Lo smartworking e la fabbrica dei sensi di colpa

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Di tutte le menzogne che racconta chi lo smartworking l’ha studiato a tavolino, o dalla scrivania del proprio ufficio, la più pericolosa per le donne è che sia un modo fantastico per conciliare casa e lavoro e mettere quindi a tacere ogni senso di colpa.

Lasciatevelo dire da chi lavorava in smartworking quando ancora si chiamava essere così sfigata da lavorare da casa: i sensi di colpa non scompaiono affatto, si moltiplicano.

Scena uno: lasciate il pargolo al nido in lacrime e correte in ufficio. Vi sentite uno schifo, non importa quante volte vi ripetono che appena svoltate l’angolo lui si trasforma nell’animatore dell’aula e fa il giocoliere con i cubi per le costruzioni, voi ve lo immaginerete comunque con l’espressione e l’allegria di quei cani sui poster delle pubblicità progresso che ti spiegano perché è sbagliato abbandonare il migliore amico dell’uomo in autostrada. Ma siete in ufficio, avete un orario da rispettare, un capo e quattro pareti e un intero sistema contrattuale su cui scaricare parte della responsabilità.

Scena due: lasciate il pargolo al nido in lacrime e correte a casa perché siete in ritardo con una consegna. Riuscite a ignorare la lavatrice, la lavapiatti e perfino quelle due dita di polvere che fanno tanto Sahara e vi tuffate davanti al pc. Al vostro tavolo. A qualche metro di distanza dal punto esatto in cui vostro figlio ora potrebbe giocare allegro e spensierato, senza traumi da abbandono e senza dover fare lo slalom fra i bacilli e la fase orale dei morsi altrui. Voi siete a casa, vostro figlio no, eccola la crudele verità. Nessuno vi obbliga a lavorare proprio adesso, diciamolo, la notte è il momento perfetto, nel silenzio, quando nessuno ha più bisogno di voi e non rischiate di perdervi qualche tappa epocale del suo sviluppo. Basta solo non essere così egoiste da pretendere di passarla dormendo.

Scena tre: siete in grado di lavorare con il piccolo sulle ginocchia, sulle spalle, sulla schiena, solfeggiando la canzone del Re Leone e lanciandolo per aria con una mano per poi afferrarlo con l’altra nel tempo che vi ci vuole a stendere un piano aziendale. Voi non avete bisogno di conciliare, voi siete la conciliazione, nulla vi separerà dal vostro cucciolo e dai vostri obiettivi. Nulla tranne un raggio di sole, quel raggio di sole che scenderà sul vostro tappetino per il mouse a ricordarvi l’esistenza dei parchi e delle malattie orribili dovute alla carenza di vitamina D. Per non parlare di idraulici, elettricisti, corrieri, pediatri e dei supermercati che dopo le sette c’è una coda pazzesca e se potessi passare tu dal meccanico sarebbe fantastico altrimenti non preoccuparti, prendo un giorno di permesso che sarà mai, l’ultimo l’hanno solo trascinato per l’ufficio coperto di pece e piume prima di licenziarlo ma non voglio mica disturbarti.

Lavorare in casa può essere la scelta migliore o la peggiore, non c’è una vita uguale all’altra, ma una cosa posso assicurarvela: piovono sensi di colpa grossi come pietre sulla classe lavoratrice a km 0, e piovono tutto il tempo, non solo in orario d’ufficio. Con ogni probabilità passerete l’intera giornata a schivarli e a sentirvi pure uno schifo per questo. Per lavorare da casa non serve il wi-fi, serve la convinzione incrollabile di meritarvi almeno una parte del vostro tempo in esclusiva, non solo gli avanzi spossati che vi deposita davanti a fine giornata la vostra famiglia. La certezza che il tempo che dedicate a voi stesse non è sempre e comunque rubato a qualcun altro e che il valore di una donna non si misura prima di tutto sul suo sacrificio. Se ne siete sicure, lo smartworking può essere fantastico. Se non lo siete, finirete per scoprire che cosa specificava la postilla scritta in fondo a corpo 8 e per pagare la tassa che il mondo ha messo sulla felicità e sulle ambizioni delle donne.

Non disturbate il papà

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I papà lavorano, i papà riposano, i papà sono stanchi, i papà hanno bisogno di concentrarsi, i papà hanno bisogno di spazio. Il DO NOT DISTURB che veglia sulla calma e la serenità maschile è probabilmente l’ostacolo più infido e difficile da sradicare sulla strada verso la libertà delle donne.

“Poverino, è sempre in ufficio”, la pezza di ogni mancanza maschile domestica, ai tempi del Covid si è trasformato più rapido di Clark Kent davanti a una webcam in “Poverino, non può andare in ufficio”, mentre il nostro si apprestava ad affrontare i rischi di una videochiamata con il capo in piena pandemia, rigorosamente dietro una porta chiusa. Spesso quella dello studio della moglie, che in casa ci ha lavorato da sempre, tastiera del pc in una mano e pappina pronta a essere rigurgitata nell’altra. Perché le porte chiuse sono per i dilettanti, diciamolo. Noi siamo capaci di gestire un intero dipartimento dall’angolo del tavolo del soggiorno, lanciando pastelli colorati e regole matematiche ai figli concentrati nelle videolezioni. “Abbassa la voce, il papà sta lavorando.”

“Io costruisco il nido e lui, come il cuculo, me lo occupa sfrattandomi” mi ha scritto  un’amica. Perché alle donne che lavorano si può “tenere compagnia”, ma gli uomini che lavorano non “possono essere disturbati”. “Che fortunata, sei, ad avere un marito che ti lascia lavorare” mi confessò di essersi sentita dire un’altra amica, che si faceva carico di tutte le spese domestiche. Perché il lavoro rende l’uomo nobile, ma la donna nubile.

E così eccoci qui, tutte appollaiate sull’angolo delle videochiamate altrui, strette fra un esperimento che secondo la maestra aiuterà tuo figlio a sviluppare le sue doti di calcolo e di misurazione e che secondo te più probabilmente raderà al suolo la casa se ti distrai per un secondo, e il bisogno di attenzioni generalizzato che forse nasconde possibili traumi futuri o forse solo un certo fancazzismo egoista, ma che cosa conterà mai il tuo lavoro davanti alla possibilità di complicare le cose all’analista che fra trent’anni dirà ai tuoi figli che la colpa è stata tutta tua?

Dovremmo riprenderceli, il nostro studio, il nostro tavolo, la nostra porta chiusa, il nostro spazio, il nostro tempo. Se questo ci fa sentire egoiste, allora facciamo le egoiste. Se ci fa sentire stronze, allora facciamo le stronze. Se ci sentiamo in colpa, nove su dieci siamo nella direzione giusta. Alla peggio, avremo reso le cose più facili all’analista. Ma il punto non è neanche questo. Guardiamoli bene, tutti quei DO NOT DISTURB appesi a guardia del lavoro maschile. Sono i brufoli spuntati al patriarcato ai tempi del virus, sono un dito puntato verso la precarietà dei nostri traguardi, schiacciati come tante formichine dall’emergenza, sono la corazza del privilegio maschile. “La mamma è nuda” gridano in coro i bambini dai loro quadratini spalmati in casa dalle video lezioni come in una partita di Minecraft. Non lasciamoci rubare il nostro tempo proprio adesso. Non siamo più adattabili, non siamo più ingegnose, non siamo più versatili. Siamo solo più sacrificabili.

Uno stipendio di sensi di colpa

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“Oggi le donne possono lavorare senza problemi.”

Ogni volta che lo sento ripenso a quando entravo in macelleria spingendo il passeggino e la macellaia mi guardava sogghignando ed esclamava “Oh, oggi tocca a te, eh!”. Mi ricordo di quando hanno chiesto al marito di un’amica, che lavorava e si prendeva cura dei figli, se per Carnevale si vestiva da casalingo. Mi ricordo di quando hanno detto a un’altra amica che avrebbe dovuto ringraziare il suo compagno, che era disoccupato e si occupava quasi esclusivamente di casa e bambini, perché le permetteva di lavorare.

Mi ricordo di tutte le volte che hanno compatito mio marito quando io viaggiavo per lavoro e non hanno mai ricambiato il favore quando ero io a restare da sola con figli e computer. Di ogni occasione in cui le maestre hanno detto che la mamma doveva aiutare il bambino a fare i compiti e controllare il diario, delle riunioni scolastiche a cui i padri si contano sulle dita di una mano, dei gruppi di whatsapp in cui i pochi uomini presenti sono osannati come special guests da un esercito di geishe che parlano per emoticon.

E non è neanche questo il peggio. Questa è la parte divertente. Non fa male quanto sentire tuo figlio che ti dice che non c’eri quando ha fatto i suoi primi biscotti. Non fa male come sopportare il cattivo umore di tuo marito quando tutte le biglie che di solito fai girare per aria tu all’improvviso gli cascano addosso come tanti proiettili di inadeguatezza e frustrazione. Non fa male come rientrare a casa dopo una giornata di lavoro di dieci ore e sentirsi in colpa nell’istante in cui giri la chiave nella serratura.

Perché non ci sei stata. Ecco la tua colpa. La colpa delle donne non è lavorare. La nostra colpa imperdonabile è non esserci. È quello il peccato che dobbiamo espiare. Non esserci quando gli altri hanno bisogno di noi. Non esserci quando gli altri non hanno bisogno di noi ma potrebbero averne. Non esserci, non essere pronte a ricucire litigi, a curare graffi sulle ginocchia a suon di baci, a chiedergli com’è andata a scuola quell’unico giorno in cui ha intenzione di rispondere qualcosa di diverso da “bene”.

La nostra colpa è non irrorare il nido familiare di amore, pasti in tavola, magliette piegate, merende biologiche e cessi puliti. Nessuno ci dirà mai che non possiamo andare a lavorare. Ma nessuno dice mai abbastanza che ogni donna che lavora si porta a casa uno stipendio fatto di assenze e mancanze materne e tensioni familiari e sensi di colpa. Eccolo il vero motivo per cui non lavoriamo. Non è che qualcuno ce lo impedisca, non è che ci costringano ad andare da casa al lavoro con una lettera scarlatta cucita sul petto. Se non lavoriamo, spesso, è soltanto perché così è più facile per tutti.

E possiamo raccontarci tutte le storielle che vogliamo e ripeterci che non c’è insegnamento più prezioso di una madre che lavora e insegue i suoi sogni, ricordare quanto è stato importante il ticchettio della macchina da scrivere di tua mamma, da bambina. Ma al momento di aprire la porta di casa la sentiremo, quella scheggia dentro di noi che si ribella e che vorrebbe tanto che fosse più facile continuare a sentire di meritarsi l’amore che c’è dall’altra parte. Che tornare a casa non significasse anche dover mettere a tacere un pezzetto di sé.

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Madre? Presente

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“Non ho tempo.”

“Magari quando sarà più grande.”

“Mi sono licenziata. Solo per qualche anno, finché i miei figli hanno bisogno di me.”

Certo, i nostri figli hanno bisogno di noi. Non solo. I nostri figli hanno sempre bisogno di noi. E quando loro smettono, a quel punto siamo noi che non siamo più capaci di fare a meno del loro bisogno, come pupazzi caricati a molla che non hanno più un posto dove andare.

“No, non posso lasciarlo con il padre e partire. Non me la sento. Magari fra un paio d’anni, quando sarà più grande.” “Ma fra un paio d’anni sarà maggiorenne!” “Sì, l’adolescenza è un periodo difficile e lui e suo padre non si capiscono proprio. Così magari ci può accompagnare lui in macchina. Non sarebbe carino?”

“No, mi spiace, non posso fermarmi, devo andare di corsa a casa, Arturino torna dall’università e non gli ho lasciato il pranzo pronto.” “Non può aprire il frigo e prepararsi qualcosa?” “Oh, povero, no. È sempre così stanco quando arriva. Ieri è rimasto a studiare fino a tardi. Si sente così in colpa per essere di nuovo fuori corso.”

Dovrebbero avvisarci, come sui pacchetti delle sigarette. “Nuoce gravemente al tuo futuro.” Nel momento in cui decidiamo di fare un passo indietro, di restare a casa, di dedicarci ai nostri figli, dovrebbero spiegarcelo. “Sì sì, lo dicono tutte che possono smettere di restare a casa quando vogliono.” “Sai quante ne ho viste che cominciavano così, solo qualche mese, perché lo facevano le amiche, per curiosità, per provare, e poi a cinquant’anni si facevano di rosolio e scoprivano di avere buttato via la loro vita?”

C’è una cosa che dovremmo chiederci: lo facciamo davvero perché i nostri figli hanno bisogno di noi? O perché siamo stanche di sentirci in colpa? Perché non importa se poi passeremo la metà delle nostre giornate a guardare il Grande Fratello e a studiare ricette che non prepararemo mai, adesso che siamo a casa non dovremo più difenderci dalle accuse altrui, esplicite o silenziose. Abbiamo preso la nostra vita e i nostri sogni e le nostre ambizioni e li abbiamo immolati sull’altare dell’accettazione e della serenità familiare, perché era più facile che dover dimostrare costantemente che avevamo il diritto di farlo, perché sentire nostro marito brontolare ci logorava, perché così finalmente la maestra la smetterà di dire che se Luigino non legge bene è perché non si esercita abbastanza “a casa”, e che se finisce sempre in direzione è perché ha bisogno di affetto e vuole richiamare la nostra attenzione, e che se non pronuncia bene la S è per qualche motivo terribile che prelude a qualche sindrome terrificante e che la colpa è tutta della mamma.

La figura materna, l’affetto materno, le attenzioni materne, la presenza materna… sono la causa e il rimedio di ogni male. E così ci sacrifichiamo. Smettiamo di lavorare, restiamo in casa, non usciamo con le amiche perché il momento della buonanotte è fondamentale e non andiamo in palestra perché lì è pieno di donne che non hanno niente da fare e noi invece qualcosa da fare ce l’abbiamo eccome. Dobbiamo portare il bambino a inglese e poi a scherma e poi dal logopedista per quella cazzo di S che ha preso dalla famiglia del padre, non sia mai che a quarant’anni parli come nostro cognato, e in piscina perché suo padre ci tiene tanto che faccia sport; e non ci perdiamo un solo saggio di fine corso e andiamo a prenderlo a scuola e quando gli chiediamo come è andata ci risponde “Bene” e quando gli chiediamo che cosa ha fatto a scuola  dice “Cose” e quando gli chiediamo se è felice ci chiede se può giocare al videogioco, ma se non altro ci siamo, per la miseria. Ci-sia-mo. E nessuno potrà più venire a dirci che è tutta colpa nostra.

Abbiamo trasformato la nostra vita in un ex voto. Abbiamo rinunciato al nostro tempo a tutto quello che ci piaceva davvero, che ci faceva sognare, che ci faceva sentire importanti. Che ci rendeva perfino più orgogliose del saggio di danza in cui la creatura zompetta per cinque minuti con le orecchie da gatto. Quante volte hai peccato, madre? Cinque torte di farina integrale e due feste di compleanno fra i gonfiabili.

Sì, i nostri figli hanno bisogno di noi. Sì, daremmo qualunque cosa per vederli felici. Ma immolarci non è la soluzione. Anche se sembra l’unica che mette sempre tutti d’accordo. (Tranne noi.)

Il tempo delle donne

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«Che bello dev’essere, il tuo lavoro, un po’ come l’uncinetto.»

«Sei davvero fortunata ad avere un marito che ti permette di lavorare.»

«Povero bambino, eh, sono gli svantaggi di avere una madre di successo.»

«Oh, come sei drammatica, non ti si può neanche parlare quando sei al computer.»

Se sei donna e lavori hai delle pretese. Se sei donna e lavori da casa fai passare il tempo fra una lavatrice e l’altra. Se sei donna e lavori da casa facendo qualcosa che ti piace, te la stai spassando.

Sembra che ci sia qualcosa di tossico, nelle donne che si realizzano, come se lo facessero sempre a spese altrui, come se fossero una minaccia per la sopravvivenza della specie che in confronto al buco dell’ozono ci metti una pezza e via. Ma siamo nel 2019, travolti dalla quarta ondata femminista, fra #metoo e bambine ribelli, non puoi mica saltar su e dire che le donne dovrebbero pensare alla famiglia prima di tutto. No, la strategia che viene usata è molto più sottile.

Si comincia con una narrazione del materno da crisi iperglicemica, a metà fra Madre Teresa di Calcutta e una chioccia sotto acido, di cui le mamme pancine sono la versione hardcore, per intenderci. Perché sia credibile, però, bisogna avvolgere le creature in una serie di esigenze, bisogni e necessità inarrestabili e spesso incomprensibili, ma abbastaza vitali da costringere le genitrici a non abbassare mai la guardia. Mai. Quale leonessa nella selva, puoi avere una riunione decisiva per la tua carriera, un appuntamento con l’estetista fissato un secolo prima o – Dio non voglia – essere fuori a divertirti con le amiche, ma saprai sempre che là fuori sono in agguato l’olio di palma, il senso di abbandono, la frustrazione, i pidocchi, i compiti, il gruppo di whatsapp, la maestra che mina la sua sicurezza, una gamma infinita di patologie, sindromi, virus e una sfilza di traumi tutti riconducibili in sostanza al fatto che tu sei una stronza.

No, no, prego, liberissima di lavorare e uscire con le amiche e divertirti, ci mancherebbe altro. Ciascuna ha le sue priorità, certo. Se non ti preoccupa il fatto che tua figlia mangi una merendina confezionata con grassi saturi e zuccheri e un biglietto di sola andata per colesterolo, infarto e tumori a scelta, invece di un panino fatto in casa con farina integrale, lievito madre, polvere di curcuma anti infiammatoria, semini antiossidanti e pomodorini dell’orto, fai pure.

Speravano che fosse sufficiente per farci desistere. E invece no. È saltato fuori che le donne sono disposte a farsi in due in quattro in otto, invece di sbrigare due cose per volta ne fanno dieci, quindici, venti, tutte quelle che sono necessarie, pur di riuscire a lavorare, uscire con le amiche, andare dall’estetista e preparare un panino perfetto e monitorarlo per quando le verranno a dire che i semini irritano e i pomodorini fanno acidità e allora meglio una conserva di frutta di stagione fatta in casa, che con cinque o sei ore te la cavi ed è tutta salute.

Il tempo delle donne è come la borsa di Mary Poppins, la riempi e la riempi e continui a riempirla e ci sta dentro tutto, sempre, non scoppia mai. Il tempo delle donne è il materiale del futuro, non esiste lega altrettanto resistente ed elastica. Sono sicura che alla Nasa ci sono almeno un paio di scienziati che lo stanno studiando, scienziati uomini, certo. Il tempo delle donne è una grande enorme Big Babol, una bolla di sapone che cresce cresce cresce e non scoppia mai. Perché scoppieremo prima noi.

Ci siamo fatte fregare, ammettiamolo. Ci siamo cascate. E il peggio è che ce ne vantiamo. Non dovremmo essere orgogliose perché riusciamo fare cinquanta cose alla volta, dovremmo darci delle sceme. L’esaltazione della stanchezza materna è una trappola e noi ci siamo cascate. Siamo circondate da annunci di integratori pensati apposta per la spossatezza e lo stress delle donne, quando l’unico integratore di cui avremmo bisogno è una porta chiusa e qualche senso di colpa in meno.

Non siamo tenute a stancarci, non siamo tenute a sfinirci per stare dietro a tutto, non dobbiamo dimostrare di essere in grado di pensare a casa e famiglia e figli e lavoro e cani e pesci rossi, tutto insieme. Non abbiamo nessuna colpa da lavare, nessuno a cui chiedere scusa perché abbiamo usato il nostro tempo per noi stesse, nessuna giustificazione da dare se ci siamo realizzate e nessun peccato da espiare perché ci stiamo divertendo. Ogni volta che ci ammazziamo di fatica e riempiamo le nostre giornate all’inverosimile quello che stiamo facendo in realtà è dire che non ce lo meritiamo, che non ci meritiamo un lavoro che ci piace, che non ci meritiamo di essere lasciate in pace mentre lo facciamo, che non ci meritiamo di essere felici.

Non è necessario. Non è necessario autodistruggerci. Tutto il contrario. Pensiamoci. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno è sorridere. Un sorriso è l’unico permesso che ci serve. Il nostro.

Vuoi fare una cosa femminista? Riposati

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Non si uccidono così anche le femministe?

Ci stanno prendendo per sfinimento. Ancora una decina d’anni a questo ritmo e al primo che dirà che le donne devono stare a casa risponderemo in coro “Ma magari, quando comincio?”

Ammettiamolo, questa faccenda del dover dimostrare quanto valiamo ci è sfuggita un po’ di mano. Siamo super mamme, super mogli, super sexy, super professioniste, super acconciate, super alla moda, super smaltate, super calzate, super depilate, super aletiche. Super donna puoi dirlo a tua sorella, qui siamo oltre. Ultra. Un’ultradonna con prestazioni inaudite, interfaccia in cinque lingue, capacità di gestire ottanta gruppi whatsapp al secondo e un bebè per braccio con riunione in cuffia e spesa in testa, scheda grafica impeccabile, memoria ram di ultima generazione, master in cucina esotica e attrezzata per sopportare mansplaining e schivare mani sul culo con disinvoltura e il dito già sull’hashtag metoo, capace di gestire campagne femministe e impastare il pane con lievito madre, farina integrale di quinoa e acqua dai ghiacciai vergini dell’Himalaya, e ricavarci pure un paio di storie Instagram e un post che spacca.

Le donne in carriera degli anni Ottanta ci fanno il solletico, patetiche imitazioni di quei polpi con la sindrome da iperattività che siamo diventate trent’anni dopo. Cinque minuti liberi sono diventati un’anomalia, una spia accesa, un malfunzionamento improvviso da riparare al più presto, prima che qualcuno se ne accorga. Lista della spesa, lavatrice, polvere, mail di lavoro in sospeso, status persi su Facebook, telo del divano da sistemare, scarpe da raccattare in giro per il soggiorno, piante da annaffiare, sopracciglia da strappare. L’importante è riempire al volo quel poro dilatato nelle nostre giornate tese come leggings di spandex.

Non si uccidono così anche le femministe? Ecco la maratona della vita, signore mie, tante donne che si sfidano fino all’ultimo muscolo dolorante, fino all’ultima emicrania, fino all’ultimo messaggio di whatsapp, fino all’ultima corsa a casa, fino all’ultima riunione, ventiquattrore su ventiquattro, a oltranza. Senza scordarsi di divertirsi con le amiche, andare al cinema, leggere i libri del momento, scrivere un paio di commenti arguti sui social, fotografare il pupo che poi cresce, giocare con il pupo che poi cresce, andare a comprare le scarpe al pupo che porca vacca se cresce, portare il pupo al nido che cresce bene lo stesso e si fa gli anticorpi, andare a riprendere il pupo dal nido perché gli anticorpi al primo virus hanno fatto i finti morti.

Insomma, sapete che vi dico. Io mi fermo. Non di colpo, che rischio il testacoda. Comincio con cinque minuti. Cinque minuti al giorno senza far niente, senza pensare a niente, cinque minuti da ferma, per provare a rallentare. Cinque minuti senza cellulare. Senza ascoltare i figli, senza decidere che cosa fare per cena, senza accarezzare il cane, senza raccogliere relitti alimentari da terra che in confronto il formaggio peloso della Schiappa è fresco di giornata, senza preoccuparmi se sono in ritardo con la consegna. Senza pensare al prossimo romanzo da scrivere e a come vendere quello appena scritto. Senza leggere i commenti sulla pagina, senza sfogliare un libro, senza aprire le mail, senza ascoltare musica, senza decidere che film vedere la sera, senza chiedere ai miei figli se hanno fatto i compiti. Cinque minuti da sola. E sono sicura che sarà la cosa più femminista che avrò fatto in tutta la settimana. Ritrovarmi all’improvviso al centro del mio mondo, per la bellezza di cinque minuti. Io e me stessa continuiamo a volerci un gran bene, ma ultimamente ci vediamo meno di una coppia di astronauti in due missioni diverse.

Più crediamo di dimostrare di essere invincibili, più ci stiamo preparando a essere sconfitte. Stanno per arrivare tempi duri, non facciamoci trovare già esauste. Se vogliamo vendere cara la pelle dobbiamo sapere chi ci abita, in quella pelle. Non facciamoci fregare dai cori del “Non mi siedo altrimenti chi si rialza”, dalle gare al martirio femminili, dalla stanchezza indossata come medaglia al valore, la prova definitiva del nostro essere donna: lo sfinimento. È una fregatura. Ci hanno fregate. Ci siamo fregate da sole. La strada del femminismo è lastricata di buone intenzioni e donne esauste.

Io dico di fermarci. Per ricordarci quanto valiamo. Per tornare a conoscerci, per sapere per chi stiamo lottando. Per poi tornare più incazzate, ribelli e riposate che mai.

Ma perché sei sempre stanca?

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Questa donna si autodistruggerà entro…

5… Sei la prima a svegliarti, caffè, merende nello zaino, lavatrice, vestiti sul letto, merda i calzini del piccolo, non li ho lavati, se glieli infilo abbastanza in fretta forse non si accorgerà che sono di tre anni fa. Oggi hanno rispettivamente, ginnastica, educazione artistica, francese, yoga, canto, tennis, festa di compleanno anni settanta e il saggio di danza del ventre – quanti figli ho? Due, perché? – è il giorno della frutta di stagione – di che cavolo di stagione sarà la mela? – ho il colloquio con la maestra per cui ho dovuto chiedere un permesso due mesi fa, se mi sbrigo forse arrivo in tempo alla riunione di basket per decidere se le nuove divise devono essere verde pisello o verde pesto. E subito dopo devo correre perché oggi è la giornata Me and mummy alla scuola di inglese del piccolo e non parla d’altro da mesi. Months, sì, months, certo, tesoro. I’ll be there for you.

4… Sulla strada per l’ufficio ti ricordi di chiamare tua suocera, per sentire come sta. Sta benissimo, dice, è la compagna di stanza che sta male e non fa che gemere e lamentarsi tutta la notte e lei non riesce a chiudere occhio, non potrebbero spostarla e metterla con qualcuno di più silenzioso? Ah, dici che le pazienti in coma non le mettono nelle doppie? Che occasione sprecata. Comunque sì, per favore, vedi di sentire la caporeparto quando passi oggi. Come non passi? Ah che peccato. Ci tenevo tanto, ma no no figurati, capisco, ci mancherebbe. Del resto, io sono solo la suocera, chi vuoi che si preoccupi di una vecchia come me. Domani? Speriamo, chissà se sarò ancora viva domani. Portami qualche rivista, che le ho lette tutte. Ah, e anche quel brodo di pesce, quello dell’altra volta? Sì, quello che hai fatto cuocere per tutte quelle ore. E dai un bacio grosso al mio Stefano, tesoro mio, lo so che è sempre tanto impegnato, povero ragazzo, non lavorerà troppo? Mangia abbastanza? Digli di non preoccuparsi, di non stare a venire in ospedale, che poi si stanca, tanto lo so che mi vuole bene lo stesso.

3… Hai deciso di delegare, non puoi mica fare tutto tu, basta, e quindi al semaforo chiami tuo marito per ricordargli di fare tutto quello che gli hai delegato. Sì, certo, risponde subito lui, lo so, hai ragione, la cisterna del water ormai perde più acqua delle cascate del Niagara, l’amministratore è già cambiato due volte da quando dovevo chiamarlo per la macchia d’umidità in garage e… cos’altro c’era? Ah, sì, giusto, la raccomandata urgente da ritirare in posta. Vado subito, promesso, faccio tutto all’istante, così non mi dimentico. Sì, certo, no, figurati se domani devi ricordarmi tutto di nuovo. Ah! Ha appena chiamato il dentista per spostare l’appuntamento dei bambini, gli ho detto di chiamarti al cellulare così vi mettevate d’accordo. Ha chiamato la madre di un certo Gino, Pino, Lino… Sì, Martino, brava, come hai fatto a indovinare? Ah sì, è il suo migliore amico? Dall’asilo? Ma pensa. Era per un regalo di classe, non ho ben capito, ti chiamerà. E anche il falegname, per quel preventivo.  Come? Mia madre vuole stare con una tizia in coma?

2… Hai appena parcheggiato quando ti chiama la tua capa. Consegna anticipata, vogliono tutto entro domani pomeriggio, ho detto che non c’era problema. Non ti spiace fermarti un po’ di più oggi, vero? Se perdiamo questo cliente tanto vale che chiudiamo baracca e burattini e ce ne andiamo tutti a spasso. Tu per prima. Permesso? Quale permesso? Verde pesto? Quale mummia? Riagganci e un attimo dopo torna a squillare. Sì, rispondi subito, sì, stasera conta su di me. E dal silenzio sorpreso ti viene il dubbio. Oh, tesoro, è magnifico, esclama tua madre, ti preparo le lasagne come piacciono a te e la torta salata e l’arrosto con le patate e farò una torta al cioccolato, che mi sa che hai bisogno di energia, hai sempre la voce così stanca.

1… E si fa sera. E sei in ritardo sulla consegna, ci sono 478 messaggi nuovi nelle chat di classe, 324 in quella del basket e 673 in quella di tua suocera, non sei passata a ritirare le raccomandate, non hai richiamato la madre di Martino che è una che se le lega al dito, non hai scongelato il pesce per il brodo, ti sei scordata di avvisare la maestra che non saresti arrivata al colloquio, sei passata al volo da tua madre a un’ora indecente e hai mangiato tutto quello che aveva preparato praticamente sulla soglia – Non va mica bene, devi avere cura di te, guarda che faccia tirata hai, non vai più da quel parrucchiere tanto bravo? – e quando hai cambiato l’appuntamento dal dentista per i bambini ti sei dimenticata di prenotare per te e quel molare adesso ti fa un male boia. E soprattutto, soprattutto, non sei arrivata in tempo alla giornata Me and mummy, così tuo figlio ha recitato il suo dialogo con – orrore – la mamma di Claudia, alias l’anima della chat di classe, alias la mummy per eccellenza, che più mummy non si può. Mi spiace tesoro, gli dici, al momento della buonanotte, in ginocchio sui Lego, ti prometto che alla prossima verrò e comunque vedrai, papà ci sarà di sicuro alla sua… come? Non c’è la giornata Me and daddy? Ma che bastardi. Scusa, assholes, volevo dire assholes. Buonanotte amore, e sì, domani ti lavo i calzini, promesso. Lo so, grazie amore, lo so che mi vuoi bene. Come? Sì, scusa, hai ragione, mi spiace di essere sempre così stanca.