccogliere l’invito e il fiume di risposte che è arrivato, invece, mi ha sorpresa e al tempo stesso mi ha commossa. Quelle storie traboccano di emozioni, di vita, di verità su quel che significa essere donne, sono piene di energia, di gioia, amore, vergogna, paura e solidarietà. E sono piene di segreti.

Come hanno potuto convincerci che dovevamo stare zitte, con tutto quello che avevamo da dire? Il perché, invece, è fin troppo chiaro: le parole delle donne sono rivoluzionarie, basta scorrere quelle storie per capire che il solo fatto di averle scritte, e lette, ha già iniziato a cambiare le cose. Eccone allora alcuni brevi estratti, anche se non rendono giustizia del mosaico che ha preso forma sulla pagina.

Non smettiamo mai, vi prego, di parlare di noi.

Avevo nove anni e fu un trauma. Mentre le altre bambine potevano correre e giocare, io avevo il terrore di sporcare persino la sedia a scuola e rimanevo immobile per tutte e cinque le ore sperando di non fare brutta figura quando dovevo alzarmi per tornare a casa. (Tiziana)

Mio papà mi ha detto: “Ora sei grande, non potrai più uscire dal cortile da sola (!!!!)” Ricordo una sensazione di vergogna, disagio e imbarazzo. Avevo 11 anni. (Francesca)

Quel dolore alla pancia e quella robaccia marroncina mi spaventarono. (Laura)

Mia madre mi premiò con dei soldi che usai per un paio di zoccoletti rossi. (Giorgia)

Il mio ricordo è delle scuole medie e sono un paio di jeans con le tasche larghe, di dimensioni perfette per metterci già da casa l’assorbente per il cambio di metà mattina, così da evitare la vergogna di tirarlo fuori davanti ai maschi in classe! Oppure il tossire in bagno quando toglievo l’assorbente usato ed aprivo il nuovo, per evitare che si sentisse il rumore dello “strappo”! (Alessia)

Ricordo che il mio pensiero stizzito in quel momento fu: “Ma dai, che seccatura, proprio oggi che dovevo andare al mare!” (Noemi)

La sera i miei mi portarono a cena fuori per festeggiare, insieme ad una cara zia. (Loredana)

Signorina. In una parola si nascondono decenni e decenni di vergogna. (Irene)

Se dovessi riassumere tutto in una parola, ti direi vergogna. (Ilaria)

Ricordo che sentii mia madre telefonare a mia nonna e dire :”Oggi è sbocciato un fiore”. (Cinzia)

L’ho vissuta in modo naturale per fortuna. Anzi ero felice di aver concluso una prima parte di vita e di averne iniziata un’altra. (Alessandra)

Mi ricordo la prof di matematica che mi disse davanti alla classe di non fare sceneggiate, altrimenti chissà durante il parto. In verità avevo l’endometriosi, che mi fu diagnosticata solo dieci anni dopo. Ogni volta che mestruavo, e mi succede tutt’ora, mi veniva l’ansia per il male, gli antidolorifici, le emorragie. (Chiara)

Mio padre mi portò a casa le paste per festeggiare “perché sei diventata grande”. (Annamaria)

Tutto quel sangue mi sembrava una colpa e una punizione ingiusta, ogni mese, mal di schiena, mal di pancia, mal di testa davvero non capivo il perché. (Gabriella)

Scoppiai a piangere. Una volta a casa chiesi a mia mamma il perché di tutto ciò e lei mi spiego con tutto l’amore che una mamma può dare. (Sabrina)

Mi sono spaventata così tanto che pensavo sarei morta dissanguata. Poi, quando per consolarmi mi hanno detto che ero diventata “signorina” e che non ero più una bambina, sono scoppiata a piangere perché io volevo giocare ancora con le Barbie, non essere una signorina! (Lorenza)

Gli assorbenti sporchi da portare a casa nella tasca esterna dello zaino perché nella mia scuola media non c’era un cestino apposito, ed i bagni erano unisex. (Irene)

A me è andata di lusso, finalmente erano arrivati gli assorbenti usa e getta. (Antonella)

I dolori sono sempre stati fortissimi, ma a scuola non accettavano giustificazioni con scritto “indisposizione” e, quando spiegavi alle professoresse cosa avevi, rispondevano che non era una giustificazione valida. “Mica è una malattia!”. Ricordo il terrore di sporcare i pantaloni a scuola, allora mettevo due assorbenti perché era capitato ad una compagna di sporcare la sedia e tutti i maschi avevano cominciato a ridere, prendendola in giro. Ricordo ancora la bidella che disinfettava la seduta tra le risate generali. (Alessandra)

Capii subito come andavano le cose: di mestruazioni non si poteva parlare, mai.  (Laura)

 Il mio primo ricordo è un iniziale panico, seguito dalla domanda “non mi sarò mica fatta la cacca addosso?” (Beatrice)

Ricordo che non capivo cosa fosse successo, mia mamma era tutta contenta ma poi mi diceva: “Non parlare di mestruazioni, soprattutto ai maschi, di’ che hai le tue cose!”. (Susanna)

Ho passato il resto della giornata a pensare a quella cosa nelle mutande, con l’ansia che si spostasse. Ero tra le prime ad avere le mestruazioni tra le mie amiche e quindi è stato davvero traumatico! (Federica)

Orgoglio, mi sono sentita grande ma anche sana e “normale”. (Silvia)

Mia madre mi disse che era “una cosa” normale che capitava a tutte le donne e che avrei avuto “quelle perdite”, una volta al mese. Aggiunse: mi raccomando nascondi gli assorbenti che non li vedano tuo padre o tuo fratello. Vietato, in casa, l’uso del termine mestruazione. (Sonia)

Angoscia e tristezza. Non so perché. Forse non capivo bene cosa significasse ma ricordo che scoppiai a piangere quando mia madre mi disse che “ero diventata signorina”. (Nunzia)

I primi mesi sono stati un caos perché non sapevo esistessero gli assorbenti con ali e continuavo a macchiarmi e mia madre mi sgridava perché sporcavo tutto. (Gaia)

Una delle prime volte a 12 anni: mi sono macchiata molto i pantaloni e così ho coperto con la maglia fissata in vita. Salgo sull’autobus per tornare a casa da scuola e un ragazzo più grande ride di me con i suoi amici. Da quel giorno ho il terrore di macchiare i pantaloni e giro con doppio assorbente e un paio di jeans di ricambio. (Veronika)

Ancora adesso, se sono ospite da amici single, ripongo l’assorbente sporco in un apposito sacchettino che butterò una volta rientrata a casa. (Sara)

Avevo 13 anni e stavo tornando a casa da scuola in autobus, ero stravolta e pregavo di non avere macchiato il sedile!  (Liliana)

Ero molto piccola. Ricordo che il primo giorno avevo timore di fare la pipì, l’ho trattenuta quasi tutto il giorno. (Miriam)

 Ricordo il meraviglioso mazzo di rose rosa di mio padre, il passaggio all’età adulta accompagnata da un amorevole sguardo maschile, il più importante. (Paola)

Nella famiglia tutti che esultavano mentre io piangevo nella consapevolezza che stavo crescendo. (Valentina)

Piangevo disperata perché non le volevo, facevano male, mi impedivano di fare un sacco di cose (all’epoca facevo karatè e avevo il terrore che mi venissero all’improvviso chiazzando il kimono bianco). Mi sembrava una condanna. (Gaia)

Panico. (Libera)

Io. A casa di nonna. Col letto e le mutande piene. Spavento allucinante. (Jessica)

Era ora! (Rossella)

Io ho un ricordo tenero e buffo di mia mamma che dopo avermi spiegato dove teneva gli assorbenti in casa e come utilizzarli fa dietrofront e aggiunge: “Mi raccomando, la parte adesiva verso le mutande, eh”. (Valentina)

È stato un disagio terribile anche perché senza spiegarmi niente hanno iniziato a telefonare la notizia a parenti e amici. (Anna)

Il mio primo pensiero è stato “finalmente!!!” perché ero ansiosa di averle per sentirmi grande. (Serena)

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Perché serve una scatola rossa per gli “assorbenti sospesi” in tutte le scuole

foto statale
All’Università degli Studi di Milano

“Durerebbe una settimana, massimo, poi la distruggerebbero.”

“Abbiamo problemi più seri, a scuola.”

“Non ci sono i soldi neanche per la carta igienica.”

“Le ragazze non hanno alcun problema a procurarsi gli assorbenti.”

“È poco igienico.”

“Per le ragazze di oggi non è mica un tabù, ne parlano tranquillamente.”

“Il cartone può essere incendiato.”

Sono alcune delle obiezioni che ho raccolto davanti alla proposta di mettere in tutte le scuole, a partire dalle medie, una scatola rossa dove chi può e vuole lasci ogni tanto un assorbente e chi ne ha bisogno ogni tanto lo prenda. Le obiezioni sono tutte legittime, tranne forse quella sul costo, dal momento che per realizzarla bastano una scatola riciclata e un po’ di fantasia. È vero, le ragazze oggi ne parlano serenamente. Alcune. Di quelle che se ne vergognano e le vivono con imbarazzo non potremo mai tenere il conto. Ci sono. Ci sono anche loro. Solo che non lo sappiamo.

Certo, quasi tutte le ragazze possono pagarsi un assorbente. O almeno così crediamo.  Ne siamo proprio sicuri? I dati per l’Italia non ci sono, ma la period poverty esiste eccome, ed è un problema. Nel Regno Unito, dove dal 20 gennaio vengono distribuiti gratuitamente nelle scuole e nei college pubblici, una ragazza su dieci ha dichiarato di non potersi permettere gli assorbenti. In Nuova Zelanda un’alunna su 12 salta la scuola perché non può permettersi di acquistare gli assorbenti.

È vero che la scatola rossa in un bagno scolastico avrebbe una vita spericolata e forse qualche spiritosone se ne andrebbe in giro per il corridoio con due assorbenti incollati in testa a mo’ di orecchie o userebbe il tampax come missile, magari colorato ad arte. Anche i gessetti del resto possono essere usati per fare disegni sconci, ma non è un buon motivo per proibirli. La carta igienica prende fuoco facilmente, ma se ne incoraggia comunque l’uso. Le porte delle aule vengono prese a calci e a pugni, a volte, ma ancora non sono state abolite. Perché? Perché sono necessarie. E gli assorbenti invece no?

Il problema allora è un altro. Il problema è che i problemi delle donne si affrontano solo quando non creano problemi. Se non sono a costo zero, in tutti i sensi possibili e immaginabili, i problemi delle donne passano in fondo all’ordine del giorno e da lì al dimenticatoio. Vengono ignorati, non esistono, hanno la stessa rilevanza sociale dell’artrite delle cavallette. Ci sono sempre questioni più gravi di quelle che riguardano le donne, oltre al fatto che sarebbe cosa gradita che le donne facessero quello che ci si aspetta da loro, ossia dedicarsi a risolvere i problemi altrui, invece di assillare con i propri.

Una scuola che non mette nei bagni delle ragazze non dico un distributore gratuito di assorbenti, ma almeno un contenitore in cui sia possibile prenderli e lasciarli, è una scuola che ignora il fatto che una percentuale vicina alla metà della sua popolazione ha le mestruazioni una volta al mese. Le ragazze possono scambiarsi gli assorbenti sotto banco, in qualche caso possono chiederle a una bidella ben disposta, possono parlarne con una professoressa complice, ma per la scuola intesa come istituzione le mestruazioni non esistono. Al massimo, e non sempre, troveremo un cestino apposito in cui buttare gli assorbenti sporchi.

Ecco perché è fondamentale che il progetto della scatola rossa (o bianca, o lilla, o verde) prenda piede in tutte le scuole, come ha già iniziato a fare in alcuni licei e università, e che succeda a partire dalle medie. Non (solo) perché gli assorbenti costano. Non (solo) perché nessuna ragazza debba andare in giro con un rotolo di cartaigienica fra le gambe per tutta la mattina. Non (solo) per aiutare le ragazze a parlarne apertamente. Anche e soprattutto perché le mestruazioni devono diventare visibili, devono rivendicare un posto nello spazio pubblico. È il primo passo perché il femminile smetta di essere fatto di segreti e tabù. Ho scritto “Fazzoletti rossi” proprio perché mi sembrava necessario che le mestruazioni comparissero nei romanzi rivolti a un pubblico giovane e giovanissimo. Perché è a quell’età che è importante che siano un argomento come tutti gli altri.

Se fossero gli uomini ad avere le mestruazioni, nessuno se ne vergognerebbe, anzi. La sindrome premestruale se la giocherebbe con la peste bubbonica in termini di gravità e i distributori nei bagni ci sarebbero eccome. Non è soltanto una questione di privilegio, ma della rappresentazione che lo rispecchia. Il maschile è la norma. Il femminile l’eccezione a quella norma. Per questo la presenza degli assorbenti nei bagni deve essere giustificata da ragioni imprescindibili, per questo viene subordinata a tutti gli altri problemi di cui soffrono la scuola e i ragazzi. Perché il femminile non è la norma. E in un mondo in cui non è la norma, quando ti arrivano le prime mestruazioni capisci che per te valgono regole diverse e che dovrai conquistarti con i denti i luoghi di potere, perché “di norma” non ti sono concessi. E la tua vita inizia a cambiare e a prendere, sottilmente, in modo quasi inavvertito, una direzione diversa.

L’idea è facile da realizzare: bastano una scatola di cartone, un pennarello e un po’ di creatività. “Prendine uno se vuoi, lasciane uno se puoi” è la scritta che ho visto più di frequente, ma nulla impedisce di scriverci sopra tutt’altro. È un progetto a costo zero, che fomenta e rafforza la solidarietà e lo spirito di collaborazione, che permette di riflettere sui tanti modi in cui la nostra società vive gli spazi comuni, che incoraggia lo scambio di informazioni e la consapevolezza. I luoghi pubblici devono appartenere a uomini e donne, e perché sia davvero così, devono essere in grado di interpretare le esigenze di entrambi.

Si può fare. Basta volerlo fare.

copertina fazzoletti rossi