Regala un romanzo d’amore a un uomo. I consigli dei gruppi di lettori

Romanzi d'amore

Regaliamo libri d’amore a uomini e ragazzi, sì, ma quali?

Ho chiesto consiglio a due gruppi di lettura su Facebook, Leggo letteratura contemporanea e Sto leggendo questo libro, che ringrazio di cuore per i loro suggerimenti.

Ecco allora una lista, per iniziare (se avete altri titoli da consigliare, potete scriverli nei commenti):

Ciao, tu. Indovinami, scoprimi, sappimi, di Beatrice Masini e Roberto Piumini (da 13 anni)

Amorevolissimamente, di Geert De Kockere (da 13 anni)

Le ragazze non hanno paura, di Alessandro Ferrari (dai 12 anni)

– In scena!, di Raina Telgemeier (dai 9 anni)

– Ogni stella lo stesso desiderio, di Laura Bonalumi (dai 12 anni)

Un amore incosciente, di Olivia Crosio (dagli 11 anni)

– Twilight, di Stephenie Meyer

– Divergent, di Veronica Roth (da 13 anni)

L’amore t’attende, di Fabian Negrin (dai 16 anni)

– Bianca come il latte, rossa come il sangue, di Alessandro d’Avenia

– Non è mai troppo tardi, di Valentina Naselli

– La teoria imperfetta dell’amore, di Julie Buxbaum

– Chiamami col tuo nome, di André Aciman

– Il diavolo in corpo, di Raymond Radiguet

– L’uomo che credeva di non avere più tempo, di Guillaume Musso

– Ogni giorno, di David Levithan

– Una passione tranquilla, di Helen Simonson

– Io prima di te, di Jojo Moyes

– Lezione di tango, di Sveva Casati Modignani

– Ci vediamo un giorno di questi, di Federica Bosco

– Il diario di Adamo ed Eva, di Mark Twain

Orgoglio e pregiudizio, di Jane Austen

– Tre camere a Manhattan, di Georges Simenon

 

Buone letture!

Le presentazioni dei libri sono utili?

 

 

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Utili a chi, per cominciare?

Ai lettori? Dal mio punto di vista, da una presentazione non si ricavano grandi chicche sul libro o rivelazioni sull’autore. In una presentazione, come nelle storie migliori, sono i dettagli a fare la differenza: il tono di voce, l’espressione, i sorrisi, la pazienza o l’insofferenza, il rapporto con i lettori, le battute, i fuori programma, il microfono che non funziona, le parole intraducibili che mettono in crisi i traduttori. Ho visto tante presentazioni e sono sincera, non hanno mai aggiunto qualcosa di imprescindibile al libro che veniva presentato e che avrei letto, tranne forse qualche aneddoto curioso. Ma ci sono frasi, battute, atteggiamenti verso la vita che mi sono rimasti dentro e che non cambieranno il mio rapporto con l’opera dell’autore, ma sì il mio rapporto con la scrittura e con le storie, e quando va bene, ma proprio bene bene, anche quello con la vita.

Agli autori? La prima cosa che ci guadagna, nel caso degli autori, ammettiamolo, è l’ego. Che privilegio, che gioia, che emozione, poter parlare di ciò che abbiamo scritto davanti a qualcuno che è venuto lì apposta per quello (facendo finta di non sapere che in realtà la metà sono i cugini della sorella della migliore amica dell’organizzatrice che li ha pregati di venire). Dato il contentino all’ego, il passaggio successivo (parlo per me, almeno) è qualcosa di molto simile a quando inviti gli amici dei tuoi figli e all’improvviso scopri di avere in casa persone molto diverse da quelle che credevi di conoscere. Il figlio timido è un mattatore nato, la figlia pudica balla come se avesse vent’anni di più e un futuro da lap dancer, il figlio un po’ secchione parla come uno scaricatore di porto… Ecco, alle presentazioni succede qualcosa di simile, con la differenza che ogni sorpresa, di qualunque tipo, è gradita, perché significa che il libro ha fatto quello che doveva fare, ossia andare per la sua strada e – con un po’ di fortuna – continuare ad andare e fermarsi il più tardi possibile.

Sono redditizie per l’autore? No. In termini strettamente economici no. Il numero di copie venduto difficilmente, molto difficilmente copre i costi di una presentazione. A meno che l’autore non abiti dietro l’angolo, ovviamente.

Sono un rischio? Sì. C’è di buono che la cosa peggiore che possa succedere è che non venga nessuno e quindi nessuno lo saprà mai. In alternativa, tu, la libraia e la cugina della sorella della migliore amica dell’organizzatrice potete sempre andare a prendere un caffè e farvi una chiacchierata. Il rischio più grande, almeno secondo me, non è la mancata partecipazione dei lettori, ma quella di chi ti ospita. I lettori, si sa, possono arrivare o non arrivare per un sacco di motivi che raramente hanno a che vedere con la qualità del libro o il fatto che sia piaciuto o meno. Ma se la persona che ti ospita ha l’aria di sopportarti e poco più, allora sì, l’ego in quel caso ne esce un po’ malconcio, lo ammetto.

È l’ospitalità, infatti, l’elemento chiave delle presentazioni, l’ingrediente fondamentale, quello che dà gusto e un senso a tutto il resto. Le presentazioni funzionano nella misura in cui le porte si aprono, ci si incontra, ci si conosce, si chiacchiera. Il libraio, o il bibliotecario, o il responsabile dell’evento o del centro culturale, apre le porte di casa sua e ospita autori e lettori. L’autore si apre a sua volta e che si tratti di sincerità o di una posa o di una spontaneità solo apparente, è lì per parlare di personaggi ed emozioni e storie, non di diagrammi e di numeri, quindi in qualche modo è costretto a svelarsi. Il lettore si svela più di chiunque altro, perché c’è sempre qualcosa di molto intimo nell’avvicinarsi a una storia, soprattutto quando lo si fa davanti a chi l’ha scritta. Ci si mette in gioco. Si offre la propria disponibilità a credere alla finzione che ci verrà proposta, a sospendere la propria incredulità, nonostante si sia appena usciti da un lungo giro dietro le quinte proprio di quella stessa finzione. Iniziare a leggere un libro dopo aver conosciuto l’autore richiede sempre uno sforzo aggiuntivo, almeno all’inizio, per immergersi del tutto nella storia dimenticandosi che si tratta di un’illusione e aspettando che la narrazione compia la sua magia.

I libri, in fondo, sono giardini. Sono luoghi di incontro, di passaggio, di scambio. Ci passano i personaggi, i lettori, gli scrittori, ciascuno vi deposita le proprie emozioni e le proprie ferite, ci resta il tempo necessario e poi se ne va, lasciando lì una sedia vuota, a volte, per sapere di poter tornare. Le presentazioni sono come quel giardino. Sono un modo per recuperare la dimensione orale e collettiva delle storie, per intrecciarle al senso di una comunità sempre più sfilacciato eppure sempre più necessario. Ci si incontra, ci si conosce, si intrecciano le proprie storie, ci si arricchisce a vicenda e poi si riparte, lasciando lì una sedia, per tornare a quella storia e a quelle storie, ogni volta che ne avremo bisogno.

Leggere sul cellulare può salvare le storie?

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«Ho ricominciato a leggere, erano anni che non leggevo più.»

«Davvero? Che bello!»

«Sì, non avevo mai tempo. Non che adesso ne abbia, eh?»

Sento odore di Sindrome dello Strofinaccio lontano un chilometro. E la mia amica, devo dirlo, ne è affetta in modo grave. Ha una figlia ormai grandicella, una casa fin troppo pulita, un lavoro part time e l’incapacità cronica di ritagliarsi tempo per se stessa senza sentirsi in colpa. Piuttosto va a fare la spesa, cucina per la settimana dopo, toglie una polvere inesistente o stira le lenzuola (segno che la Sindrome dello Strofinaccio è nella fase acuta, secondo me).

«E allora quando leggi?» le chiedo.

«Mentre cucino. Sul cellulare. Guarda.»

Mi mostra la sua biblioteca sullo schermo del cellulare e devo ammetterlo, per un attimo mi irrigidisco. Eh, no, dice una parte di me, così non vale, così si perde tutta la magia, e poi guarda che schermo minuscolo, come si fa a leggere così, così non è mica un piacere…

Poi però vedo come si illumina mentre mi mostra il suo piacere proibito e tutti i titoli sul suo cellulare. Perché sì, per la mia amica la lettura è – e forse sarà sempre – un piacere proibito. Non è quello che le hanno insegnato, non rientra fra i compiti della brava donna di casa. Uscita di casa giovanissima, con un rapporto precario con i genitori, con cui ha interrotto in pratica ogni rapporto nonostante vivano a due passi da lei, la mia amica si porta dentro più sensi di colpa di quanti ne restino sull’inginocchiatoio di un confessionale. E il suo modo per affrontarli o almeno conviverci è ammazzarsi di fatica. O convincersi di farlo. Convincere se stessa e il mondo di essere esausta e di non aver dedicato neanche un minuto a se stessa. La lettura non è contemplata nel suo stile di vita. La lettura è per le donne oziose e un po’ supponenti, per chi ha tempo per guardarsi dentro e rinchiudersi dentro di sé dimenticandosi del resto. Mica come la televisione, che ti distrae. No, la lettura è uno specchio, e come ogni specchio che si rispetti, è simbolo di egocentrismo e vanità e tempo da perdere.

Leggere sul cellulare rende tutto diverso. Guardare lo schermo del cellulare nella sua visione delle cose è concesso, e il fatto che la lettura sia un po’ meno piacevole, che ci si debba sforzare per leggere, che non sia soltanto un piacere, lo rende accettabile. Farlo mentre si cucina, poi, scaccia ogni dubbio rimasto. Forse arriverà il giorno in cui anche lei metterà da parte il cellulare e le verrà voglia di entrare in libreria o almeno di passare a un ereader, ma per ora va bene così.

E mentre parlavamo, dopo aver messo a tacere con qualche gomitata la parte di me che continuava ad arricciare il naso infastidita, ho pensato che forse è proprio questa la strada per conquistare nuovi lettori e salvare la lettura. Che il cellulare può diventare un grande alleato e che le storie troveranno sempre e comunque il modo di arrivare al lettore, anche da uno schermo minuscolo e con un’impaginazione che ai grafici editoriali farebbe venire l’orticaria, probabilmente.

In fondo, che importanza ha, se al posto del profumo della carta la mia amica sente quello dei cannelloni, al momento di leggere? La luce nei suoi occhi mentre mi raccontava dell’ultimo libro che ha iniziato (stavo per mettere le virgolette a libro, eh, ma mi sono trattenuta), il suo ritrovato amore per le storie e anche e soprattutto per se stessa e per i momenti “rubati” agli altri (qui sì, le virgolette ci volevano) e dedicati a ritrovare la persona nascosta dietro tanti compiti e doveri e sensi di colpa, è questo l’importante, e non c’è profumo della carta che regga.

Ripartiamo dai lettori, non dai libri, se vogliamo che le storie continuino a vivere. Perché sono le storie che contano, non gli scrittori, non i libri e non gli editori. Le storie e chi le ascolta, le interpreta, le guarda, le legge e poi le trasmette ad altri. Saranno le storie a salvarci, non i libri e non la carta. Le storie e la loro capacità unica di restituirci a noi stessi, di permetterci di ritrovarci, finalmente, nel riflesso di un mondo nuovo e diverso da noi.

Confessioni di una lettrice sedotta e abbandonata dal Kindle

Foto Toto @ Matinino (CC)

Buongiorno, mi chiamo Mara e non tocco un Kindle da almeno un anno. Ebbene sì. L’ho detto. Il mio Kindle giace inutilizzato e, inutile dirlo, scarico, da mesi. È sempre lì, sul comodino, ma non ricordo più neanche quando è stata l’ultima volta che l’ho acceso. E sapete qual è la parte peggiore? Che non ho voglia di farlo. Nonostante, ovviamente, continui compulsivamente a comprare ebook in offerta.

Qualche spiegazione ho provato (o hanno provato) a darmela, ed erano tutte molto sensate: il cartaceo è più riposante, è meno stressante, ti libera dall’ansia del multitasking costante, ti senti più coccolata, ecc. Ma nessuno di questi motivi mi convinceva del tutto. E non sopportavo l’idea di dover ragione a quegli insopportabili gufi un po’ snob che profetizzano la scomparsa improvvisa del ditigale. Io ho sempre creduto negli ebook e negli scenari aperti dal nuovo mercato editoriale, e continuo a crederci. (Oltre al fatto che se non leggessi più in digitale avrei perso ogni possibilità di rileggere anche i miei, di libri.)

Ogni volta che pensavo di riprendere in mano il Kindle, però, finivo sempre con lo storcere il naso e cercavo un libro cartaceo. Altro che una pausa salutare o una fase di crisi di quelle che nelle coppie prima o poi arrivano sempre, la mia sembrava una situazione senza uscita. Finché non sono successe due cose.

La prima è che mi sono decisa a usare Whatsapp. Che cosa c’entra? mi chiederete voi. C’entra. Perché usando Whatsapp ho anche scoperto che tutto diventava improvvisamente meno impegnativo. Le foto che scattavo non dovevano necessariamente essere belle. I messaggi che scrivevo non dovevano necessariamente avere un’ortografia accettabile (confesso di avere fatto stragi di maiuscole, accenti e punti alla fine della frase per cui fino a qualche mese fa avrei gridato allo scandalo).

Il digitale è poco impegnativo, provvisorio, approssimativo, perché i suoi canoni e i suoi parametri sono altrove. Su Spotify credo di non essere quasi mai riuscita ad arrivare alla fine di una canzone. Quando leggo le mail sono diventata così rapida che mi perdo quasi sempre per strada la metà del messaggio. Se mi dovessi scattare un selfie (cosa a cui per ora non sono ancora arrivata, ma chi può dirlo), non andrei prima dal parrucchiere. Qualche giorno fa in aereo una ragazza davanti a me si è scattata una foto su Whatsapp mentre digitava alla velocità della luce per avvertire che era appena atterrata. Una foto seria e per niente emotiva, più dalle parti delle impronte digitali (sì, sono davvero io!) che da quelle di un emoticon. Una foto che per significato e funzioni non aveva quasi nulla a che spartire con le foto come le avevo conosciute io fino a poco prima.

Con i libri però il provvisorio e l’approssimativo non funzionano. Con i libri vogliamo l’impegno. Reciproco. E ai primi tempi con il Kindle l’avevo trovato. Avevo la sensazione che ci stessimo impegnando entrambi a cambiare le cose. Lui mi veniva incontro con prezzi e modalità di acquisto più vantaggiosi e io gli andavo incontro rinunciando al piacere di sfogliare le pagine e di avere davanti una copertina, per investire a modo mio sul futuro del digitale. E che cosa c’è di più impegnativo che andarsi incontro a vicenda e investire su un futuro in comune?

La seconda cosa che mi è successa è che ho letto il post in cui Craig Mod spiega come a lui sia accaduto qualcosa di simile e in cui critica il digitale sostenendo che è rimasto, fra le altre cose, chiuso su se stesso, senza aprirsi al lettore o alla rete di lettori. È stato un po’ come se un’amica avesse appena criticato un’abitudine insopportabile del mio fidanzato che io credevo di dover mandar giù senza fiatare.

In quest’ultimo anno, se non prima, il Kindle ha smesso di venirmi incontro. Se ne è rimasto lì, identico a se stesso, senza rinnovarsi, senza scommettere davvero sul digitale, senza rischiare, senza offrirmi almeno un decimo di quello che mi offrivano nel frattempo gli altri dispositivi.

Ecco perché non ho più voglia di prenderlo in mano. Perché mi sento tradita, perché mi ha costretta a cambiare, a rivoluzionare tutte le mie abitudini di lettura e poi se ne è rimasto lì, ingrigito e rigido come un vecchio brontolone, con tutte le sue regole del cavolo sulla condivisione dei file e il prestito e i suoi DRM e una sfilza di divieti che neanche mia nonna, altro che gioventù ribelle e pronta a rischiare.

Quando lo prendo in mano, il Kindle ha il sapore un po’ malinconico e amaro di una scommessa persa per pigrizia, di una rivoluzione lasciata a metà perché c’erano da fare i conti in cassa, di una dichiarazione d’amore tradita dalla distrazione.

Perché io lo sapevo che il Kindle in realtà mi considerava solo una consumatrice come tutte le altre, ma ho sempre fatto finta che mi considerasse anche una lettrice speciale, finché lui ha smesso di ascoltarmi e di starmi al passo ed è rimasto indietro. Non è ringiovanito. È rimasto vecchio. Non è cresciuto insieme al mio modo di leggere digitale. Non ha ascoltato le mie esigenze. Non mi ha più lusingata, blandita, coccolata come faceva all’inizio. Io ho tollerato i suoi difetti (come quelle note impossibili da prendere, un dizionario così scomodo da usare che fai prima con il cartaceo, i pdf da leggere con la lente di ingrandimento, le pagine tutte sballate) nella convinzione che prima o poi sarebbe cambiato. E invece, si sa, poche convinzioni hanno fatto affondare tante coppie come questa.

Il Kindle, insomma, mi ha trascurata. E c’è un po’ di livore adesso nel mio rifiuto a prenderlo in mano e a riaccenderlo. Un po’ di sano risentimento. Sei sicura che se lo meriti? mi sussurra una vocina ogni volta che sto per caricarlo. E alla fine decido sempre di no. Perché non è facile perdonare chi ti costringe a cambiare e poi resta ostinatamente identico a se stesso.

Ma come spesso accade nelle coppie, mentre gli volto le spalle non desidero altro che scoprire che mi sto sbagliando. E che da un momento all’altro riceverò una dichiarazione d’amore così magnificamente fasulla e impostora da convincermi a perdonargli tutti i suoi sbagli e a scommettere di nuovo sul nostro futuro insieme.

Manuale di NON scrittura creativa/11

Regina-Biancaneve

Immagino che sia un po’ come quando vuoi restare incinta e in giro vedi solo pancioni, ma ultimamente mi capitano fra le mani romanzi sull’arte di raccontare. Che si tratti di seguire la genesi di un libro, di una voce narrante che diventa protagonista o dell’insistere sulla coerenza del punto di vista, sono tutte storie in cui la volontà di raccontare diventa evidente. Il lettore si sente accolto, inglobato nello sguardo che gli offre la storia, partecipe.

È così semplice, in realtà, mi sono detta. È tutto qui. Aver voglia di raccontare, una storia da offrire, un universo da svelare.

Sembra banale, ma allora come mai ci ritroviamo così spesso a leggere l’equivalente letterario di un selfie? Diari adolescenziali travestiti da romanzi, che con i diari condividono soprattutto il bisogno di definire un’immagine di sé, stretta fra aspettative pubbliche e aspirazioni private. E con i selfie invece il bisogno e la presenza di un pubblico adorante.

Il mondo della scrittura visto dai social spesso è deprimente, diciamocelo. Gli scrittori dovrebbero scrivere storie, non scrivere delle storie che hanno scritto o che scriveranno. E gli scrittori sui social secondo me dovrebbero parlare di meno e ascoltare di più. Ascoltare i lettori, i loro pareri e le loro storie, cogliere emozioni, spunti, opinioni. Dovrebbero approfittare dello scomodo privilegio di scoprire in diretta che cosa diventano le loro storie agli occhi di chi le legge. Perché se dedicano tanto tempo a offendersi per un parere negativo, a gridare al complotto, a elemosinare recensioni, a fare la ruota sotto la definizione di “scrittore”, finiranno per dimenticarsi che il loro compito è solo raccontare storie, non raccontare se stessi. E che una storia per prendere vita ha bisogno della magia dell’ascolto, di quel momento in cui si abbandona il presente per scivolare in un tempo e in luogo diverso trasportati dalle parole, complici, chi narra e chi ascolta.

Ma per riuscirci bisogna essere in due, le storie non si raccontano davanti allo specchio, soprattutto se le raccontiamo nella speranza di sentirci dire che siamo le più belle del reame.

Per raccontare, insomma, bisogna ricordarsi di ascoltare, ogni tanto.

Manuale di NON scrittura creativa/7

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Oggi vi dirò una cosa che non vi diranno in molti e che probabilmente non troverete mai in un manuale di scrittura creativa: le vostre aspirazioni letterarie rendono. E rendono parecchio. Sono una boccata d’ossigeno per le casse agonizzanti dell’editoria. E non mi riferisco solo alle case editrici a pagamento. Corsi di scrittura creativa. Servizi di editing e di traduzione. Manuali. Il self publishing. A nessuno conviene dirvi di piantarla. Al contrario. I vostri sogni valgono tanto oro quando non pesano.

È uno dei motivi per cui si parla sempre meno del talento. Ha addirittura qualcosa di snob, d’altri tempi quasi, nell’epoca del Yes we can, in cui tutti possono fare tutto basta che si impegnino, sbattere in faccia a chi non ce l’ha il proprio privilegio alla nascita. Eppure il punto è tutto lì, non si scappa. Chi si impegna arriverà a scrivere un buon testo di intrattenimento, forse, ma senza talento non andrà molto più in là.

E così, fatti due conti e quattro corsi, il mondo si sta riempiendo a vista d’occhio di scrittori, spuntano come funghi a una velocità impressionante, dove meno te li aspettavi e dove te li aspettavi eccome. E non ci sarebbe niente di male, credo, anche se dubito che questa esplosione di creatività corrisponda a un aumento effettivo del talento in circolazione. Le storie ormai le scrivono tutti, perfino chi deve pensare il packaging di un bagnoschiuma o disegnare il percorso d’acquisto in un supermercato. Storytelling come se piovesse. Il punto è che con tanti scrittori ovunque, si è perso di vista un punto fondamentale: ossia che ai lettori degli scrittori non frega un accidente, in realtà.

Sono gli scrittori che amano parlarsi addosso, tenersi d’occhio e a braccetto, misurarsi, criticarsi, elogiarsi. Ai lettori gli scrittori non interessano mica. I lettori amano leggere, non amano gli scrittori.

Ecco il mio consiglio, allora: fate l’unica cosa davvero d’élite che è rimasta da fare, l’unica che vi distinguerà dalla massa: leggete. Non solo. Divorate storie, ingozzatevi di personaggi, scoprite quanti milioni di modi esistono per dire la stessa cosa senza dire la stessa cosa, perdetevi fra le parole.

E a furia di leggere e di dimenticarvi di voi, quando non ve ne fregherà più niente degli scrittori e degli aspiranti scrittori e delle classifiche e delle recensioni assurde a cinque stelline e delle ingiustizie del mondo letterario, quando avrete tolto il vostro dolce peso da sopra il manoscritto lasciando finalmente prendere fiato ai personaggi, la vostra storia, se è davvero buona, avrà l’ossigeno che le serve per crescere.

E con un po’ di fortuna, sarà rimasto in giro qualche lettore che possa godersela.