Il tempo delle donne

faccia bolla

«Che bello dev’essere, il tuo lavoro, un po’ come l’uncinetto.»

«Sei davvero fortunata ad avere un marito che ti permette di lavorare.»

«Povero bambino, eh, sono gli svantaggi di avere una madre di successo.»

«Oh, come sei drammatica, non ti si può neanche parlare quando sei al computer.»

Se sei donna e lavori hai delle pretese. Se sei donna e lavori da casa fai passare il tempo fra una lavatrice e l’altra. Se sei donna e lavori da casa facendo qualcosa che ti piace, te la stai spassando.

Sembra che ci sia qualcosa di tossico, nelle donne che si realizzano, come se lo facessero sempre a spese altrui, come se fossero una minaccia per la sopravvivenza della specie che in confronto al buco dell’ozono ci metti una pezza e via. Ma siamo nel 2019, travolti dalla quarta ondata femminista, fra #metoo e bambine ribelli, non puoi mica saltar su e dire che le donne dovrebbero pensare alla famiglia prima di tutto. No, la strategia che viene usata è molto più sottile.

Si comincia con una narrazione del materno da crisi iperglicemica, a metà fra Madre Teresa di Calcutta e una chioccia sotto acido, di cui le mamme pancine sono la versione hardcore, per intenderci. Perché sia credibile, però, bisogna avvolgere le creature in una serie di esigenze, bisogni e necessità inarrestabili e spesso incomprensibili, ma abbastaza vitali da costringere le genitrici a non abbassare mai la guardia. Mai. Quale leonessa nella selva, puoi avere una riunione decisiva per la tua carriera, un appuntamento con l’estetista fissato un secolo prima o – Dio non voglia – essere fuori a divertirti con le amiche, ma saprai sempre che là fuori sono in agguato l’olio di palma, il senso di abbandono, la frustrazione, i pidocchi, i compiti, il gruppo di whatsapp, la maestra che mina la sua sicurezza, una gamma infinita di patologie, sindromi, virus e una sfilza di traumi tutti riconducibili in sostanza al fatto che tu sei una stronza.

No, no, prego, liberissima di lavorare e uscire con le amiche e divertirti, ci mancherebbe altro. Ciascuna ha le sue priorità, certo. Se non ti preoccupa il fatto che tua figlia mangi una merendina confezionata con grassi saturi e zuccheri e un biglietto di sola andata per colesterolo, infarto e tumori a scelta, invece di un panino fatto in casa con farina integrale, lievito madre, polvere di curcuma anti infiammatoria, semini antiossidanti e pomodorini dell’orto, fai pure.

Speravano che fosse sufficiente per farci desistere. E invece no. È saltato fuori che le donne sono disposte a farsi in due in quattro in otto, invece di sbrigare due cose per volta ne fanno dieci, quindici, venti, tutte quelle che sono necessarie, pur di riuscire a lavorare, uscire con le amiche, andare dall’estetista e preparare un panino perfetto e monitorarlo per quando le verranno a dire che i semini irritano e i pomodorini fanno acidità e allora meglio una conserva di frutta di stagione fatta in casa, che con cinque o sei ore te la cavi ed è tutta salute.

Il tempo delle donne è come la borsa di Mary Poppins, la riempi e la riempi e continui a riempirla e ci sta dentro tutto, sempre, non scoppia mai. Il tempo delle donne è il materiale del futuro, non esiste lega altrettanto resistente ed elastica. Sono sicura che alla Nasa ci sono almeno un paio di scienziati che lo stanno studiando, scienziati uomini, certo. Il tempo delle donne è una grande enorme Big Babol, una bolla di sapone che cresce cresce cresce e non scoppia mai. Perché scoppieremo prima noi.

Ci siamo fatte fregare, ammettiamolo. Ci siamo cascate. E il peggio è che ce ne vantiamo. Non dovremmo essere orgogliose perché riusciamo fare cinquanta cose alla volta, dovremmo darci delle sceme. L’esaltazione della stanchezza materna è una trappola e noi ci siamo cascate. Siamo circondate da annunci di integratori pensati apposta per la spossatezza e lo stress delle donne, quando l’unico integratore di cui avremmo bisogno è una porta chiusa e qualche senso di colpa in meno.

Non siamo tenute a stancarci, non siamo tenute a sfinirci per stare dietro a tutto, non dobbiamo dimostrare di essere in grado di pensare a casa e famiglia e figli e lavoro e cani e pesci rossi, tutto insieme. Non abbiamo nessuna colpa da lavare, nessuno a cui chiedere scusa perché abbiamo usato il nostro tempo per noi stesse, nessuna giustificazione da dare se ci siamo realizzate e nessun peccato da espiare perché ci stiamo divertendo. Ogni volta che ci ammazziamo di fatica e riempiamo le nostre giornate all’inverosimile quello che stiamo facendo in realtà è dire che non ce lo meritiamo, che non ci meritiamo un lavoro che ci piace, che non ci meritiamo di essere lasciate in pace mentre lo facciamo, che non ci meritiamo di essere felici.

Non è necessario. Non è necessario autodistruggerci. Tutto il contrario. Pensiamoci. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno è sorridere. Un sorriso è l’unico permesso che ci serve. Il nostro.

Ed io, avrò cura di te

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“La colpa è delle madri che educano male i maschi.”

“I figli li crescono le mamme.”

“Oh, che bravo papà, cambia perfino i pannolini poverino.”

Ho visto madri strappare dalle braccia dei padri i figli piccoli e difendere la propria posizione a suon di tetta, che di mamma ce n’è una sola e viene prima di tutti. E ho visto madri che ogni santo sabato si trasformano in polpi a otto braccia per gestire figli e cane e passeggino e cellulare e borse della spesa e amici dei figli, perché il marito il fine settimana va in bici con gli amici “che almeno quando torna è di buon umore”.

Non è una partita a squadre, insomma, in cui la questione paterna rotola da un campo all’altro come un pallone preso a calci dalla posizione di turno. Nel caso, assomiglia forse di più a quei calcinculo in cui tutti prendono a calci tutti quanti e quando scendono hanno le vertigini e qualche livido.

Qualche giorno fa, in un post su Facebook Matteo Bussola lamentava giustamente il fatto che gli uomini che fanno i padri finiscono per essere ingabbiati in un lessico al femminile, con quello scherno misto a tenerezza con cui li trattiamo a volte anche nella vita reale. Del resto, alzino la mano i papà che saprebbero trovare un capo di abbigliamento a scelta del figlio a occhi chiusi, che fanno parte di almeno una chat di classe di Whatsapp o quegli esemplari ancora più rari che si ricordano il nome della maestra e il giorno della frutta, della ginnastica, del riciclaggio, del libro da condividere, del fegato di tacchino per l’ora di scienze, quello in cui ci si veste tutti di rosso e quello delle tabelline creative.

Poi però alzi la mano il papà che è riuscito a rimproverare il figlio davanti alla madre senza che lei intervenisse, che non si è sentito una bestia rara alle feste di compleanno, che al parchetto ha potuto consolare il figlio da solo, senza che accorressero tutte le donne presenti decise a salvare il pargolo in balia delle cure paterne con lo stesso spirito con cui un meccanico aiuterebbe una bionda a cambiare una gomma.

In tutta onestà, non so se sia meglio essere ricoperta di critiche perché lavori e non sei sempre presente e disponibile per i tuoi figli, o essere ricoperto di complimenti se ti ricordi di soffiare il naso a tuo figlio invece di lasciarlo andare in giro stile vulcano moccicoso in eruzione.

Forse dovremmo fermarci tutti quanti a riflettere. Invece di saltar su ogni volta con la storia che le madri devono educare i maschi come si deve, perché non proviamo a lasciare più spazio ai padri nel quotidiano dei figli? Non in termini di autorità, come è stato sempre fatto, più o meno ingannevolmente – “Chiedi a tuo padre e digli che io ho detto di sì” – ma in termini di cura. Non sarà più utile, per imparare il rispetto dell’altro sesso, crescere senza dare per scontato che l’accudimento sia femminile e l’assenza maschile? La strada per la parità di genere non passa secondo me dalle favole della buonanotte per bambine ribelli, ma da padri che leggono la storia della buonanotte a bambini ribelli, che si prendono cura dei figli, che li pettinano, li vestono, danno loro da mangiare, che curano le ferite e scacciano le preoccupazioni, da padri che vanno a parlare con le maestre, che comprano vestiti, che scelgono il colore del cerchietto, che si alzano nel cuore della notte a portare un bicchier d’acqua e a uccidere i mostri dietro la porta.

Certo, l’educazione dei figli non è una responsabilità delle donne, è responsabilità comune. Ma non c’è educazione senza cura ed è qui che noi madri fatichiamo a mollare l’osso e a perdere il controllo della situazione. Sull’autorità siamo disposte a chiudere un occhio ogni tanto, ma quando la creatura cade e si fa male, quando ha fame o piange o c’è da decidere la fantasia delle lenzuola e il colore della calzamaglia, fate largo, ci pensa mammà. C’è una zavorra enorme nell’emancipazione femminile ed è lo scettro con cui ci teniamo strette la supremazia dell’accudire. Finché non lo lasceremo andare, rischiamo di non volare alto quanto vorremmo e di fermarci molto prima di dove avrebbero potuto portarci i nostri sogni.

Prendersi cura dei figli non intacca la mascolinità di nessuno, su questo sono (quasi) tutti d’accordo. Ma quante donne sono davvero convinte che non farlo, o farlo meno, non scalfisca la loro femminilità?

Emancipata sarai tu

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L’emancipazione femminile è una cosa fantastica. Un po’ come l’aprifacile.

All’inizio ci credi e senti di far parte di un mondo meraviglioso e molto evoluto, anche se poi perdi un canino per aprire la scatoletta di tonno. I più furbi lo sanno, quando leggono aprifacile si procurano un machete e si prendono mezza giornata libera, ma quando sei ancora giovane e ingenua all’aprifacile ci credi. E poi ti senti terribilmente in colpa perché con te non ha funzionato. Non ci sei riuscita, se un disastro, neanche con l’aprifacile sei capace. Tutto il resto del mondo sì, loro aprono le buste di mozzarella con il mignolo mentre con l’altra mano stendono piani aziendali o scrivono capolavori, e tu hai perso almeno un quarto d’ora, usato tutte e due le mani, ti sei fatta la doccia con l’acqua della mozzarella e detto parolacce che non ricordi bene ma non importa, perché i tuoi figli le hanno già imparate tutte a memoria.

Ecco, con l’emancipazione femminile funziona più o meno allo stesso modo. È tutto molto bello e civilizzato e ci fa sentire persone migliori. Finché non scopri che era una grande presa per il culo. E che ti puoi emancipare, certo che puoi. Puoi partire bene e arrivare subito sulla casella in cui hai genitori abbastanza moderni da pensare che una ragazza deve studiare quello che vuole e finché vuole. Puoi aspettare tre turni e avere la fortuna/intelligenza/pazienza di trovare il compagno giusto, che ti rispetta e che crede in te abbastanza da lasciarti gli spazi di cui hai bisogno. Puoi finire sull’oca e moltiplicarti con tanti piccoli pargoli quanti sono i punti del dado. Puoi cascare sulla casella del ponte e decidere con il tuo compagno che i compiti vanno distribuiti in modo paritario e lui darà il biberon al piccolo in modo che tu possa andare al lavoro (“Non vuoi allattarlo? Ma sei sicura? Non ti sembra egoista?” “Sei sicura di avere bisogno di dormire?” “E allora perché l’hai fatto, scusa, un figlio?”) e sarà presente nel gruppo whatsapp di classe al posto tuo (“Oh oh, ma c’è un papà fra noi, che onore!” “Dovremo stare attente a non parlare male degli uomini.” “Ih ih ih.” – segue serie di emoticon a caso – “Carissimo, promettiamo di non disturbarti se non è indispensabile.” “Se vuoi uscire dal gruppo nessun problema, ti mando un privato per le cose più importanti.” “Di’ a tua moglie che non mangiamo mica, eh…”).

Ma la verità è che prima o poi finirai sulla casella dello scheletro e dovrai tornare a quella di partenza. La verità è che prima o poi ti troverai davanti un uomo che ti considera una presuntuosa arrogante solo perché sei convinta di poter valere qualcosa sul lavoro; prima o poi ti troverai davanti una donna che ti dirà che sei un’egoista e una madre orribile e che dovresti ringraziare tuo marito che ti permette di lavorare e che non è modo, ridurre un uomo a fare da governante in casa propria. La verità è che te ne troverai davanti non una, non dieci, ma cento di queste persone. E ogni volta dovrai ricominciare da capo.

Quando si parla di emancipazione femminile si parla sempre di discriminazione aziendale, di politiche salariali diverse, di permessi di maternità, di colloqui in cui ti chiedono le ovaie in cambio di un posto di lavoro e part time che ti permettono di andare a prendere tuo figlio a scuola e scordarti di avere una carriera. Tutta questa parte la sapevo. A questo ero preparata.

Quello a cui non ero preparata era dovermi difendere dalla macellaia che quando vado a fare la spesa mi guarda sogghignando (“Oggi tocca a te e non a tuo marito, eh, finita la pacchia”), a un asilo nido in cui l’adattamento dura cinque mesi e in cui quando tu te ne vai l’aula è ancora piena di genitori e di tette e di mamme amorose, mica come te. Non ero preparata a dovermi giustificare perché lascio mio figlio in mensa (“Ma tu non lavori a casa?”) invece di preparargli un pasto di tre portate con ingredienti freschi e biologici, a chilometro zero, se possibile provenienti dal mio orto (“Figurati se non hai spazio per un orto, non ce l’hai un terrazzino?”). Non ero preparata a dover passare i pomeriggi a fare da tassista per portare mio figlio a lezioni di canto, scherma, equilibrismo e cinese (“Se non li stimoli da piccoli, da adulti sono spacciati”) sempre se sono abbastanza fortunata da risparmiarmi il logopedista (“Pronuncia la S bene, eh, ma potrebbe fare di meglio”), lo psicologo (“Mi ha detto che mi odia e che odia la vita”) e di misurare il QI con la frequenza con cui io controllo se ho perso quei due chili (“Possibile che sia l’unico della sua classe a non essere superdotato?”).

Mi immaginavo di leggere una fiaba prima di andare a dormire e sentirmi una madre fantastica, non di dovermi chiedere se quella fiaba era abbastanza femminista. Immaginavo di cucinare ogni tanto una torta al cioccolato e mi sembrava già un gran traguardo, non sapevo che avrei dovuto sostituire lo zucchero con quello di canna e il cioccolato con la carruba se non volevo avvelenare i miei figli. Immaginavo di giocare con loro il pomeriggio, non di dover andare prima nel bosco a cercare sassi e rametti perché entrassero in contatto con la natura e non con la plastica. Immaginavo di aiutarli a fare i compiti ogni tanto, quando proprio avevano bisogno di aiuto, non di dover mandare le fotografie del libro di matematica alla madre del compagno che l’ha dimenticato a casa (e giustificarmi perché mi rifiuto di farlo quando a dimenticarlo è il mio).

Non ho mai neanche sperato di essere una madre e una compagna perfetta, ma non pensavo che ogni volta che avrei conquistato un piccolo traguardo avrebbero alzato l’asticella ancora di più, facendomi sentire di nuovo inadeguata.

Emancipiamoci tutti quanti, allora, è questa l’unica strada. Non chiamatela emancipazione femminile come se fosse solo affar nostro. Parliamo di emancipazione familiare, sociale. Perché è di questo che si tratta. Di un progetto comune, non individuale. Emancipiamoci dalle attività extra scolastiche, dal pane integrale preparato in casa con lievito madre, emancipiamoci dai gruppi di Whatsapp, dai lavoretti manuali da fare con l’aiuto dei genitori, dai capi a cui viene l’orticaria quando sentono la parola figlio e permesso nella stessa frase, dalle feste infantili al campo di golf a quaranta chilometri di distanza, dalle riunioni scolastiche per decidere se distribuire pera o mela a merenda.

O tutti o nessuno. L’emancipazione femminile non riguarda solo noi donne, non ci fregate più, ci riguarda tutti quanti. La volete? Allora che ciascuno faccia la sua parte. Non la volete? Allora abbiate il coraggio di dirlo, così sapremo contro quale nemico dobbiamo combattere.