E poi, un giorno, ho capito che stavo combattendo.
Ero l’unica a esserne convinta. Gli altri probabilmente vi avrebbero detto che stavo solo facendo il mio dovere di donna, che alzavo troppo la voce e la testa e che avevo un caratteraccio. Tutto qui. Eppure una parte di me continuava ad aspettare il permesso, senza sapere neanche bene di chi, e nel frattempo rimuginava frustrazioni e insofferenze e sogni realizzati a metà, e aspirazioni assaggiate e poi rimandate. Perché se sei nata nella mia generazione te l’hanno spiegato, che devi realizzarti e sognare e fare progetti. Quello che non ti hanno spiegato è che sono progetti a tempo. E il tempo lo scandiscono il tuo utero e i tuoi ormoni.
Quello che a me non aveva spiegato nessuno era l’esistenza di una parte di me che non coincideva né con l’utero né con gli ormoni e che quindi non interessava quasi a nessuno e non aveva un posto nel racconto pubblico previsto per me, in quanto donna, eppure era l’unica parte in cui mi riconoscessi davvero. I sogni di una donna sono senza tempo e senza cittadinanza. E le nostre battaglie sono sempre così prossime e intime e quotidiane da sembrare piccole e patetiche e insignificanti. Motivo di vergogna, più che di orgoglio. Che vanto ci sarà mai, nel cercare di incastrare i propri sogni in un privato di cui non frega niente a nessuno? Che onore ci sarà mai, se non c’è un orizzonte pubblico su cui proiettarlo, perché quell’orizzonte è declinato tutto al maschile?
Finché un giorno ho capito: non ero sbagliata, non ero frustrata, non ero fallita. Stavo lottando. E no, non l’avrebbe mai detto nessuno, di certo non la macellaia che mi guardava sprezzante perché il giorno prima aveva visto i miei figli con mio marito, qualche volta neanche le persone più care a cui scappava una parola di pena o di ammirazione per quello stesso marito, quando lo lasciavo da solo a gestire la nostra vita mentre io cercavo di costruire la mia, nei pochi spazi che mi ritagliavo.
Perché succede così, c’è la nostra vita e c’è quella di mio marito. E poi c’è la mia. Ma la mia dà fastidio a un sacco di persone, vai a capire perché. Forse perché sembra che me la stia costruendo a scapito di quella degli altri. Forse perché non sembra un diritto, ma una pretesa, una presunzione, un’alzata di capo fuori luogo.
Ecco perché è indispensabile, a volte: guardarsi allo specchio e dire a se stessa che stai combattendo. Che la tua è una lotta senza nome e senza casa, ma è pur sempre una lotta. Che nessuno probabilmente starà dalla tua parte, ma stai combattendo lo stesso. Piantiamola con questa storia del volersi bene e amarsi per quello che sei e credere in te stessa. Va benissimo, certo, è tutto molto rassicurante. Ma è solo l’inizio. Quello che non ti dice nessuno è che devi lottare. E lottare da sola, perché non c’è eco possibile per una lotta che nessuno vuole vedere, che nessuno vuole ascoltare.
Ci hanno sottratto il pubblico e ci hanno relegato nel privato, e hanno catalogato le nostre battaglie nel sentimentale tendente a sdolcinato. Non crediamoci. Non è così. C’è più coraggio nella lotta che combattiamo dentro di noi di quanto ne serva per mettersi a capo di un esercito dentro una scintillante armatura. È solo che finora l’hanno raccontata in modo diverso. Finora hanno raccontato le battaglie dal punto di vista degli uomini. Raccontiamole dal punto di vista delle donne e scopriremo di non essere sbagliate. Di non essere deboli. Di non essere sole.