Cinque gravidanze e un bambino, quasi due

di Francesca de Lena

All’ottavo mese della mia prima gravidanza chiamai mio padre, di cui non sapevo niente da più di dieci anni. Gli dissi chi ero e gli lasciai il mio numero, rassicurandolo perché non avevo intenzione di scombussolargli la vita. Se aveva tempo e voglia, se gli andava di sapere di me, poteva richiamarmi. Lui lo fece dopo qualche giorno, ci incontrammo, fui molto chiara sul motivo della mia telefonata: stava per nascermi un bambino e non volevo diventare madre con un così grande fantasma sul groppone, che mi ancorava al ruolo di figlia, per di più infelice. Meglio riprendere a vederci, nei modi e nelle capacità di entrambi. Io non avrei più cercato un padre, mi sarebbe bastata una qualsiasi altra relazione, potevamo essere amici o conoscenti, prendevo quello che c’era, andava bene. 

C’è un limite al peso che un cuore può sopportare: amori e dolori colmano quel limite e in certe occasioni bisogna scegliere: io dovevo fare spazio a un amore, scelsi di lasciare andare un dolore. Nacque Andrea.

All’ottavo mese della mia quinta gravidanza devo lasciar andare un dolore che potrebbe valere come testimonianza per altre donne, con una storia simile alla mia e la stessa incredulità di fronte agli eventi, la stessa esperienza di involuzione, passi indietro invece che in avanti, e l’impossibilità di farsi capire: la maggior parte dei lutti è devastante ma dicibile, mentre alcuni non posseggono neanche la dignità di essere nominati, e per questa mancanza di dignità si gonfiano, conquistano territori del corpo e di ciò che si è, del proprio rapporto con le cose, soffocandone altri, e si amplificano senza prendere mai forma. Come si può visualizzare lo spazio della non-forma? Come si abbandona un dolore che non la prevede? 

Lo spazio che devo creare serve ad accogliere l’amore per la mia seconda figlia, che spero nascerà tra poco. Si chiamerà Marea.

La sento singhiozzare mentre salgo le scale del consultorio verso la stanza della psicologa, è un meccanismo di allenamento alla respirazione: prova a prender vita e ingoia liquido amniotico che le va di traverso e le procura il singulto. In un certo senso è divertente, mi fa compagnia quando non mi fa terrore, quando non spinge forte e si incastra nei miei organi e punta i piedi sulla vescica e sono costretta a trovare un bagno in pochi secondi. Si è messa in una posizione scomoda, ha detto Ginecologo3, scomoda per lei intendo, non per la bambina. Le sembrerà che stia per uscire da un momento all’altro.

Sembra davvero così e invece deve restare stretta lì dentro, e io pensarmi come una porta chiusa dall’esterno che non deve aprirsi. Se mi abbandonassi all’attacco di panico che mi insegue da mesi, se prendessi uno strumento affilato per tagliarmi e liberarmi, lei morirebbe e sarebbe stato inutile questo tentare di curarmi, solidificarmi, farmi fortezza o quantomeno non sbriciolarmi a terra. Quando si è annunciata, a ottobre 2021, era ormai per me già impossibile considerarmi un nido sicuro, come le ostetriche del corso preparto continuano a chiamare noi quasi-madri, e da allora conto alla rovescia aspettando il momento in cui verrà via da me. Posso tagliarmi e farla uscire?, vorrei chiedere ogni giorno, Non posso neanche oggi?, vorrei implorare, Vi prego allora, vorrei supplicare, Tagliatemi voi. Portatela in salvo.

Il nido sicuro è la prima immagine della maternità con cui bisogna fare i conti: ti guardi allo specchio e vedi sempre te stessa, inutile credere di poter davvero visualizzare la tua funzione. Sono un nido. Sono una creatrice. Sono una madre. Resti te stessa e basta: Francesca con la nausea e la stitichezza, con l’affanno, le macchie sul viso, la difficoltà a vestirsi e il chiedere aiuto per depilarsi perché lo sguardo non ci arriva, ma non per questo un miracolo della natura, una potenza femminile, una luce, non per questo un nido per altri. 

Il primo giorno di questa quinta gravidanza ero già certa del risultato, e mi è sembrata una maledizione. Ormai riconosco di essere incinta dopo quanto, una settimana dal concepimento? Aspetto lo stesso il canonico ritardo, pipì sul bastoncino, positivo, lo dico al futuro padre, aveva già capito anche lui, non sappiamo neanche bene cosa dirci, non c’è niente da dire. Un paio di sorrisi giusto per convenzione, per omaggiare il rito, ci convinciamo a vicenda che è doveroso farlo, che bisogna ossequiare la bella notizia.

La nona settimana arriva la prima minaccia di aborto: riposo forzato, progesterone e siringhe. La minaccia rientra, bene ma non stancarti troppo, la tredicesima settimana arriva la seconda minaccia di aborto, nuovo riposo forzato, rientra anche questa, bene, ora si può solo aspettare

Notti al pronto soccorso, ottobre novembre dicembre stesa a letto. Forse non è neanche una soluzione scientifica, ma si fa. I controlli ecografici uniche uscite, a ogni visita aspetto di sentire cosa c’è che non va. Stavolta cosa? Il battito non c’è più? Non cresce? Non si attacca bene? La placenta non si sviluppa? È tutto buio signora, sono sicura che un giorno il dottore mi dirà così, Non vedo più niente. L’utero improvvisamente vuoto, una cosa del tipo: L’embrione è stato riassorbito, sa, il suo corpo lo ha mangiato

Può succedere, mi convinco. L’ho visto fare una volta a una gatta che stava partorendo, lo ricordo bene. Gattino uno, due, tre, il quattro è un groviglio minuscolo e senza sussulto, che la gatta mangia mentre esce il quinto. Il mio utero potrebbe fare lo stesso, penso, e senza che io me ne accorga: dall’interno, senza lasciare segni, senza sporcare. E all’ecografia: buio. I tragitti in auto verso lo studio del ginecologo sono una guerra tra razionalità e speranza, durante i quali rafforzo la convinzione di potermi auto-ingannare: succede il peggio, lo sai, comincia a prepararti, sii pronta. Pensa che se finisce tutto almeno potete confermare la settimana bianca. Pensa che non ingrasserai. Pensa che in fondo meglio così: preoccupazioni in meno, soldi in più. Non permetterti di piangere, non è il momento. 

Quinto mese, arrivano i risultati del dna fetale, nessuna anomalia riscontrata, le abbiamo valutate tutte, tutte le valutabili, 1200 euro di analisi del sangue, i cromosomi paiono intrecciati a dovere. La pancia si gonfia, lo diciamo ad Andrea, quasi costretti. Anche lui era cominciato con una minaccia di aborto, anche quella volta a riposo ma solo un mese, ventotto anni materni quindi pochi, felicità incontenibile, forza e determinazione e benessere, sentirsi indistruttibile, che bella pancia, che luce sul viso. Andrea è felicissimo di fare il maggiore, di più: è entusiasta, commosso, incontenibile. E io di rimando terrorizzata, senza strumenti, afasica.

Averlo detto al figlio che già ho trasforma il tragitto verso l’ecografia in terrore puro, rispetto al quale neanche l’autoinganno può niente. Andrà ogni volta così: prima immaginerò cosa c’è che non va (crescita embrione, betaHcG, utero refrattario, cellule cancerogene, alieni nemici), poi quale parte del meccanismo non avrà funzionato (Qualcosa non funziona, natura senza miracolo), poi come mi avvertirà il dottore (Signora, non so come dirglielo), poi come dovrò reagire (non piangere, non disperare, risolvi subito, risolvi bene), e infine sprofonderò nella paura di come farò mai a dirlo ad Andrea. A quel bambino che ogni sera vuole accarezzare la pancia e cantarle la ninnananna, mentre io voglio nascondermi e già chiedergli scusa per l’illusione che gli sto procurando e della quale, sono certa, non mi perdonerò mai. 

Al sesto mese la psicologa mi dice che dovrei invece cominciare a crederci, che la gravidanza c’è e non sta andando via, che potrei provare dandole un nome. Ha tenuto la bambina in un posto nel suo cervello, ha detto, o nel suo cuore, non ricordo, per i mesi in cui io aspettavo solo di poter vivere il lutto, aspettavo solo di potermi lasciar andare di nuovo alla rassegnazione. La tengo io al posto tuo, mi diceva, penso io a lei finché non ci riesci tu

Non ci riesco perché ho in mente la seconda gravidanza, che è stata il primo aborto, e la terza gravidanza, che è stata il secondo aborto, e la quarta gravidanza, che è stata il terzo aborto. È successo tutto nel 2019-2020. Quando siamo stati investiti dalla pandemia e abbiamo cominciato a sentirci male e stanchi e impauriti io avevo appena smesso di sanguinare. Dieci mesi di sangue dalla vagina, ogni giorno, come mestruazioni infinite, controllare di continuo il ferro e la ferritina e l’emoglobina, e non viaggiare e non allontanarsi dagli ospedali perché potrei avere un’emorragia da un momento all’altro. 

Avevo scoperto la seconda gravidanza a gennaio 2019, l’embrione cresceva poco e lentamente, ma batteva, il cuore si vedeva e sentiva, a volte succede, mi diceva Ginecologa1, non si preoccupi, certe gravidanze cominciano lente. Beta altissime quindi è solo pigro, torni dopodomani, e ancora dopodomani, e ancora dopodomani, lo controlliamo a vista, eccolo qui, piccolo ma c’è, piccolo ma c’è, lo vede? Vede il cuore? Decima settimana, ancora piccolo ma c’è, e però davvero troppo piccolo, non sono più tranquilla, cambio ospedale: quando ha fatto l’ultimo controllo? mi chiede Ginecologa2. Ieri. E il cuore batteva? Sì. Mi spiace, adesso si è fermato. 

Al padre scappano le lacrime, teme per la mia disperazione. Io invece rigida, sopravvissuta, in accelerazione. Cosa devo fare? Come si toglie? Può scegliere se aspettare che vada via da solo o intervenire chirurgicamente; da solo potrebbe volerci tanto e potrebbe essere doloroso. Allora interveniamo, quando? Tra tre giorni. Tre giorni? Sì. Tre giorni in questa compagnia, con la morte inchiodata nella pancia? Tre giorni nell’impostura di portare avanti l’umanità?

La seconda immagine della maternità con cui fare i conti è la custodia di un pezzo di umanità. Per quanto si possa pregare all’altare del nichilismo e del cinismo e della contro-spiritualità, e io a quell’altare ci prego tanto, ci sono cellule di homo sapiens sapiens nel tuo utero, che in quaranta settimane si sviluppano al punto da poter vagire, aprire gli occhi e succhiare latte, e di lì a poco sapranno alzarsi in piedi e impareranno a controllare gli sfinteri e voilà senza quasi che tu te ne accorga un +1 camminerà sulla terra perché ha potuto svilupparsi dentro di te. Mandare avanti l’umanità è pretenzioso? Immagino di sì, ma è l’unica cosa che mi interessa fare. 

Terzo giorno arrivato, bisogna raschiare. Ho paura di poche cose, una di queste è addormentarmi. Io dormo e loro mi puliscono, io dormo e loro mi liberano dalla morte. Quando mi sveglierò niente più cellule appassite, niente più evoluzione interrotta, solo l’involucro, la bara che sono stata. E se non mi sveglierò? Prima di partire faccio la doccia a occhi chiusi per non guardare il gonfiore ingannevole del pube. Cosa ne sa l’utero di quello che è stato? Come dirgli di tornare alle sue dimensioni iniziali? Arrivo in ospedale già sedata, ho preso xanax, lo dico all’anestesista, vuole sapere quanto, vuole calibrare l’iniezione. In una prima stanza mi infilano qualcosa in vagina, non ricordo cosa, serve ad aprire il collo dell’utero, mi pare. Come quando inducono il parto per far nascere un bambino che non viene fuori, ma qui non c’è nessun bambino, qui bisogna solo tirare via quel che non sarà, un cominciamento, un ologramma. 

Nella seconda stanza sono in sei, bianchi, guantati, mascherati, sotto luci esplosive, indicano il lettino, il mio ruolo nella rappresentazione, la mia x sul palcoscenico. Comincio a tremare, mi stendo, alzo la testa all’indietro per supplicare l’anestesista: può iniettarmene un po’ alla volta così mi ci abituo? Chiedo senza più cognizione, senza accorgermi dell’assurdità di quello che dico. È marzo 2019 e doveva essere il mio terzo mese di gravidanza, avrei dovuto aspettare un secondo figlio che sarebbe nato a ottobre, e invece no.

Mi risveglio e mi dicono Ora può anche alzarsi sulle sue gambe (ma non è vero, viene da svenire), Ora deve solo far guarire il cuore (quanta retorica, cosa ne sanno loro se provo dolore al cuore?). Lo provo. 

Due mesi dopo il raschiamento non arriva il capoparto. Il capoparto è la prima mestruazione post-gravidanza a cui sarebbe il caso di cambiare nome, quando il parto non c’è stato. Io mi sento stanca, ho mal di pancia, sono sempre affannata, tra una settimana devo partire per lavoro e non voglio più sentirmi così. I medici mi chiedono se c’è la possibilità che io sia di nuovo incinta, se ho avuto rapporti non protetti. Non li ho avuti. Insistono, mi insinuano il dubbio, potrebbe essere successo qualcosa di cui non mi sono accorta? Sono stata capace di perdere le preziosissime cellule di embrione che avevo in custodia, di cos’altro sono capace? Di fare l’amore a mia insaputa? 

Faccia le betaHcG, così ci togliamo ogni dubbio, dice ginecologo3. E le beta sono alte. Non è possibile, dico io, d’improvviso più sicura, meno disponibile a prendermi la colpa. Non si resta incinta senza saperne niente. Sono un’adulta, non una ragazzina. C’è un altro motivo per cui le beta salgono?, chiedo. No, mi rispondono; solo per una gravidanza. Vi dico che non è possibile. Smettetela di usare quella parola, non è possibile. Controllo ecografico e ho ragione io: l’utero è vuoto, nessuna camera gestazionale, nessun sacco vitellino, nessun embrione. Vedete dottori? Avevo ragione, ve l’avevo detto. Sono stata buona, sono ancora vuota.

C’è però una macchia. È un residuo della scorsa gravidanza, dice Ginecologa1, bisogna ripetere il raschiamento. Non lo è, dice Ginecologa2, che ha operato il raschiamento. È una M.A.V.: una malformazione artero-venosa. Un groviglio di capillari irrorati di sangue che si moltiplicano in una zona dell’utero, appoggiati su qualcosa, non sappiamo bene cosa e perché. Qualcosa che è rimasta lì e che va tolta. Come si toglie? Proviamo con un’isteroscopia operativa. Che significa? Che cos’è? Un’operazione, sarà un po’ doloroso. Ma resterò sveglia? . Allora va benissimo. 

Ne faccio una a giugno, una a luglio, una a settembre 2019. Il professore che mi opera ha vinto l’isteroscopio d’oro, mi dicono, e la notizia mi solletica una ridarella poco elegante che non riesco a trattenere; lui mi calma con sportività, promettendomi un punteggio per ogni volta che mi stenderò sul lettino, e alla fine avrò vinto un peluche. A ogni operazione sono in cinque, tutti a dirmi quanto sono brava a sopportare il dolore, tutti a ripetere Ancora un po’, ci siamo quasi, resisti ancora un po’. Il professore vuole andare più a fondo, scavare, ma Ginecologa2 lo ferma per timore di un’emorragia. I capillari sono lì, se li tocchiamo mi dissanguo. Dopo ogni operazione ripeto le beta, scendono di poco ma non si azzerano: sono sempre incinta, dice il mio corpo. Passano i mesi, non c’è nessuna pancia, non c’è nessun embrione, nessun feto, nessun bambino, ma io sono sempre incinta. Ogni sabato pago il prelievo alla cassa dell’ospedale per controllare le beta e il cassiere mi chiede: il solito? 

Dalla biopsia capiscono cos’è che non va via: il trofoblasto, l’origine della placenta, che si è innestato nella parete dell’utero, ha messo radici, e non molla. La M.A.V. si è aggrovigliata su di lui. Per il mio corpo se c’è il trofoblasto vuol dire che c’è una gravidanza, perciò continua a comportarsi come se così fosse ed ecco perché i valori della beta non scendono. Prima dell’ultima operazione decidono che può aiutarci la menopausa. In menopausa l’utero si atrofizza e può sputare fuori queste cellule aliene. Mi prescrivono l’Enantone, un farmaco che inibisce la mia attività riproduttiva. Dovrebbe fermare il sangue, asciugare i vasi sanguigni, spegnere la vita del trofoblasto, prosciugarmi da dentro. Come un rinsecchimento: non dare più linfa alle forme di vita impazzite, come un invecchiamento precoce. 

E in effetti ho le nausee, e le vampate di calore, e ingrasso e sono sempre arrabbiata. In menopausa e incinta contemporaneamente, una beffa, uno scherzo di cattivo gusto. Il prosciugamento non funziona, sanguinerò sempre, sanguinerò per dieci mesi di seguito, tortura cinese in forma di mestruazione costante, il contrario di quello che sarebbe dovuto accadere: se sei una donna che partorisce le mestruazioni scompaiono, se sei una donna che abortisce e per di più non si ripulisce possono restare lì a ricordartelo ogni santo giorno. 

Per la terza operazione si aggiungono degli studenti americani, il professore mi opera illustrando in inglese la rarità di quello che sta facendo, li guardo annuire concentrati, io a gambe aperte, buco all’aria, strumenti infilati dentro, corpo cavo che si rifiuta di svuotarsi definitivamente, di lasciare andare, di restituirsi a me, di lasciarmi in pace. Puzza di bruciato ogni volta che mi cauterizzano, sono io che caccio fumo, è la mia carne che prende fuoco. Quando ha finito il dottore mi infila una pallottola di garza in vagina, che in poco tempo si impregna di sangue e si gonfia. Più tardi riuscire a tirarla fuori sarà la cosa più vicina a un parto che avrò vissuto in questi mesi.

Una terza immagine della maternità è dare alla luce. Bisogna ammettere che è così intensa e suggestiva che diventa complicato contrapporle altro, per esempio l’oscurità che avvolge il corpo di una donna che deve fare lo sforzo incredibile, subire il dolore imparagonabile con qualsiasi altro di rigettare una massa di 50 centimetri per 3 kg (Andrea ne pesava 4) da una fessura minuscola. Una fessura di piacere, quella che fino a ieri non era che un gioco erotico o al massimo una rappresentazione stilistica e che si trasforma in una via di fuga per la sopravvivenza: per sopravvivere occorre che si spalanchi, occorre si deformi e si laceri e lasci passare il corpo estraneo che non può più ospitare pena la morte di entrambi. Quando ho partorito Andrea il mio travaglio durava ormai da ventisei ore, la dilatazione non arrivava seppure sollecitata da ossitocina e mille altre diavolerie, e infine il periodo espulsivo andò avanti per cinque ore. Una testa incastrata in vagina per cinque ore. Mai più urlato e tremato come quella notte. Venne fuori che era l’alba (e poi ci sarebbe stato il secondamento, e poi i punti da cucire). Non mi sembrò di aver dato alla luce, mi sembrò di essermi spezzata in due per sempre. Per tre mesi piansi ogni volta che facevo pipì. Ebbi incubi per un anno intero. 

Il giorno in cui le beta finalmente si azzerano mancano solo due settimane all’anniversario del test della mia seconda gravidanza. Quella tanto voluta, accolta con gioia, ingenuità ed eccitazione, che credevo avrebbe reso di nuovo me madre e mio marito padre e soprattutto mio figlio fratello maggiore e invece mi aveva resa una donna che abortisce. Da lì in poi sarei rimasta per lungo tempo solo questo: una donna che abortisce. È gennaio 2020 e io provo ancora a credere sia stato solo un caso, un brutto caso del destino, ancora mi sento dire Signora è stata molto sfortunata, e Quello che le è capitato è un evento rarissimo e Si figuri che alcuni medici neanche sanno cosa sia una M.A.V. ma anche Meglio così, mi creda, se la gravidanza fosse proseguita lei avrebbe rischiato la vita

Ma il caso si ripresenta. Il secondo aborto, la terza gravidanza, arriva il giorno del compleanno di mio figlio, il 19 giugno 2020. Ci sono le foto di me con un sorriso tirato che spengo le candeline insieme a lui e apro i regali insieme a lui e ringrazio gli invitati insieme a lui e tra un gesto e l’altro corro in bagno a cambiare l’assorbente, perché perdo molto sangue. Sono trascorsi sei mesi da quando mi hanno dichiarata “completamente guarita”, senza M.A.V., senza residui nell’utero, senza menopausa, una normale donna di trentacinque anni ancora in età riproduttiva: Può riprovarci quando vuole, signora. È come se nulla fosse successo. È pulita, l’utero è intatto. È come nuova.

Sei mesi sembravano un tempo giusto, sembrava potessimo “ricominciare a provare”. Provare è un verbo che solo da qualche anno si lega alla volontà di avere figli. Pare che prima non ci fosse nulla da provare, prima i figli c’erano e basta, oppure non c’erano e basta, e questo teneva soddisfazioni e sofferenze in penombra, ognuno conosceva le proprie e gli altri potevano solo intuirle, se ce n’era motivo, oppure ci si faceva la propria vita per come veniva, senza intellettualizzare il corpo, senza analizzare desideri e disillusioni, senza ricercare felicità ed elaborare dolori. Un’epoca più solitaria, chiusa e non empatica, in cui forse mi sarebbe piaciuto vivere se avesse significato non essere più guidata da questa volontà caparbia e indisciplinata di avere figli. 

Per me, comunque, pare non ci sia bisogno di provare. Mi basta pensarci anche solo una volta, che voglio un figlio. Ci penso, ho rapporti non protetti con mio marito, anche solo uno, e il mese dopo il test di gravidanza si colora. È successo per quattro gravidanze tranne una, la prima, quella che mi ha dato Andrea e che ha colorato il test dopo diversi mesi di tentativi. Questo prodigio della fecondità è forse l’aspetto più crudele di quello che mi è successo, la continua illusione che basta volere per potere, come un banale slogan anni ’80 che non ti avvisa di quello che invece accadrà. 

I nove mesi di gravidanza sono universalmente scanditi da tappe e convenzioni, probabilmente la sorte più ovvia per un evento che accade dalla notte dei tempi, come tutti continuano a ripetere. Per scaramanzia non si annuncia niente prima dei tre mesi, e non si acquista niente prima del settimo mese per lo stesso motivo, e si insinua di non avere preferenze tra figli maschi e figlie femmine, basta che sia sano, e ci si commuove al primo ausculto del battito e si inviano le foto delle ecografie ad amici e parenti prossimi. Deviare strada, tenersi lontana dalla traccia non è auspicabile dalla società e neanche tu lo vuoi davvero. E per quanto possa dirti preoccupata e sentirti stordita, per quanto possa dimostrarti ansiosa, anche quella è una convenzione, e mai davvero pensi che non farai parte della moltitudine, che non sarai in grado di tenere il passo. Quando invece succede, è come inciampare in uno squarcio dell’asfalto che, avresti giurato, un attimo prima non c’era.

Stavolta comunque l’aborto è spontaneo e naturale, va via tutto da solo, un paio di settimane e sono pulita, la beta azzerata, di nuovo vuota, pronta, come nuova, riproduttiva. È stato solo un caso, mi dicono di nuovo con le stesse parole e con una tranquillità invidiabile, quasi a volerlo più loro di me, a non arrendersi di fronte a questa donna ancora clinicamente giovane e così sfortunata. Questo tipo di aborti si chiamano chimici: arrivano molto presto, vanno via da soli, si figuri che ci sono donne che neanche se ne accorgono, li scambiano per normali mestruazioni, solo più abbondanti. In un anno può accadere anche due o tre volte. Ricominci, ricominci senza paura.

Va bene, mi dico, fiducia nella scienza, niente superstizioni, niente elaborazione di lutti, è solo un embrione e lo so bene, no? Non facciamo drammi inutili. Sono di nuovo fertile, sono i giorni giusti, amo mio marito, che ci vuole a fare l’amore, sicura che te la senti, mi chiede lui, ma certo che me la sento, l’amore è bello no?, e a luglio il test di gravidanza si colora di nuovo. La terza volta al primo colpo, senza neanche una pausa dall’aborto di giugno. È un miracolo che mi sta ripagando per il dolore subito o è la maledizione che ormai sono certa che sia? 

È una condizione clinicamente senza spiegazioni ma statisticamente rilevata, mi diranno poi le Ginecologhe4e5 all’Ambulatorio Aborti Ricorrenti del Policlinico Gemelli, quando nel 2021 farò mille esami che non riscontreranno mai alcuna falla, al termine dei quali mi sentirò di nuovo dire: Ci riprovi, non c’è nessun problema. È solo un caso. È solo sfortuna. Lo sanno che sta succedendo troppo spesso, ma lei è sana, insistono, non evidenziano niente che non va. Possono offrirmi solo un nome, per quello che mi capita, e il nome è “infertilità secondaria”: una donna che ha già avuto figli in maniera naturale e che per questo si considera fertile e invece non riesce a esserlo più. Una condizione senza motivazioni, un’etichetta costituita dalla parola che tutte quelle che desiderano figli temono come nessun’altra.

Quarta immagine della maternità: destino. Con la psicologa ragioniamo molto attorno al concetto di destino, a cui io mi lascio andare con molta difficoltà, come con tutto ciò che non so controllare e non so spiegare e non so capire. Destino, caso. Quel che dovrà accadere accadrà, se è successo quel che è successo un motivo ci sarà, se continui a restare incinta è perché così deve andare. Pensiero magico. Rassegnazione. Speranza. Tutti sentimenti per cui ci vuole fede, ci vuole credenza, ci vuole accettare che non dipende da me. Sono io a voler diventare madre ma non sono io a poter fare in modo che accada. Lasciarsi andare alla vita. Forze e debolezze della natura. Fortuna e sfortuna. 

La sfortuna del mio terzo aborto, della mia quarta gravidanza, è che stavolta non va via da sola. Il cuore non si ferma, quindi non è un aborto ritenuto; il sangue non esce a ripulire, quindi non è un aborto spontaneo. Tutto procede, ma qualcosa non va come dovrebbe e ancora una volta non sappiamo cosa. La beta non raddoppia ogni due giorni come naturale, si ferma intorno ai 2000, aggiungendo poche decine o centinaia a ogni ricontrollo. Dall’ecografia sembra ci sia un po’ troppo liquido amniotico, e sembra che il sacco vitellino sia un po’ troppo grande: entrambi possibili segnali di una malformazione genetica. E infine dalle analisi risulta un progesterone un po’ troppo basso. Il caso, il mio destino in equilibrio sull’avverbio un po’

Il 10 agosto del 2020, il giorno del mio trentaseiesimo compleanno, corro a Roma per un’ecografia di secondo livello in un centro iper-specializzato di un professore super-blasonato che forse può dirmi meglio che cos’ha questo embrione, se è malato, se andrà via da solo, o se forse non sia meglio fare da me, come l’ansia di rimanere di nuovo inghiottita in un incubo mi suggerisce, piuttosto che aspettare di vivere un’altra morte che fa cucù dall’ecografo, un altro raschiamento, un’altra post operazione, altri 40 giorni di ripresa, altri controlli delle stramaledette beta: il mio personale bollettino di guerra: dover essere felice quando vanno su perché significano gravidanza, dover essere felice quando vanno giù perché significano pulizia. Una montagna russa lentissima e fuori controllo, che sta divorando la mia sanità mentale e mi costringe a una guerra civile tra determinazione e sopravvivenza. Determinazione mia, sopravvivenza anche.  

Lo possiamo aiutare è la risposta del blasonato. Ma anche: Tanto se ci sono problemi molto probabilmente andrà via da solo dopo l’undicesima settimana. E però a undici settimane in Italia l’aborto volontario o è chirurgico o non è. Anzi già dopo la nona, cioè tra due giorni. Anzi tra un giorno solo perché tra due il dottore di turno del mio ospedale è un obiettore. Non posso sopportare un altro raschiamento, non posso sopportare nessun’altra operazione che preveda la mia vagina, il mio utero, qualsiasi cosa ci sia sotto la linea dell’ombelico. Ho ventiquattro ore di tempo per scegliere se avere un aborto farmacologico e risparmiarmi almeno tutto il resto, e scelgo di sì. 

Nelle settimane precedenti la possibilità della farmacologia era stata il mio pensiero fisso, più della gravidanza e della salute dell’embrione, che davo già per perso, più di quello che ne sarebbe stato di me e del futuro, che a quel punto sembrava ormai poter solo certificare l’impossibilità di procreare – ma perché? Mi chiedevo sempre, ho Andrea, un figlio ben fatto, intelligente, bello, ho le prove, lui è la mia prova: sono capace di fare da madre –; il mio pensiero era tutto rivolto a me e al mio corpo: non voglio più essere toccata, non voglio attrezzi che mi scavano, non voglio lettini, non voglio aprire le gambe. Me le incollo, giuro che me le incollo se provate a toccarmi.

Ero per questo già stata al consultorio a chiedere cosa avrei dovuto fare se avessi voluto prendere la RU-486. Ed ecco cosa: colloquio con ostetrica, colloquio con assistente sociale, colloquio con ginecologa, che però è un’obiettrice (come può, mi chiedo ancora adesso, come può una ginecologa obiettrice lavorare in un consultorio?). Tre persone addette alla maternità che devono dirmi di sì, accettare le mie motivazioni, che ho la fortuna (caso? Destino?) essere commoventi. Tre estranee che hanno il potere di decidere del mio corpo, di quello che mi aspetta. Che ci mettono la firma. Senza la loro firma, niente pillola abortiva.

Il permesso lo ottengo, dopo giorni di attesa e andirivieni, con l’embrione ancora nella pancia, ancora che batte e cresce e potrebbe farcela se lo aiutiamo. Senso di colpa perché non credo in lui, senso di colpa perché mentre lui moltiplica stentatamente le sue cellule io penso a come liberarmene senza soffrire troppo, senso di colpa perché sto per fallire di nuovo, è la terza volta che dovrei fare un figlio e non lo faccio, è incredibile, non posso crederci, cosa mi è successo, che problemi ho, non mi vergogno? 

E con quel permesso custodito come un gioiello e con la troppo fragile promessa del poterlo aiutare entro in ospedale alle 23:00 dell’11 agosto 2020 (la ginecologa non obiettrice ha il turno di notte) e ingoio la prima delle pillole che costituiscono l’aborto farmacologico, quella che inibisce il progesterone, che ferma gli eventi. In corridoio mi aspetta mia madre, in macchina mio marito con mio figlio che crede io abbia un misterioso mal di pancia cominciato a gennaio 2019 e dopo un anno e mezzo non ancora risolto. Una volta usciti ci sediamo su una panchina di fronte al mare, tutti e quattro stretti, Andrea si addormenta, io piango, mia madre mi tiene la mano, mio marito mi stringe: la mia famiglia è tutta qui, siamo noi. Eppure non mi basta, avrei voluto altro, ne avrei voluta ancora. Senso di colpa del non sapersi accontentare. 

Fin da ragazzina volevo avere figli perché una famiglia mi era mancata. Molto banale, molto vero. Ognuna nella scelta di maternità/non maternità fa i conti con il luogo da cui proviene e con quello in cui cerca di arrivare. E forse l’emancipazione è sempre la bussola: dai propri genitori o non genitori, dal paese asfittico che ti voleva sposata e con prole, dalla rete di conoscenze che del non desiderio genitoriale ne fa punto di merito e dimostrazione di intelligenza, dal proprio corpo, dall’idea che gli altri hanno di noi, dalla pretesa che i figli si fanno per donare la vita: quinta immagine della maternità. Non è onesta. I figli si fanno o non si fanno per sé e soltanto per sé. Li vuoi e li fai per te stessa, non li vuoi e non li fai per te stessa. Emanciparsi dagli arzigogoli, evitare di darsi un tono, ammettere le proprie spinte infantili. Francesca tu perché vuoi avere così disperatamente dei figli? Perché non lo sono stata. 

Ormai sono pallida, scheletrica, poco lucida, ho l’emoglobina bassissima, e il 13 agosto torno in ospedale per la seconda pillola, quella che porta le contrazioni, induce la perdita del “materiale”, insomma ancora sangue. Resto in reparto per cinque ore, mi mettono in una stanza dove sono sola, e grazie a questa accortezza per la prima volta in questi anni mi sento fortunata: so di donne che abortiscono assegnate a stanze in condivisione con le partorienti, una specie di sadica manifestazione plastica della convivenza tra vita e morte, in cui se hai abortito tu interpreti la morte. 

Le ore passano, ancora il tempo di controllare si sia tutto fermato, sia andato via il grosso. È andato via, sì. Ho mandato via qualcosa che forse potevo aiutare ma che quasi sicuramente no. E non ho più forze. Non ce la faccio più. Non riesco più a pensare, ho perso la capacità di ragionare, di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa fa bene e cosa no, cosa sono in grado di fare, cosa voglio e perché, chi sono. E finalmente mi fermo. E finalmente mi fermano anche loro. Non riprovarci prima di un anno, mi dicono. Riposati, fai riposare gli organi, riprenditi, assumi vitamine, ferro, integratori. Stai bene, cerca di stare bene.

Il 2021 è il mio anno di riposo e oblio. Ripiombo nel lavoro, torno a essere più presente con Andrea, faccio una lunghissima vacanza estiva piena di risate e alcol a tutte le ore. Mi iscrivo ad acqua gym, ricompaiono gli addominali, mi fotografo come non facevo da tempo, orgogliosa di quel territorio di mezzo tra il pube e il seno che mi pareva ormai di riuscire a immaginare solo in forma gonfiata, in versione ripiena, e che invece può essere così sano e sexy a lasciar intravedere le ossa e la discesa morbida tra la vita stretta e la curvatura dei fianchi, e l’ombelico seminascosto, che spunta presuntuoso dalle magliette corte, dai pantaloni a vita bassa.

È dal corpo che ho ricominciato. È sempre lì che si torna? Ragionare non basta, controllare è impossibile, misurare e analizzare forse persino inutile. Intellettualizzare il bisogno una magra sfiducia in sé, una disistima. Meglio dirsi la verità. A settembre 2021 varco lo studio della psicologa per la prima volta. Sono lì per raccontarle tutto, per confessarle che nonostante le mie convinzioni e i miei razionalismi e tutto quello che leggo e le battaglie di emancipazione che combatto sono andata in pezzi perché ho perso tre promesse di figli. Una dopo l’altra, come un domino che va giù. E che non mi bastano le spiegazioni e le accettazioni dei vari caso, sfortuna, destino. Sento un vuoto in mezzo alla pancia, è una mancanza fisica, una non-cosa che mi ha resa più fragile. 

Sono lì ad aggiustare questo vuoto da neanche un mese, quando scopro che a giugno 2022 arriverà Marea. Il caso, la fortuna, il destino. Il nome viene fuori da questo, da una forza che io non posso controllare, alla quale non posso fare altro che abbandonarmi. Che mi sommergerà se si alzerà a dismisura o mi lascerà asciutta se si abbasserà fino a richiamarsi tutta l’acqua, e io microscopica in mezzo alla sabbia ingigantita ed estesa, a misurarmi con la solitudine, l’interruzione, il vuoto, la vastità del mondo in confronto alle mie volontà. E però ok, accetto di nuovo la sfida. La quinta volta. È più forte di me, continuo a volerlo, ho la matematica contro, la storia contro, la natura contro ma una caparbietà, una determinazione che neanche conoscevo, che per un periodo ho temuto non fosse sana, fosse la mia crepa, ostentasse la mia infinita non guarigione, quella del corpo degli ultimi anni, quella della non-infanzia che è lì da sempre.

Ma non è vero che volere figli è un’ossessione, come avevo creduto. E non è vero che ne ho tanto voluto un altro perché non so stare ferma, come mi ero accusata di fare. Ognuno si risolve come sa e come può. Ognuno ha un ultimo giorno in cui chiuderà gli occhi e si guarderà indietro e farà i conti con quello che ha lasciato. Io voglio lasciare la potenzialità della felicità. Voglio una bella famiglia. Non mi interessa scrivere libri, fare musica e arte, far conoscere la mia firma, far ricordare il mio nome. Quello che voglio è mettere al mondo degli esseri umani che possano essere stati felici da bambini, più felici di come sono stata io. È poco, eppure ci sarà un motivo se la felicità costa così tanto. Voglio poter dire di aver pagato il prezzo, e che adesso ce la meritiamo tutti. 

Femminismo post parto

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Sì, perché spesso è la maternità a imporre limiti e decisioni. Per molte è il momento di una solitudine strana, una solitudine che suona colpevole e sbagliata, che ti si apre davanti nel momento in cui ti ritrovi inchiodata a responsabilità e doveri che fino a un attimo prima ti erano sconosciuti. Tu, e soltanto tu.

Perché dall’istante successivo al parto, tutti si aspetteranno che sia la madre a sapere che cosa fare, e poi nel caso spiegarlo con pazienza al padre. Tutti si aspetteranno che sia la madre a fare sempre la cosa giusta, a sacrificare ore di sonno, ad azzeccare ogni diagnosi come un medico esperto, a sapere come far scomparire le coliche, come calmarlo, come nutrirlo, come decifrare il pianto con la stele di Rosetta dell’istinto materno.

A un certo punto, però, ho scoperto che il mio femminismo era passato proprio da lì, da quella solitudine imposta e riscoperta, da quell’impossibilità di trovare l’approvazione altrui. Da quel bisogno improvviso di fidarmi di me stessa, senza aspettare il permesso delle persone intorno a me. E non solo quando mi davano dell’isterica perché correvo dal medico e poi si scopriva che avevo ragione io. Non solo quando mi sembrava di essere la madre peggiore del mondo. Quella solitudine era necessaria anche quando volevo lavorare, quando provavo a ritagliarmi spazi per me, quando sfuggivo, a poco a poco, alla maternità e decidevo che ogni tanto, almeno ogni tanto, venivo prima io. Anche se era necessario soltanto a me.

Per non dimenticare i propri sogni, ogni tanto bisogna dimenticarsi di essere madre. Ogni tanto. Ogni tanto i figli e la famiglia devono uscire dalla nostra testa per fare spazio al resto. E non significa trascurare nessuno, non significa essere egoiste, non è l’anticamera del “E allora i figli che cosa li hai fatti a fare?”. Di certo non significa che l’amore sia meno o meno importante. Non significa che alla prima emergenza non si possa essere lì con loro, anche se l’emergenza è che a Batman si è staccata la testa e se l’è mangiata il cane. Non significa essere meno mamma. Significa essere mamma in un modo diverso, senza perdere di vista se stesse, per esserci davvero, al cento per cento, io e tutti i miei sogni, quelli che coltivo quando non penso a loro e non posso stare con loro, perché i sogni sono esigenti e ti sfiancano e ti costringono a equilibri impossibili e se sei donna ti tolgono sempre qualcosa di più di quello che tolgono a un uomo, ma una famiglia senza sogni è una famiglia triste.  E una famiglia senza i miei sogni è una famiglia senza di me.

Così ho imparato, anzi no, sto imparando, ad aggiungere un posto a tavola per i miei sogni, accanto a quello che c’è sempre stato per i sogni di mio marito e accanto alle decine di posti già apparecchiati per i sogni dei miei figli. Ed è stato faticoso, mi ha fatta sentire colpevole, ho tolto e rimesso quel piatto centinaia di volte, ci sono stati giorni in cui l’ho spaccato per la frustrazione, altri in cui ho usato un piattino di plastica sperando di sentirmi meno in colpa. Ma ho tenuto duro e l’ho lasciato lì.

La strada per i miei sogni passa per la solitudine, la solitudine che prova a volte una donna quando decide di non aver bisogno del permesso e dell’approvazione di nessuno, solo del proprio. Dobbiamo imparare a fidarci di quella solitudine, nascosta sotto la sensazione di essere tutte sbagliate, e a trasformarla in forza e fiducia. Perché è lì, sotto strati e strati di doveri e ruoli imposti da una società pensata per gli uomini e dagli uomini, è lì che inizia il cammino verso i nostri sogni. E a volte anche verso noi stesse.

Madre? Presente

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“Non ho tempo.”

“Magari quando sarà più grande.”

“Mi sono licenziata. Solo per qualche anno, finché i miei figli hanno bisogno di me.”

Certo, i nostri figli hanno bisogno di noi. Non solo. I nostri figli hanno sempre bisogno di noi. E quando loro smettono, a quel punto siamo noi che non siamo più capaci di fare a meno del loro bisogno, come pupazzi caricati a molla che non hanno più un posto dove andare.

“No, non posso lasciarlo con il padre e partire. Non me la sento. Magari fra un paio d’anni, quando sarà più grande.” “Ma fra un paio d’anni sarà maggiorenne!” “Sì, l’adolescenza è un periodo difficile e lui e suo padre non si capiscono proprio. Così magari ci può accompagnare lui in macchina. Non sarebbe carino?”

“No, mi spiace, non posso fermarmi, devo andare di corsa a casa, Arturino torna dall’università e non gli ho lasciato il pranzo pronto.” “Non può aprire il frigo e prepararsi qualcosa?” “Oh, povero, no. È sempre così stanco quando arriva. Ieri è rimasto a studiare fino a tardi. Si sente così in colpa per essere di nuovo fuori corso.”

Dovrebbero avvisarci, come sui pacchetti delle sigarette. “Nuoce gravemente al tuo futuro.” Nel momento in cui decidiamo di fare un passo indietro, di restare a casa, di dedicarci ai nostri figli, dovrebbero spiegarcelo. “Sì sì, lo dicono tutte che possono smettere di restare a casa quando vogliono.” “Sai quante ne ho viste che cominciavano così, solo qualche mese, perché lo facevano le amiche, per curiosità, per provare, e poi a cinquant’anni si facevano di rosolio e scoprivano di avere buttato via la loro vita?”

C’è una cosa che dovremmo chiederci: lo facciamo davvero perché i nostri figli hanno bisogno di noi? O perché siamo stanche di sentirci in colpa? Perché non importa se poi passeremo la metà delle nostre giornate a guardare il Grande Fratello e a studiare ricette che non prepararemo mai, adesso che siamo a casa non dovremo più difenderci dalle accuse altrui, esplicite o silenziose. Abbiamo preso la nostra vita e i nostri sogni e le nostre ambizioni e li abbiamo immolati sull’altare dell’accettazione e della serenità familiare, perché era più facile che dover dimostrare costantemente che avevamo il diritto di farlo, perché sentire nostro marito brontolare ci logorava, perché così finalmente la maestra la smetterà di dire che se Luigino non legge bene è perché non si esercita abbastanza “a casa”, e che se finisce sempre in direzione è perché ha bisogno di affetto e vuole richiamare la nostra attenzione, e che se non pronuncia bene la S è per qualche motivo terribile che prelude a qualche sindrome terrificante e che la colpa è tutta della mamma.

La figura materna, l’affetto materno, le attenzioni materne, la presenza materna… sono la causa e il rimedio di ogni male. E così ci sacrifichiamo. Smettiamo di lavorare, restiamo in casa, non usciamo con le amiche perché il momento della buonanotte è fondamentale e non andiamo in palestra perché lì è pieno di donne che non hanno niente da fare e noi invece qualcosa da fare ce l’abbiamo eccome. Dobbiamo portare il bambino a inglese e poi a scherma e poi dal logopedista per quella cazzo di S che ha preso dalla famiglia del padre, non sia mai che a quarant’anni parli come nostro cognato, e in piscina perché suo padre ci tiene tanto che faccia sport; e non ci perdiamo un solo saggio di fine corso e andiamo a prenderlo a scuola e quando gli chiediamo come è andata ci risponde “Bene” e quando gli chiediamo che cosa ha fatto a scuola  dice “Cose” e quando gli chiediamo se è felice ci chiede se può giocare al videogioco, ma se non altro ci siamo, per la miseria. Ci-sia-mo. E nessuno potrà più venire a dirci che è tutta colpa nostra.

Abbiamo trasformato la nostra vita in un ex voto. Abbiamo rinunciato al nostro tempo a tutto quello che ci piaceva davvero, che ci faceva sognare, che ci faceva sentire importanti. Che ci rendeva perfino più orgogliose del saggio di danza in cui la creatura zompetta per cinque minuti con le orecchie da gatto. Quante volte hai peccato, madre? Cinque torte di farina integrale e due feste di compleanno fra i gonfiabili.

Sì, i nostri figli hanno bisogno di noi. Sì, daremmo qualunque cosa per vederli felici. Ma immolarci non è la soluzione. Anche se sembra l’unica che mette sempre tutti d’accordo. (Tranne noi.)

La maternità non è un bene comune

 

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Foto Paul Keller (CC)

«Sono la mamma di Giulio.»

Si presentò così, come se fosse a un colloquio con gli insegnanti della scuola di suo figlio, la mamma di Giulio Regeni, alla conferenza stampa.

Sono la mamma di Giulio. A ripensarci poi, forse quella frase di esordio era una sorta di sfida, in realtà, un grido di guerra. Sono la mamma di Giulio. Sono la mamma di quel viso su cui ho visto tutto il male del mondo. Sono sopravvissuta a quel dolore. Sono sopravvissuta a tutto il male del mondo e sopravviverò anche a voi e a chiunque cerchi di intralciare la mia battaglia.

La seconda volta in cui ho sentito usare la parola “mamma” in modo straziante fu in una situazione molto diversa. Ero in ospedale e la mia vicina di letto era una signora di novantatré anni che i medici avevano dato per spacciata. Ogni sera, prima della cena che la figlia le infilava in bocca a forza, assistevo a una sfilata di parenti benintenzionati che passavano a dirle addio; la fidanzata di uno dei tanti nipoti le disse teneramente che si sarebbe presa cura del ragazzone in questione. Non so chi abbia fatto un gesto scaramantico per primo, se lui o la nonna.

La notte, si sa, negli ospedali non si dorme. Io poi dormivo ancora meno, perché la signora stava male ma non aveva le forze per chiamare le infermiere, così lo facevo io al suo posto. E una notte l’ho sentita. «Addio» ha gridato all’improvviso, con una disperazione un po’ stupita, come se non capisse bene neanche lei che cosa le stesse succedendo. «Addio. Addio.» E poi, nel buio della stanza, con una voce improvvisamente stravolta dal bisogno, iniziò a chiamare la mamma. Non sua madre, non la figlia, non il nipote e di certo non la fidanzata del nipote. No, la mamma. «Mamma. Mamma!» gridò, senza più stupore, questa volta. Solo con una paura disperata e senza nome. Chiamò la mamma due o tre volte, poi si addormentò.

Il mattino dopo i medici dissero che no, si erano sbagliati, la signora forse ce l’avrebbe fatta, alla fine. All’ora di pranzo la mia vicina di letto era seduta in poltrona, impaziente di tornarsene a casa. Venne dimessa prima di me.

La maternità, mi direte voi, è tante cose. Per me è racchiusa tutta in quel grido e in quel bisogno. La maternità dà un nuovo volto all’amore, ma anche al dolore. La maternità è la prima voce che sentiamo quando si spalancano le distanze. La maternità è fatta di orgoglio e di sensi di colpa, intrecciati così stretti da non sapere più dove finisce il primo e incominciano gli altri. È fatta di assenze e del potere di sanarle, proprio come i baci che si portano via le piccole ferite e qualche volta anche le grandi. È un grido di guerra. È il nostro approdo sicuro quando dobbiamo scacciare la paura.

La maternità è tante cose, una per ogni persona. La maternità non è neanche necessariamente biologica. Ma di una cosa sono sicura. La maternità non ha niente a che spartire con le clessidre e con i videogiochi in cui gli spermatozoi corrono più veloci dei Minions. La maternità non c’entra niente con le pensioni di domani o con le babbucce bianche rosse e verdi. La maternità è così intima da avere addirittura qualcosa di impudico, a volte. La maternità è la nostra gioia più grande e il nostro dolore più grande. Parlare di fertilità senza passare per la maternità (e la paternità, ovviamente) non è solo riduttivo, è un insulto. La maternità non inizia e finisce nell’utero.

La maternità non è un bene comune e non lo sarà mai.