Come nasce un’indipendentista catalana inaspettata

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Foto di Marc Borell (scattata a Sant Iscle de Vallalta)

Fino a qualche giorno fa non ero indipendentista. Non capivo del tutto le ragioni dei catalani, pur vivendo qui da più di dieci anni, non mi sentivo abbastanza catalana da sforzarmi di comprenderle e, devo ammetterlo, alcuni indipendentisti dell’ultima ora, di quelli che il giorno prima andavano al club nautico del mio paese a parlare castigliano (perché i ricchi snob parlavano solo castigliano)  e il giorno dopo se ne andavano in giro con le espadrillas con la estelada, la bandiera indipendentista, non li sopportavo proprio.

Così ho seguito tutto il processo con una relativa indifferenza, sicura che avrebbe vinto il No, perché se io in quanto straniera avrei solo da perdere con l’indipendenza e con un’eventuale e molto prevedibile uscita dall’Europa, anche per il catalano medio che per esempio percepisce la pensione dallo Stato spagnolo, non c’era da stare molto allegri all’idea.

Poi sono arrivati gli arresti. La censura. L’intimidazione. Gli agenti della polizia spagnola, neanche ci fosse una sommossa in corso. E sono arrivate le violenze. Non ero fisicamente presente davanti alle scuole e ai seggi, ma c’erano i miei amici, c’era mio marito,  c’erano le maestre dell’asilo di mio figlio. Della situazione politica catalana si è scritto molto e molto si scriverà, ma non ho letto nulla sulla reazione della popolazione, sul senso che ha avuto questo referendum nei paesi, fra la gente.

Provate a immaginare di vivere in un paesino di qualche migliaia di abitanti. Quel giorno volete andare a votare. Perché avete sempre voluto farlo. Perché avete deciso di farlo dopo aver visto la vera faccia dello Stato spagnolo. Perché voterete No, ma credete nel diritto di un popolo di esprimere la propria opinione. Forse non sarete fra i tanti (il cuoco della scuola, le maestre, la panettiera, gli scout del paese) che hanno tenuto aperto il seggio fin dal giorno prima e hanno dormito lì. Forse non sarete fra i responsabili del seggio che da settimane si organizzano per far arrivare le tanto temute urne nei seggi, con tecniche e trucchi da società segreta. Forse sarete semplicemente un votante fra i tanti, che la domenica si avvia verso il seggio, con relativa serenità.

E all’improvviso, lungo la strada principale del paese, la stessa che avete percorso ogni giorno, quella che potreste fare in macchina a occhi chiusi tanto la conoscete bene, su quella stessa strada che fa parte del vostro mondo fino a essere diventata parte di voi, vedete avanzare almeno cento agenti della Guardia Civil in tenuta antisommossa. Tutti neri e verdi, come insetti strani, caschi e scudi e armi e tutto quanto, sembrano appena usciti da un film di fantascienza. Come se Darth Vader avesse deciso di andare a comprare due michette nella vostra panetteria di fiducia. Solo che gli agenti non smettono di avanzare e proseguono e poi si scagliano contro le persone riunite lì per votare. Per votare.

E la gente incredibilmente resiste. Si aggrappano alla balaustra della scala che salgono ogni giorno i loro figli, e non mollano finché il manganello non rischia di spaccargli le dita. Si stringono intorno agli anziani per proteggerli, gli anziani che sanno bene di che cosa è capace la guardia civil, eppure non mollano e non tornano a casa, restano lì, a difendere le urne e il loro voto. E le prendono. La guardia civil non risparmia nessuno, non guarda in faccia nessuno. Il genitore dell’amico di vostro figlio finisce con sette punti in faccia. La maestra di ginnastica ha la schiena piena di lividi. L’edicolante ha la giacca strappata e una ciocca di capelli in meno. Un vostro amico a Barcellona per poco non perdeva un occhio per colpa dei proiettili di gomma.

Nel frattempo dentro il seggio ci si organizza. Le urne scompaiono e vengono nascoste in una sorta di assurda caccia al tesoro che potrebbe sembrare divertente, se non si rischiasse tanto e non si avesse tanta paura. Qualcuno in qualche seggio ha abbastanza sangue freddo da tirare fuori il domino e fingere di stare solo giocando una partita, nel seggio alloggiato nel centro ricreativo per anziani. Intanto fuori gli agenti della guardia civil sembrano macchine impazzite. Mostri disumani. Afferrano la gente per i capelli, lanciano gli anziani giù per le scale, affondano i manganelli contro gente colpevole soltanto di voler votare. E di non arrendersi. Quanta forza ci vuole, mi chiedo, per decidere una domenica mattina di essere disposti a farsi riempire di botte pur di poter esprimere il proprio voto? Quanta forza ci vuole per mobilitarsi tutti insieme, sistemare i trattori nei punti strategici, bloccare ogni accesso al paese, mentre la pizzeria del posto distribuisce tranci di pizze e buon umore, e l’intero paese per una volta mette da parte i vecchi rancori e le antipatie e diventa una cosa sola?

Perché è questa forza la risposta a qualunque tentativo di impedire il referendum e tutto ciò che seguirà nei prossimi giorni. Non basteranno tutti gli agenti dello Stato spagnolo per fermare un popolo che ha dato una dimostrazione simile domenica scorsa. Ogni volta che Rajoy apre bocca nasce un nuovo indipendentista. Allo sciopero di oggi, 3 ottobre, in molti sono scesi con i cartelli “Non sono indipendentista, ma non resterò a casa mentre pestano la mia gente”. I pompieri, i veri assoluti eroi di questi giorni, sempre a fianco della popolazione, più dei mossos (la polizia locale) che non è intervenuta né per difendere né per punire, più dei politici, che con l’eccezione di pochi (fra cui Ada Colau, la sindaca di Barcellona) non si sono visti a difendere i seggi insieme agli altri votanti, i pompieri ci sono sempre stati, tanto da scusarsi con i seggi e i votanti che non sono riusciti a difendere, in un coro di “Els bombers seran sempre vostres”.

Ecco perché oggi mi sento stranamente catalana perfino io, più lontana che mai da uno Stato spagnolo disprezzabile e odioso nel suo volto governativo fascista e autoritario, più lontana che mai dall’Europa che tace vigliaccamente lasciando che Spagna e Catalunya se la vedano fra loro.

Ecco perché se avessi potuto votare (non potevo, in quanto straniera) perfino io avrei votato sì. Ecco perché sono disposta ad affrontare l’abisso che si spalancherebbe davanti a una Catalunya indipendente pur di difendere quello che ho visto nascere in questi giorni intorno a me. La resistenza pacifica davanti a violenze inaccettabili. Il senso di appartenenza e l’orgoglio di una nazione di fronte alla censura e all’oppressione. La solidarietà e il coraggio di tanti che diventano una voce sola. Els carrers seran sempre nostres, era uno degli slogan di questi giorni. E all’improvviso mi trovo anch’io a percorrere quelle strade con l’orgoglio di chi se le sente un po’ sue, pur da straniero.

I catalani non sono mai stati molto bravi a esportare la propria causa e le proprie ragioni. Ma credo che lo stesso orgoglio e la stessa compatta chiusura su se stessi che ha impedito loro di farlo finora adesso stia levando una voce che non si può non ascoltare. Qui ogni sera alle dieci la gente esce sui balconi e sbatte pentole e coperchi in segno di protesta. E l’altra sera, al sentir gridare “Visca Catalunya” dai miei vicini, mi sono sorpresa sul punto di gridare anch’io “Visca!”.

Perché ad ascoltarlo bene, quel “Visca Catalunya”, è un grido di libertà. È un grido di resistenza, contro l’oppressione, contro ogni autoritarismo. È la resistenza di chi mette i trattori contro i furgoni di una polizia straniera, ogni giorno più straniera, chiusa negli alberghi in formazione a gridare Viva España, carica di odio. Noi italiani conosciamo bene il valore della Resistenza. Ascoltiamo quella voce, allora. Perché ha molto da insegnarci, c’è il seme di un futuro migliore, nel senso di comunità dei catalani oggi, nella loro lezione di libertà, di coraggio e di dignità. Nel loro senso di appartenza e nel loro orgoglio.

Visca Catalunya, allora. Viva la libertà!

 

Ma è una conquista, questa felicità?

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Ma è una conquista, questa indipendenza? si chiedeva Gramellini qualche giorno fa su Vanity Fair, dove avvertiva che gli uomini si innamorano della “donna cerbiatto che sbatte gli occhioni in cerca di protezione”, non delle donne forti e indipendenti, ma che comunque le due lettrici che si erano rivolte a lui devono restare fedeli a se stesse, forti ed emancipate ed esauste come sono.

L’unica volta che ho provato a sbattere le palpebre con un uomo, mi ha chiesto se mi era entrato qualcosa nell’occhio, quindi d’accordo, Gramellini, a ciascuno il suo. Del resto, come scrivi, al mio compagno resta pur sempre una sua utilità nei “momenti in cui mi sento piccola e vulnerabile” (ed è subito Drupi).

Ma è una conquista, questa indipendenza? In realtà, la lettrice di Gramellini si lamentava di dover fare tutto da sola, di non avere aiuti, perché era convinta che l’emancipazione femminile significasse diventare una donna che non deve chiedere mai, che può cavarsela da sola. Nella lettera scrive di essersi stancata, di volere qualcuno che le dica di non preoccuparsi di niente, che pensa a tutto lui, “e fanculo il femminismo e i suoi principi”.

La domanda da porsi, però, non è se l’indipendenza sia una conquista, ma se il femminismo fosse davvero questo. Chi l’ha mai detto che per essere femminista una donna debba ammazzarsi di fatica? Chi l’ha mai detto che una donna femminista debba fare tutto da sola, che non possa contare sull’aiuto di un uomo? Che non possa aver voglia di cedere il timone ad altri, ogni tanto? Chi l’ha detto che una femminista non voglia un bel paio di spalle larghe su cui appoggiarsi, a volte?

È dietro questo fraintendimento pericoloso che si nasconde uno dei problemi del femminismo. Abbiamo tutte e tutti bisogno di rifugiarci dentro la nostra debolezza, ogni tanto, e questo non dovrebbe allontanarci dalla nostra felicità o dai nostri diritti. L’incapacità di un certo femminismo di accostarsi al romanticismo nelle sue forme più semplici ed elementari, la sua diffidenza nei confronti delle emozioni che rischiano di essere scambiate per debolezza e svagatezza, la necessità della durezza e della forza che trapela, a torto o a ragione, da un certo discorso femminista, rischiano di tenere a distanza gran parte delle donne, ma soprattutto rischiano di far passare il messaggio pericoloso che dove inizia la coppia cessano i diritti della donna.

Ecco perché credo che sia importante quello che chiamo “femminismo rosa”, con buona pace di chi trova spassoso l’accostamento dei due termini. Un femminismo che metta l’accento sulla felicità delle donne, non sulla loro forza. Un femminismo capace di andare a braccetto con il romanticismo, con i sogni di coppia, con il bisogno e la necessità di chiedere aiuto, un femminismo che ci liberi della Sindrome dello Strofinaccio e dei sensi di colpa, in cui trovino posto tutte le emozioni delle donne e che ci insegni a viverle con orgoglio, perché sono la nostra arma, non la nostra debolezza.

Un femminismo che riparta dalle donne, da tutte le donne, quelle che sentono il bisogno di fare tutto da sole e quelle che vogliono delegare, quelle che solo nella solitudine riescono a prendersi cura di sé e quelle che si realizzano nella cura altrui e del darsi, quelle che inseguono i tanto detestati maschi alfa, quelle che vogliono restare single, quelle che non hanno figli e quelle che sognano la famiglia Bradford. Un femminismo più intimo, che ci insegni che abbiamo il diritto di essere felici sempre e comunque, il diritto di non fare niente, di riposarci, di essere superficiali, ma soprattutto il diritto di sognare e il dovere verso noi stesse di provare a realizzare quei sogni.

Un femminismo in cui a nessuna donna venga il dubbio di dover mandare al diavolo i propri principi per tirare il fiato e che non confonda la felicità con l’indipendenza. E in cui a nessun uomo venga in mente di poter calpestare i diritti di una donna solo perché si considera o si lascia credere frivola, fragile e vulnerabile. Un femminismo che piaccia anche alle “donne cerbiatto” di Gramellini, insomma, e che non ci obblighi a sbattere le ciglia per farci aiutare.