Mia figlia mi ha bloccata su Instagram (e ha fatto bene)

Quando mi resi conto che un giorno mia figlia avrebbe potuto bloccarmi su Instagram la trovai una metafora crudelmente perfetta dell’adolescenza. Poi scoprii che poteva fare di meglio e tagliarmi fuori solo da alcune storie (perché a quell’età Instagram sono le storie, punto), non da tutte e la metafora si fece davvero perfetta. Migliora soltanto quando sento qualche genitore dire che lui il cellulare del figlio lo controlla eccome, ci mancherebbe altro. A quel punto c’è davvero tutto, la vita dei nostri figli che scorre a sprazzi accanto alla nostra, un po’ dentro e un po’ fuori, sotto uno sguardo più o meno autorevole, più o meno complice, più o meno vigile, ma sempre pateticamente miope.

Questo esercito di genitori che si illude di controllare i propri figli è quasi sempre il primo a lanciare giudizi e accuse davanti a una tragedia adolescenziale qualsiasi, pur di non ammettere che se non è successo a loro non è per merito e non è certo perché conoscevano la password del cellulare, è perché sono stati fortunati. È solo per quello che possono continuare a confondere i bisogni dei figli con le proprie paure.

Ci sforziamo di essere presenti, in realtà siamo acquattati dietro lo schermo di un social che ci mostra solo quello che vogliamo e possiamo vedere, senza immaginare il resto. Perché non siamo più giovani, perché quella non è più la nostra età e non è la nostra vita. La presenza quando è necessaria sa fermarsi un attimo prima dell’illusione di conoscere e controllare, dove diventa superflua e ridicola. Se amare significa non dover mai dire mi dispiace, forse significa anche non dover chiedere a tua mamma o a tuo papà di uscire da ogni foto della tua vita. Smettiamola di parlare al plurale con le esistenze dei nostri figli. “Abbiamo il compito di matematica, abbiamo fatto la maturità, compiamo diciotto anni, dobbiamo studiare storia.” No, non è un segno d’amore. All’amore basta il singolare, il plurale non serve. Io amo è una dichiarazione. Noi amiamo è un’ipotesi.

“Che cosa li hai fatti a fare i figli, se non vuoi fare i compiti con loro?” mi sono sentita chiedere una volta. Non li ho fatti, li ho solo messi al mondo, e il mondo è tutto loro, ce l’hanno nel palmo, e si meritano di poter stringere quel palmo, ogni tanto, e non trovarci dentro le dita sudaticce e ansiose di mamma e papà. Saper riconoscere il momento in cui avranno davvero bisogno di chiudere la mano e trovarci la nostra, quegli attimi rari e imprescindibili in cui ci si gioca tutto quanto, eccola l’arte di essere genitori. Eccola, la misura di tutta la fortuna di cui abbiamo bisogno.

Mini corso di scrittura creativa per ragazzi

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Foto di fancycrave1 da Pixabay

Mini che più mini non si può. Cinque regole rapidissime per provare ad affrontare la pagina bianca con qualche punto di riferimento in più.

1. Prendete la vostra idea e spaccatela in due. Dovete tirarci fuori due mondi il più distanti possibile. Più saranno diversi, più la vostra storia sarà efficace. E sarà proprio il confronto fra questi due mondi a rendere il percorso del protagonista interessante. Povertà/Ricchezza Freddo/Caldo Realtà/Magia Sconosciuto/Famoso Timido/Estroverso Di successo/Imbranato… Se poi si tratta di una storia d’amore, la regola vale anche per i due protagonisti. Più saranno diversi, più la loro storia sarà impossibile, più il lettore si appassionerà. ESEMPIO: Élite, la serie di Netflix, non sarebbe la stessa cosa senza Samuel, Nadia e Christian, se tutti i protagonisti fossero ricchi.

2. Qualcuno ha detto impossibile? Ogni storia ha una posta in gioco, ossia quello che c’è in ballo e che il protagonista, o l’intera società, rischia di perdere. Quello che si vuole ottenere davvero. Un poliziotto può desiderare di risolvere un caso per il proprio senso innato di giustizia, ma se lo fa anche per riscattarsi, per mettere a tacere un senso di colpa nascosto, perché anni prima per esempio non è riuscito a salvare qualcuno che amava, la storia diventerà molto più appassionante. Nella posta in gioco è implicita anche la difficoltà della missione che aspetta i personaggi. Più l’obiettivo è difficile, più la storia sarà intrigante. ESEMPIOLa casa di carta, la serie di Netflix, a chi era mai venuto in mente di derubare proprio l’inespugnabile Fábrica Nacional de Moneda y Timbre?

3. A cena con il protagonista. Non basta dargli un nome, un passato, un colore per gli occhi e i capelli. Il vostro protagonista deve prendere vita sulla pagina. Significa che dobbiamo vederlo muoversi, dobbiamo sentire il suo tono di voce, dobbiamo sapere come cammina, che cosa lo spaventa, che cosa nega perfino a se stesso. Immaginatevelo davanti a una porta. Come la apre? Bussa? La spalanca? Aspetta di sentire chi c’è dall’altra parte? Se bussa lo fa con decisione o con discrezione? Si pulisce i piedi sullo zerbino? Non è necessario sapere tutto dei vostri personaggi, ma quando si muovono sulla carta dovete vederli, il movimento deve nascere da loro, non dovete muoverli voi come marionette. Date loro spazio, guidateli e lasciatevi guidare da loro. ESEMPIO: una storia di Instagram. Quante cose vi rivela una storia di Instagram dei vostri amici? Molto più di quello che crede chi l’ha postata. Sapremo qualcosa della sua casa, dei suoi gusti musicali, dei suoi orari, del suo stato d’animo… Con i vostri personaggi è lo stesso, ogni volta che agiscono ci svelano molto di più di quanto credono.

4. Sì, ma dove? Tutto ciò che accade nella vostra storia si svolge in uno spazio ben preciso, non avviene nel nulla. Questo non significa che ogni volta dobbiate fermare l’azione e descrivere tutto nei dettagli, stile catalogo Ikea, ma è importante che ci arrivi almeno l’atmosfera, qualche pennellata, i colori, la luce, un soprammobile, un profumo, un suono fuori dalla finestra. Non riferite quello che succede ai vostri protagonisti, non riassumete, mostratelo. Per questo non deve esserci nulla di casuale. La vostra stanza vi assomiglia, giusto? Ecco, anche il mondo della vostra storia deve assomigliare alla vostra storia. ESEMPIO: i meme di Harry Potter. Se non conosciamo il mondo di Harry Potter, i meme non ci diranno niente, al massimo potranno strapparci un sorriso poco convinto. Se scoppiamo a ridere quando li vediamo su Instagram è perché conosciamo il mondo a cui appartengono, proprio come la vostra storia ha bisogno di appartenere a un mondo.

5. La battaglia reale. Una storia non è una linea tesa fra l’inizio e la fine, ogni tanto bisogna aggrovigliarla, scomporla e cambiare l’ordine dei tasselli, spostare le informazioni qui e là, per rendere tutto più avvincente. Vi sono poi alcune tappe che tornano spesso e che possono aiutarvi a costruire la vostra trama. Ci sarà per esempio un momento in cui l’equilibrio iniziale del vostro protagonista cambia, per esempio quando riceve una notizia o conosce qualcuno o riceve un nuovo incarico. Ci sarà un momento in cui conosce i suoi nuovi compagni di viaggio e di avventura, ci sarà un momento in cui affronterà un mondo nuovo (forse perché si è messo in viaggio, forse perché ha conosciuto qualcuno che lo porta in quel mondo) e un altro in cui capirà che non può più tornare indietro, ci sarà un primo scontro con il nemico da cui uscirà malconcio, ma soprattutto ci sarà un momento in cui penserà che tutto è perduto, prima della battaglia finale. Per chi è interessato ad approfondire, cercate le 12 tappe dell’eroe di Christopher Vogler. Gli sceneggiatori dicono che quando scrivi una storia devi prendere il tuo protagonista, farlo salire su un albero, iniziare a tirargli le pietre e poi farlo scendere dall’albero. Solo mentre lo prendiamo a sassate infatti il nostro protagonista ha occasione di cambiare, di capire che cosa vuole davvero e di fare scelte diverse. ESEMPIO: i videogiochi ci portano in un mondo diverso, di cui dobbiamo conoscere le regole, per cui dobbiamo attrezzarci. Nel corso del gioco possiamo stringere alleanze e avere nuovi compagni e il nostro personaggio può cambiare pelle, come le skin di Fortnite, per avere maggiori possibilità di vincere. E più andiamo avanti, più il gioco si fa difficile. Proprio come per i nostri personaggi.

Dopo aver buttato giù la vostra storia, se volete fare la prova del nove, cercate il Manuale di NON scrittura creativa, crudele, ma utile. 🙂

Buon lavoro!

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Quello che ogni genitore vorrebbe sapere su TikTok (e non ha mai osato chiedere)

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Foto di Kirill Averianov da Pixabay

“Sarà sicuro?” è la domanda che ci poniamo davanti alle richieste social dei figli preadolescenti. “Mia figlia ha dodici anni e vuole installarsi Instagram, ma sarà sicuro?” ci chiediamo, chattando da un cellulare che usiamo come macchina fotografica con sveglia incorporata, mentre la figlia in questione lo usa per trovare informazioni, confrontarle, editarle e condividerle nel tempo che noi impieghiamo a decidere se qual è si scrive con l’apostrofo. La stessa figlia che forse non si porrà il problema sicurezza, ma che sa benissimo come filtrare i suoi contatti social con precisione chirurgica, a cominciare dalla madre. “Io controllo sempre il profilo Instagram di mia figlia, ci mancherebbe altro” mi ha detto un’amica. “Il profilo?” avrei voluto risponderle. “Quale, dei cinque che ha?”

“Allora facciamo così, vado in negozio e scatto una foto e te la mando e tu mi dici se ti piace” ho proposto a mia figlia, non senza sentirmi molto moderna. “Aspetta” mi ha risposto lei dall’altro angolo del divano. E dieci secondi dopo mi ha mandato le foto della maglietta che voleva, con il prezzo, la taglia, indirizzo e orario di apertura del negozio, scorte restanti e canzone preferita della commessa e un cuore rosso con la scritta “Graxx!!! Anche nera plis”.

Una delle ragioni per cui ho scritto “Fazzoletti rossi” è stata provare a capire TikTok. E c’è qualcosa di teneramente patetico in una generazione come la mia, cresciuta a colpi di “cogli l’attimo” e “nessuno può mettere Baby in un angolo”, e tutto il campionario di sfrontatezza ribelle da Roxy Bar, che adesso si ritrova alle prese con una generazione cresciuta a biberon di consapevolezza e rivendicazioni, per cui cogliere l’attimo è semplicemente assurdo, perché loro sono l’attimo, e la ribellione va bene sulle magliette ma non li rende più liberi di quanto non siano già. Guardano Facebook con la curiosità con cui guarderebbero un mucchio di vecchie riviste ingiallite, sono già oltre Instagram, che usano solo per le storie, sono precipitati nel flusso di TikTok e chissà in quanti altri social che ignoro e di cui scoprirò l’esistenza solo quando saranno diventati troppo vecchi per loro.

“Che scemenze” non posso fare a meno di commentare ogni volta che guardo TikTok. Certo che sono scemenze, lo sanno anche loro, non abbiamo cresciuto un esercito di decerebrati, su questo possiamo rassicurarci, è cazzeggio puro e dichiarato. Solo che noi cerchiamo significati a priori, abbiamo bisogno di agganciarci a quel che riteniamo importante, di usare punti fermi di senso per orientarci, loro no. E non perché siano privi di valori, come sostengono praticamente tutte le generazioni di quelle che vengono dopo, ma perché il significato delle cose è fare le cose, non può esistere a priori, si manifesta e si crea nell’azione stessa, come nei videogiochi. Non esiste un sistema di valori esterno o precedente al videogioco, e se esistesse, probabilmente sarebbe ingannevole e poco affidabile. L’etica di un videogioco emerge dalle scelte che sei portato a fare, dalle conseguenze delle sue regole nel corso della partita, dagli obiettivi che ti prefiggi e dalle strategie per conseguirli. Non è una dichiarazione di principi, è il principio di una dichiarazione.

Possiamo gridare ai nostri figli quanto vogliamo che dovrebbero pensare a cose più serie, ma è un po’ come dire loro di imparare a nuotare prima di azzardarsi a mettere un piede in acqua. Loro non imparano le cose importanti, lasciano che prendano forma mentre fanno tutt’altro, le scoprono per caso e soprattutto hanno imparato che non devono sembrare importanti, per esserlo davvero. Anzi, che il modo più sicuro per trovare qualcosa di serio e importante è rifuggire da tutto ciò che sostiene di esserlo. Del resto, sfido chiunque a guardarsi attorno e dire che hanno torto.

È una generazione dall’identità fluida, che scorre da una performance collettiva all’altra, che si nutre di hashtag e si lascia orientare e influenzare dagli algoritmi, gli influencer orwelliani del futuro. Ecco allora che in un mondo in cui plasmarsi sui contenuti altrui ti definisce, non per imitazione o per bisogno di omologazione, ma come attività ludica e creativa, come nuova modalità di relazione con un contesto sociale e social sfuggente, senza mappe e confini, il cyber bullismo va oltre le molestie e l’abuso. Non si tratta di una rete esterna a te che ti intrappola fra insulti e bugie, quel collettivo virtuale diventato improvvisamente ostile non è altro da te, quel collettivo sei tu. Non puoi ignorarlo, non puoi decidere che non ti interessa e passare oltre, perché per farlo devi prima cancellarti e diventare invisibile.

Siamo troppo pesanti per seguire gli adolescenti di oggi, non ci solleviamo abbastanza da terra, ci tiriamo dietro il peso delle nostre paure e della fatica che ci è costata sognare e di tutti gli sforzi che facciamo per non sembrare vecchi. Forse un giorno succederà anche a loro, un giorno scopriranno che sognare costa fatica e quanto è facile perdere tutto e quanto è rischioso navigare a vista. Fino a quel momento, si spostano liberi in un orizzonte in cui i punti di riferimento sono diventati utili come un faro in pieno giorno. Noi allontaniamo lo schermo del cellulare per riuscire a mettere a fuoco i meme che ci mostrano, loro a cinque anni scoprivano dal tg che la webcam può registrare a tua insaputa. Noi li avvertiamo che la ragazzina così simpatica con cui sta chattando potrebbe essere un cinquantenne che un giorno si inventerà un complesso sulle proprie tette inesistenti per convincerla a sollevarsi la maglietta, per loro l’identità della persona dall’altra parte si definisce in termini di popolarità, hashtag, effetti e canzoni, non di autenticità, e se si alzeranno o meno la maglietta dipenderà da tutto quello che abbiamo insegnato loro sulla vita, non sui social.

Stiamo scaricando le colpe degli adulti sul linguaggio usato dagli adolescenti. Dovremmo parlare meno dei pericoli dei social e di più dei pericoli per i social. Se TikTok è il “paradiso dei pedofili” il problema sono i pedofili, non le ragazze che decidono come divertirsi; se un cinquantenne si spaccia per dodicenne per convincere una ragazzina a spogliarsi dovremmo prendercela con il cinquantenne, non con il mezzo che glielo rende possibile. La mia infanzia era tempestata dai racconti di uomini che ti aprivano l’impermeabile davanti per mostrarti quel che avevano fra le gambe, eppure nessuno mai pensato di ritirare gli impermeabili dal commercio. Ecco allora che cosa ho capito di TikTok scrivendo “Fazzoletti rossi”: che non lo capirò mai. E che va bene così.

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No filter. La felicità che non piace ai social

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Quando abbiamo confuso lo star bene con l’essere felici?

Quando abbiamo lasciato che la nostra vita diventasse uno spot, in cui il benessere viene prima di tutto?

Ci siamo lasciati confondere. A furia di sentirci ripetere che il bagnoschiuma ci coccolava, che il cotone sulla pelle ci faceva bene, che la crema al cioccolato portava il nostro nome, ci siamo convinti che la felicità fosse quella cosa lì.

Abbiamo scambiato la comodità per un’ambizione, il piacere dei sensi per un obiettivo, abbiamo ceduto i nostri sogni per un pugno di morbidezza. Le nostre giornate per un pugno di foto costruite ad arte.

Quando ci siamo dimenticati che la vita è una corsa contro l’inadeguatezza e il dolore, che la scomodità è un calcio in culo che ci spinge verso i nostri sogni, non un segno di fallimento? Quando sono riusciti a convincerci che il benessere fosse la meta e non una condizione provvisoria che non dura neanche il tempo di uno scatto? E che non merita molto di più?

La vita vera passa per la malattia, per la paura, passa per le ferite dell’animo e del corpo, passa per i dolori che ci affliggono ogni giorno e che nascondiamo sotto il trucco e la messa in piega e i filtri di Instagram.

La vita è fatta di malattie temute e schivate, e di altre che ti investono come un treno merci e ti costringono a scordare tutto il resto, proprio quando scopri di averne bisogno. La vita è fatta di paura, di chili di troppo, di sangue, di rughe, di macchie, di capelli bianchi, di litigi, di incomprensioni, di fallimenti, di tensioni e delusioni e di parole sbagliate dette nel modo sbagliato. La vita è tutto quello che ci hanno convinto a nascondere sotto il tappeto come la polvere e che invece parla di noi. La vita siamo noi quando meno ci piacciamo, quando ci fa male tutto quanto, quando non siamo all’altezza, quando ci sentiamo soli, quando ci sembra di non farne una giusta. Quando cadiamo e poi ci rialziamo. No filter. Perché è chi sa rialzarsi chi vive davvero, chi sogna, chi rischia, chi ama, chi sbaglia, chi prende testate contro il muro in continuazione, chi arriva sempre troppo tardi, chi è sempre fuori moda, fuori tempo, fuori tema. Chi non sta bene.

Non voglio una foto su Instagram per ogni momento felice. Voglio un sogno per ogni fallimento, una storia da raccontare per ogni ferita, un amico per ogni paura, un nuovo inizio per ogni fine. Voglio ritrovare me stessa sul fondo dei miei sbagli, nella fatica e nel dolore, nelle perdite e nei fallimenti.

Voglio una vita tutta sbagliata per i social in cui trovare la parte migliore di me, quella che resiste, nonostante tutto. Voglio cercare me stessa e trovare tutte le mie ferite e il coraggio di guardarle in faccia a una a una senza vergognarmi. Non voglio la morbidezza del benessere e il languore compiaciuto di successi passeggeri. Voglio essere orgogliosa dei miei sbagli, nonostante tutto, e dei miei mali. E il giorno in cui riuscirò a indossarli come indosserei il mio vestito migliore, senza nasconderli per paura di svelare le mie debolezze e la mia fragilità, allora forse proverò qualcosa di simile alla felicità.

Dieci cose da non fare se vuoi promuovere il tuo libro sui social

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1. Non promuovere, informa chi ti segue. Il tuo scopo come scrittore è crearti un pubblico, non vendere copie. Per quello ci sono i librai, che lo sanno fare meglio di te.

2. Abbi la serenità di accettare le recensioni negative che non puoi cambiare, il coraggio di cambiare i difetti che puoi migliorare e la saggezza per conoscere la differenza.

3. Se qualcuno chiede un consiglio su un libro da leggere non suggerire il tuo con entusiasmo e con tanto di link per l’acquisto. È un po’ come raccontare una barzelletta e scoppiare a ridere da solo.

4. Non taggare cento persone inconsapevoli all’uscita del tuo libro. Neanche cinquanta o venti. Neanche una.

5. Non mandare messaggi privati per fare promozione. Hai presente quando ti squilla il telefono e tu stai facendo il bagno a tuo figlio e corri fuori sgocciolando ovunque e arrivi alla cornetta un istante prima che mettano giù e rispondi ed è un call center che vuole venderti un’assicurazione? Ecco.

6. Usa i social per fare quello che ti riesce meglio. Se sai raccontare, racconta. Se sai fotografare fotografa. Se sai lamentarti, fallo davanti allo specchio del bagno.

7. Evita le polemiche. Suonano sempre più infantili e fastidiose ti quanto ti sembrava mentre le scrivevi.

8. Ricordati che la collaborazione porta più lontano dell’invidia. E rende tutto più divertente. Se vuoi essere letto, leggi. Se vuoi essere consigliato, consiglia. Se vuoi essere sostenuto, sostieni. I libri dalle classifiche prima o poi escono, le amicizie sincere dalla tua vita no.

9. Segui le persone perché ti interessano, non per interesse. Si nota, la differenza, si nota.

10. Tratta il lettore tuo come te stesso.

Perché le Colazioni d’autore hanno fatto un gran bene all’editoria

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Foto di Petunia Ollister

L’oggetto libro ha qualcosa di ostinato, di cocciuto e di sacro, di inamovibile. È un resistente. È passato quasi indenne attraverso le avanguardie del secolo scorso, il futurismo, il formalismo, l’iperromanzo, la metanarrativa, il post moderno e l’epoca del digitale. La letteratura è cambiata, certo, si è interrogata sulle proprie funzioni, sul ruolo del lettore, sulla citazione e la parodia e la commistione dei generi, sulla scrittura del tempo e lo smascheramento della finzione, ma senza arrivare a scalfire l’importanza della storia e della dimensione del racconto. Il libro come oggetto è rimasto praticamente identico a se stesso. È cambiata la carta, certo, sono cambiati i materiali e le modalità di stampa. Le copertine si sono adeguate all’estetica corrente e hanno sperimentato a loro volta, ma il tutto sembra essere avvenuto senza gli sconvolgimenti vissuti da altre forme artistiche, come la pittura, la scultura o il cinema.

Con tutte le variazioni grafiche e storiche del caso, un libro nella maggior parte dei casi ha un solo senso di lettura, un unico orientamento, pagine numerate e continua a proporci titolo e nome dell’autore ed editore in copertina, alette e quarta. Con alcune eccezioni più o meno significative, è scritto quasi sempre in caratteri neri e con un font che non aspira a essere protagonista. Tutto sembra insomma convergere verso la storia, la rassicurazione del racconto, il patto implicito fra autore e lettore. Il libro tiene duro, non molla. Rigetta ogni esperimento (come i flip book di qualche anno fa, che hanno avuto vita breve) e quando proprio non può ignorare un fenomeno come l’ebook, lo obbliga ad assomigliargli il più possibile e a scimmiottarlo, proponendo modalità di lettura sostanzialmente analoghe a quelle del cartaceo (con alcune differenze, certo, ma non sostanziali).

Perfino l’interattività e la multimedialità hanno lasciato il libro quasi indifferente. Chi progettava e sognava applicazioni in cui la storia prendeva vita davanti agli occhi del lettore, in cui le illustrazioni si muovevano a seconda di come inclinava il supporto di lettura o in cui la letteratura si intrecciava ai giochi di ruolo, consentendo al lettore di dirigere la trama e condizionarla, ha dovuto presto arrendersi o accontentarsi di un pubblico più ristretto di quanto sperasse.

L’oggetto libro è un sopravvissuto. L’hanno dato per morto o moribondo un’infinità di volte ed è sempre risorto e ha tirato dritto per la sua strada, un po’ più acciaccato, forse, con qualche lettore in meno e qualche refuso in più, ma si è rialzato e ha proseguito. La resilienza del libro è la sua forza, certo, ma come spesso accade, anche la sua debolezza. Il libro resta lì, si intreccia al suo tempo in modi meno sfacciati di quanto accada con altri media e altre forme artistiche, e dunque rischia di scollarsi da una parte del pubblico, che invece al suo tempo aderisce e vuole aderire con la stessa costanza e determinazione con cui aderisce allo schermo del cellulare e a quello del computer.

Poi sono arrivati i #bookbreakfast di Petunia Ollister, le sue Colazioni d’autore, e hanno cambiato tutto.

Non ce ne siamo accorti subito, o almeno io non me ne sono accorta subito, ma hanno inciso in profondità sul rapporto fra libro e lettore, portando nuova linfa e nuovi lettori all’editoria. Non solo perché sono fotografie magnifiche, non solo perché sono fatti con cura e precisione e una raffinatezza dissimulata nell’apparente semplicità. I #bookbreakfast soprattutto sono riusciti a portare il libro in altri ambiti costringendolo a parlare il loro linguaggio. Sono riusciti nella difficile impresa di schiodare l’oggetto libro dagli scaffali e schiaffarlo su Instagram e sui social in generale, operando uno slittamento di significato che in pochi sono stati capaci di fare. Nei #bookbreakfast, infatti, il libro non arriva su Instagram come protagonista di un momento di vita, come la traccia di qualcos’altro, della storia che racconta o della storia di chi lo sta raccontando e leggendo e recensendo. No. I libri nei #bookbreakfast diventano forma e colore, diventano un elemento compositivo, che solo apparentemente condiziona e orienta gli altri. Il fondo scelto, le tazzine, le matite, i taccuini, le tavolette di cioccolato hanno in realtà la stessa importanza formale del libro e ci dialogano alla pari. I libri dunque diventano oggetti grafici, giochi di linee e di colori e di forme, punto di partenza e di arrivo di attenti rimandi formali e di equilibri interni raffinatissimi. Il tutto senza mai trascurare il significato a favore della forma, senza mai dimenticarsi della storia che raccontano.

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Foto di Petunia Ollister

Ecco così che accanto al Giovane Holden, il “succo d’arancia, uovo col bacon, pane tostato e caffè” che compongono la “colazione abbondante” del protagonista diventano anche elementi formali, cerchi, rettangoli e note formali che sembrano opporre resistenza e voler far implodere l’ordine e il vuoto dell’immagine e il minimalismo della copertina bianca di Einaudi, dicendoci al tempo stesso molto del suo protagonista, del suo rapporto con l’ipocrisia e il vuoto che lo circondano, e perfino delle scelte “ipnotiche” di traduzione. E le patatine sotto Cent’anni di solitudine sembrano portarci nella selva che fa da sfondo all’immagine, in uno scrocchiare di foglie divertito che rende omaggio in modo perfetto al realismo magico dell’autore e alla sensorialità della sua scrittura.

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Foto di Petunia Ollister

Ecco come scatta la magia dei #bookbreakfast. Nel gioco di assonanze e nei palleggi fra i sensi. Nell’impossibilità di separare forma e significato, nel rincorrersi continuo di entrambi, tanto che si potrebbe guardare per ore le fotografie di Petunia Ollister, godendosi il modo in cui i temi del libro si fanno colore e odore e sapore, prendono posto nell’immagine e strizzano l’occhio all’altro capo dell’immagine, dove un altro tema fa capolino, in una simmetria o in un’assonanza di forme e colori. E i sensi non restano certo in disparte, una tazza di caffè, un ciuffo di panna, un croissant, una tavoletta di cioccolato fanno a loro volta parte del gioco, a loro volta forma e significato, insieme.

I #bookbreakfast sono irresistibili, perché procurano piacere a chi li guarda, un appagamento estetico che non tradisce mai il suo soggetto, al contrario, lo esalta. E così facendo Petunia Ollister coglie alla sprovvista perfino il tenace e cocciuto oggetto libro e lo mette al centro dei social senza snaturarlo, esaltandolo, stuzzicandone la vanità e provocandolo e punzecchiandolo un po’, ogni tanto. E i libri si offrono allo sguardo, si concedono al piacere estetico dei social e dei nuovi mezzi, come regine sorprese dal lampo di un flash. Sotto lo sguardo di Petunia Ollister, i  libri si lasciano sedurre dalla grafica e dal design, si concedono alla ricerca della bellezza e al lavoro cromatico sempre più protagonista e sempre più consapevole oggi.

Ecco perché sono convinta che i #bookbreakfast abbiano fatto un gran bene all’editoria. Perché sono riusciti a scardinare l’oggetto libro dal mondo delle parole, perché l’hanno raccontato usando un linguaggio completamente diverso, l’hanno catapultato nel mondo dell’immagine e degli hashtag e del foodporn, non come ospite e guest star un po’ spaesata, ma come soggetto della comunicazione, costringendolo a parlare il loro stesso linguaggio.

E soprattutto, i #bookbreakfast non possono fare a meno di emozionarci, completando così il circolo del piacere estetico e della narrazione. E rendendolo irresistibile.

I #bookbreakfast sono i protagonisti di un volume magnifico uscito da poco e ritratto nella foto che apre questo post, Colazioni d’autore, dove sono raccolti i ritratti di libri che parlano di cibo o di cucina, edito da Slow Food Edizioni.

Petunia Ollister
Foto di Petunia Ollister