A Natale ogni sessismo (non) vale

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“Lei sì che è una furbona, il pranzo di Natale lo cucina suo marito.”

“Poveraccio, a tavola con tutte quelle donne, chissà che pazienza deve avere.”

“Adesso arriva, sai come sono le donne, sempre lì a farsi belle.”

“Ma cosa ci fate voi donne in giro oggi a quest’ora? Non dovreste essere a casa a cucinare per il cenone?”

“Siamo andati male da quando hanno iniziato a comandare le donne.”

“Non annoiamo gli uomini con i nostri discorsi da donne.”

“I gay sono più ricchi di noi perché non devono sempre fare regali alle proprie donne. Il loro è un rapporto alla pari.”

“È un vino da donne.”

“Per forza che le donne vivono più a lungo, fanno la bella vita mentre il marito si alza alle cinque per andare a lavorare.”

“Alcune donne le meritano, le mazzate.”

“L’avesse detto a me, l’avrei messa incinta.”

“Cara, hai davvero una bella casa e come la tieni in ordine, brava!”

“Eh no, a Natale no, per favore. Non fare la femminista anche oggi.”

Ed è allora, quando ti accusano di essere ostile e astiosa e di rovinare il pranzo a tutti, che ti rendi conto che la trappola peggiore che si possa tendere al femminismo è dare per scontato che le nostre battaglie debbano finire dove inizia l’armonia familiare. E di quanto sia facile caderci, in quella trappola, invece di pretendere una nuova armonia costruita attorno alle nostre battaglie, non al loro posto.

Puoi criticare una battuta volgare, puoi criticare una battuta razzista, qualche volta perfino una omofoba (anche se qui il terreno si fa più impervio), ma nell’istante in cui critichi una frase sessista non sei più un’idealista che lotta per quel che è giusto, solo una rompiscatole che impedisce agli altri di stare tranquilli e di godersi la festa.

No, a Natale ogni sessismo non vale. Se è sbagliato dietro lo striscione dell’8 marzo, è sbagliato sempre, anche dietro il panettone del pranzo in famiglia. E se lo facciamo notare non siamo musone e scontente, siamo solo così ottimiste e sognatrici da volerlo davvero, quel mondo migliore di cui parlano i biglietti di auguri.

 

Una slitta carica carica di…

 

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Caro Babbo Natale,

quest’anno vorrei che la mamma e il papà non mi dicessero più che devo essere carina con tutti e che il bambino di seconda mi tira i capelli perché in realtà gli piaccio e di dare un bacino a quel signore che mi fa sempre il solletico in un modo che mi dà fastidio;

vorrei che la mamma non mi dicesse tutto il tempo di tirare giù la gonna e di stare attenta a non mostrare le mutandine e di chiudere le gambe, mentre a mio fratello non dice mai niente;

vorrei che i miei genitori la smettessero di ripetermi che ho un caratteraccio e che non troverò mai un fidanzato, ogni volta che dico come la penso;

vorrei poter spiegare al prof di ginnastica che ho le mestruazioni e alla prof di mate che devo andare a cambiare l’assorbente, senza dover inventare ogni volta un sacco di scuse, neanche mi fossi fatta la pipì addosso;

vorrei che i ragazzi e gli uomini non pensassero che le mie tette sono un biglietto omaggio per il cinema e che possono fissarle quanto gli pare, che a volte mi verrebbe da chiedere se vogliono anche i popcorn;

vorrei che i prof mi prendessero sul serio all’università quando parlo, senza sorrisetti condiscendenti, vorrei non dover usare un tono due volte più serio e più deciso dei maschi per dimostrare che valgo qualcosa;

vorrei che la gente intorno a me non desse per scontato che io sia disponibile, accogliente e gradevole, e che le mie proteste e la mia rabbia non venissero sempre spacciate per capricci lamentosi;

vorrei poter raccontare alle mie amiche che mio marito mi fa sentire inutile e di quella volta che ha alzato le mani oltre alla voce, senza sentirmi rispondere che devo sopportare, che in coppia si fanno dei sacrifici e che qualcosa avrò fatto per meritarmelo e dovrei essere un po’ più premurosa e tollerante con lui;

vorrei che tutti capissero che se hai paura è sempre violenza;

vorrei che la smettessero di chiedermi quando faccio un figlio;

vorrei smettere di pensare che se sto male è perché sono sbagliata io e non il mondo in cui non posso dirlo, che sto male.

Ma se tu non puoi, allora carica la slitta di tutta la sorellanza che trovi, di ogni momento in cui le donne si sono tese la mano, hanno ascoltato, consolato e sostenuto altre donne, di tutte le chiacchiere che ci hanno salvato, di tutte le nostre risate e le nostre voci e le nostre storie, quelle che nessuno vuole ascoltare. Riempi il sacco di quella cosa meravigliosa e magica che sono le donne che sognano e combattono e si divertono insieme, che si riconoscono nel dolore delle altre perché sanno che quel dolore è donna e pesa su ciascuna di noi, anche su chi non vuole sentire, anche su chi finge che non sia così, anche su chi ci prova e sbaglia ogni volta. Perché se ti succede in quanto donna, allora è successo a tutte quante, e solo quando smetteremo di sentirci sole e sbagliate il mondo intorno a noi sarà diverso e ci assomiglierà di più. Lascia cadere un po’ di quella sorellanza in ogni camino, mettine un po’ sotto ogni albero, e al resto penseremo noi. Grazie.

 

Una femminista alle prese con il Natale

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“Sicura?”

“Sicurissima, mamma.”

“Non preferisci Il laboratorio di meccanica? Il libro sulle bambine ribelli? Un completo da calcio?”

“Io non gioco a calcio.”

“Ma potresti! Lo sai vero che potresti?”

“…”

“La biografia di Frida Kahlo?”

“Ce l’ho già, mamma.”

“Davvero?”

“Era in Donne forti e ribelli che tua figlia dovrebbe conoscere se non vuoi che faccia la tua fine.”

“E dov’è finita?”

“L’ho usata per costruire un letto a baldacchino all’orsetto.”

“…”

“…”

“Tuo fratello ha chiesto un fucile, un robot distruggitutto e una macchina telecomandata. Tu vuoi la bambola da truccare e pettinare, lo smalto per le unghie, la cagnolina con il fiocco rosa e il kit per le collanine. Dove ho sbagliato? È colpa delle cattive compagnie? L’avevo detto che dovevamo fare il presepe femminista quest’anno.”

“Se vuoi puoi metterci il fiocco azzurro alla cagnolina, mamma, se ti fa stare meglio.”

Se le mamme femministe ricevessero la pagella, arriverebbe a dicembre, sotto forma di letterina a Babbo Natale dei figli. E in poche, confessiamolo, avremmo la sufficienza. Fra fiocchetti, pistole, confezioni regalo più esplicite del cartello sulla porta di un bagno pubblico (fucsia, rosa e bianco verginale da una parte; blu, arancione e rosso sterminatore dall’altro), tutti i nostri sforzi si disperdono come lo zucchero a velo del pandoro su un maglione nero. Noi possiamo anche ignorare sprezzanti i cataloghi divisi stile spogliatoio, Giochi per femmine e Giochi per maschi, ma i nostri figli no. Loro non hanno neanche bisogno di leggerle, le indicazioni. Aprono il catalogo a caso e puntano il dito. E sarebbero capaci di trovarla a occhi chiusi quella Barbie anoressica vestita da velina o quel fucile combat a canne mozze che farebbe scappare Rambo a gambe levate.

Poi per fortuna arrivano gli esami di riparazione. Ed è quando li vedi giocare e scopri che tua figlia ha fatto la cresta punk verde alla bambola e ha usato lo smalto viola per tatuarle il simbolo femminista sulla guancia e che tuo figlio ha messo al robot distruggitutto una delle collanine rosa che gli ha regalato sua sorella e ne porta un’altra al collo, che puoi tirare un sospiro di sollievo.

Non hanno vinto i cataloghi, non abbiamo vinto neanche noi, hanno vinto loro. Per fortuna. E sono pronta a scommettere che a furia di dormire sopra la biografia di Frida Kahlo, anche l’orsetto abbia dato il suo contributo.

L’incredibile caso del furto del lieto fine

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I  pubblicitari le inseguono, i politici le blandiscono, il merchandising le scimmiotta, lo storytelling le esibisce come trofei. Le emozioni sono l’ultima frontiera della privacy, la chiave d’accesso ai nostri sogni più segreti, pronti per essere trasformati in denaro sonante.

E fin qui niente di male o almeno niente di nuovo, se non fosse che per l’altra metà del cielo le cose finora sono andate in modo ben diverso. Quante di noi sono cresciute imparando a nascondere le proprie emozioni, se volevamo sembrare credibili ed efficienti? Quante volte ci siamo sentite ripetere che le donne che si emozionano sono irrazionali, inaffidabili, fragili, isteriche, umorali? E quando leggono per emozionarsi sono superficiali, retrograde, disimpegnate? Ci hanno insegnato a diffidare dalle emozioni, a nascondere i nostri sogni dietro lo strofinaccio o almeno dietro un atteggiamento pratico e concreto. I have a dream sulle labbra di una donna sarebbe suonato ingenuo e sconveniente. Se Hillary Clinton avesse detto Yes we can probabilmente le avrebbero consigliato di smetterla con i romanzi rosa. Stay hungry stay foolish scandito da Ellen DeGeneres sarebbe stato preso come un inno alla dieta gridato nel pieno di una crisi isterica.

Di recente, una foto di Mark Zuckerberg alle prese con un pannolino ha fatto strage di like e condivisioni. Roba da non crederci. Qualunque donna si sia cimentata nell’impresa di lavorare con un bimbo piccolo in casa sa bene che il pargolo va nascosto come la peste davanti ai clienti, se si vuole conservare un minimo di credibilità. Io per mesi ho tenuto un pacchetto di biscotti vicino al telefono, da cacciare in bocca a mia figlia al primo accenno di vagito in caso di conversazione di lavoro, altro che fotografarmi con il pannolino in spalla e dire che ne avevo cambiato uno ma la strada era ancora costellata di cacche.

Insomma, donne, facciamoci furbe, non lasciamoci fregare in questo modo le emozioni dal genere maschile, dai padri tatuati e teneroni che impazzano su Instagram e dai politici che campano sul valore comunicativo dell’happy end, dopo che per anni il rosa è stato bollato per lo stesso motivo.

I pannolini possono pure tenerseli, ma i sogni e il lieto fine li rivogliamo indietro. Noi ci crediamo da un bel pezzo. Non solo, teniamo in piedi una gran fetta dell’editoria credendoci e ci crediamo soprattutto perché crediamo in noi stesse, nei nostri sogni, nelle nostre emozioni. Perché ben vengano le donne astronauta o le donne in carriera o qualunque figura femminile in una posizione considerata maschile. Ma se salveranno la società dagli stereotipi di genere, non serviranno a salvare ciascuna di noi. Nel profondo, infatti, quello che ci serve è costruire la nostra identità a partire da ciò che ci appartiene e che ci consente di esprimerci nel modo più autentico e vicino a noi stesse. Ossia a partire dalle emozioni.

Il femminismo rosa comincia da qui. Perché allora non lo rivendichiamo emozionandoci in pubblico, per esempio, mentre leggiamo un libro a nostro figlio, alla recita di Natale, davanti a due accordi stonati suonati in metropolitana. Guardando accendersi le luci natalizie, una pubblicità a lieto fine, una famiglia che si ritrova agli arrivi dell’aeroporto. Una donna anziana che piange di solitudine appena i suoi parenti escono dalla stanza, il saggio di danza di una ballerina in erba, il messaggio di un’amica che si ricorda di una visita medica importante.

Tutte le lacrime che ci teniamo dentro e di cui ci vergogniamo ci rendono più forti, non più deboli. Riprendiamoci le nostre emozioni, viviamole tutte, fino in fondo, ma a modo nostro, non diamole in pasto ai pubblicitari e ai maghi dei social media, non svendiamole per quattro gattini e qualche nonno sulla luna. Viviamole, senza vergogna. E quale occasione migliore del Natale per farlo? Commuoviamoci, sogniamo, andiamo a caccia di tutto quel che ci fa stare bene e viviamolo fino in fondo, finché non saremo sicure di esserci saziate. E poi ricominciamo. Perché una donna che non ha paura delle proprie emozioni è anche una donna che non ha paura della propria tristezza. E decide di vincerla. È una donna che non ha paura del vuoto che sente dentro. E decide di riempirlo. È una donna che non ha paura dei propri sogni. E decide di inseguirli.

Per anni hanno sorriso del nostro rosa. Ma la verità è che le donne che sognano fanno paura, perché sono donne pronte a combattere. Riprendiamoci il rosa. Riprendiamoci le nostre emozioni. E quando arriveremo al fondo di quella che chiamavano la nostra debolezza, scopriremo di essere più forti che mai.