Ma quale sensibilità femminile

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Quando un uomo parla di sensibilità femminile, mi tornano in mente tutti i fidanzati che mi hanno scaricata iniziando con “Sei una ragazza fantastica”. Puzza di fregatura lontano un miglio, questa storia della sensibilità femminile, peggio di una mimosa l’8 marzo e delle pubblicità di Pandora. Le donne, creature angelicate, meravigliose e sensibili, poi quando ne entra una incinta sull’autobus ce ne fosse uno che si alza e le cede il posto.

Qualche mese fa, alla mostra Impressionismo e avanguardie di Palazzo Reale a Milano, la sensibilità femminile faceva capolino in un cartello appeso in una delle sale. “Manet ha lungamente studiato le opere di Tiziano e Velázquez” si leggeva. “Berthe Morisot inserisce una nota di intima sensibilità femminile; Renoir restituisce la freschezza e i sorrisi di bambini o ragazze giovanissime.” Ossia, per dirla in altri termini, Manet ha studiato faticosamente, Renoir ha dipinto egregiamente, Berthe Morisot era sensibile.

Gli uomini fanno, le donne sono. Eccola, la trappola nascosta dietro la tanto sbandierata “sensibilità femminile”. Gli uomini fanno, si applicano, studiano, si perfezionano, imparano l’arte. Le donne sono, sono sensibili, non possono farci niente, sono fatte così.

Se un romanzo si distingue per finezza psicologica e per le sfumature emotive e si dà il caso che l’abbia scritto un uomo, verranno spesi fiumi di parole sulla sua maestria e la sua capacità di indagare l’animo umano. Se poi l’autore ha saputo caratterizzare bene i personaggi femminili, diventerà una sorta di supereroe della letteratura, un esploratore intrepido dell’universo delle donne, neanche avesse dovuto affrontarlo armato di machete. Se quello stesso romanzo l’ha scritto una donna, si dirà che la sua arte è il frutto della sensibilità femminile. Non ha mica dovuto faticare tanto per riuscirci, le è venuto spontaneo, insomma. Del resto, come mi sono sentita dire di recente, le donne sono “sempre pronte per diventare due”. Ci sono personaggi maschili ben caratterizzati? Ah, sì, beh, certo. Ovvio, no? In letteratura, si sa, esistono personaggi e personaggi femminili. Personaggi maschili è considerato ridondante.

La sensibilità femminile nell’arte non esiste, è un’etichetta discriminante e quel che è peggio, puzza spesso di condiscendenza. Se una donna dimostra particolare sensibilità nell’esercizio di un’arte, l’unico motivo per cui ci riesce è che ha talento, ha studiato, ha faticato per perfezionarsi e per arrivarci, a quella sensibilità. Non ce l’abbiamo in dotazione, ce la siamo conquistata sul campo, proprio come gli uomini. Quando dite a una scrittrice, a una musicista o a una pittrice che le sue opere rivelano tutta la sua “sensibilità femminile” non le state facendo un complimento, le state togliendo un merito.

Noi donne non siamo sensibili, lo diventiamo, proprio come possono diventarlo gli uomini. E se sembra che ci riesca più facile è perché ci hanno educate ad ascoltare tanto e parlare poco, perché hanno lavorato di sottrazione nel definire i nostri limiti, perché ci hanno sempre relegato all’essere, minando il nostro fare. Non siamo più sensibili, non siamo più attente, non siamo più emotive, non siamo più empatiche di un uomo. È solo che ci sforziamo di più.

Riscrivere per ritrovarsi

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Foto jev55 (CC)
Le storie già scritte sono come le case in cui abbiamo abitato un tempo. In cui abbiamo sognato, ci siamo emozionati, abbiamo fatto progetti e coltivato relazioni fatte di conflitti e di prove. Quando ci torniamo dopo anni, ci aggiriamo fra le loro stanze credendo di conoscerle bene, di sapere che cosa troveremo svoltato l’angolo, ma prima o poi finiscono sempre per sorprenderci, per metterci davanti qualcosa che non ci aspettavamo e non ricordavamo. Tanto da farci sorgere il dubbio, per quanto assurdo sia, che sia passato qualcun altro dopo di noi a cambiare le cose.
Se bussiamo piano alle pareti e ascoltiamo con attenzione, poi, riusciamo a sentire se sono davvero solide o pericolanti, se sono intere o se nascondono un passaggio segreto, un nascondiglio, una cavità ancora tutta da esplorare.
A tornarvi dopo un po’ di tempo, il tempo necessario per dimenticare abbastanza e permettere alla nostra memoria di farci da editor, le pareti della storia a volte riservano grandi sorprese. Scopriamo per esempio che alcune possono essere abbattute senza pericolo, lasciando entrare aria e luce nella storia. E un attimo dopo ci accorgiamo che da qualche altra parte è necessario sollevarne subito un’altra, per evitare un cedimento strutturale di cui non avevamo tenuto conto.
Scopriremo porte che non conducono da nessuna parte, stanze che non comunicano fra loro, finestre troppo piccole che non valorizzano il panorama all’esterno. Ci sono stanze a cui non si può arrivare in alcun modo, perché ci siamo scordati la porta o le scale. Le abbiamo create per poi dimenticarcene e abbiamo costruito la storia tutt’attorno, soffocandole o riducendole a uno sgabuzzino.
A volte sentiamo il bisogno di aggiungere una cantina piena di tesori nascosti, o una soffitta in cui mettere quel che non ci servirà subito ma che tornerà utile più avanti. Altre volte dovremo andare a stanare quel tesoro e sistemarlo nella stanza giusta, perché ce l’eravamo scordato in garage o fuori dalla porta.
Anche le case più belle, quelle in cui siamo stati più felici, possono riservare sorprese, viste con altri occhi. A volte ci accorgiamo di essere stati troppo timidi, troppo preoccupati dalle necessità strutturali e dal bisogno che la casa fosse solida, per esempio, per ricordarci di fare in modo che ci assomigliasse davvero. Con le storie è lo stesso. In alcuni casi si ha bisogno di scriverle più volte, la prima per iniziare a conoscerle e imparare a costruirle senza che ci crollino addosso, la seconda per scoprire che quello che volevamo dire è rimasto in un angolo e che nessuno lo noterà, se non cambiamo il piano della casa. Qualche volta tocca sacrificare un personaggio e cacciarlo fuori di casa, qualche altro personaggio avrà una stanza più grande o magari addirittura un piano nuovo, tutto per sé. Possiamo togliere un’ala o aggiungerne una nuova, cambiare il colore della facciata e magari aprirvi intorno un bel giardino, o un piccolo parco. L’importante è che sentircisi a casa e lasciare che parli di noi.
La riscrittura, quando la affrontiamo con un pizzico di freddezza necessaria, ha qualcosa di frastornante e di rassicurante al tempo stesso, come smarrirsi in un labirinto e poi trovare finalmente l’uscita. Un labirinto costruito da noi, ma di cui abbiamo smarrito la mappa. E come per ogni viaggio, è quando ci si perde che si fanno le scoperte più belle. E si capisce che cosa è davvero importante.
Le regole del tè e dell'amore (1)

Manuale di RIscrittura creativa/3

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Foto glasseyes view (CC)

La riscrittura arriva molto più vicino al processo creativo di quanto non faccia la scrittura, il che spiega fra l’altro perché sia più difficile da insegnare. Di manuali sulla scrittura sono pieni gli scaffali delle librerie, virtuali e non, ma di testi dedicati alla riscrittura ne esistono molti meno.

Innanzitutto c’è un equivoco di fondo da chiarire: non si riscrivono solo i testi che non funzionano. Anche un romanzo riuscito può essere riscritto, perché no? Per provare a esplorare la storia da un’angolazione diversa, per allungarla magari, farla diventare più seria, più spiritosa, più esplicita… Le ragioni possono essere le più svariate.

Nella mia esperienza, riscrivere è come sbirciare sotto la storia originaria, per scoprire che cosa nasconde. Un personaggio può avere un vissuto molto più interessante e ricco di conseguenze narrative di quanto sembri. Qualcosa nel suo passato può non solo aiutarci a definirlo meglio, ma portare avanti la storia, spingerla in una direzione leggermente diversa.

Un luogo può essere più ricco di dettagli di quelli che sono arrivati sulla pagina. Dettagli che è importante menzionare, perché conferiscono un’atmosfera del tutto nuova alla storia, aggiungendovi significato. Frasi che completano le conversazioni, gesti che chiariscono le emozioni del momento, oggetti che reclamano un posto sulla scena…

Ma è sul piano strutturale che la riscrittura riserva le sorprese più emozionanti. Scoprire che fra due personaggi esiste un legame più intimo e intenso di quel che credevamo alla prima stesura, scoprire che qualcun altro al contrario è più utile da morto che da vivo, o non è utile affatto.

E poi quel momento particolarmente magico in cui ti accorgi di aver sempre girato intorno a quel che ti stava a cuore davvero, per paura di non saperlo raccontare, di averlo relegato in un angolo, in una trama secondaria, e aprire la porta di quella storia, concederle più spazio e lasciare che si prenda – finalmente – l’importanza che meritava e che aveva sempre avuto.

La riscrittura è sfuggente e delicata, come le idee, che nel momento in cui si impongono spazzano via le tracce che si sono lasciate alle spalle, come un personaggio in fuga sulla neve. Ma soprattutto la riscrittura è azzardata, e ha qualcosa di rivoluzionario e di ribelle.

Di tutti i cambiamenti portati dal digitale, questo secondo me è quello destinato a lasciare le conseguenze più durature: la possibilità di intervenire sui testi in modo quasi immediato, privandoli della immobilità a cui ci aveva abituati il cartaceo. Il digitale ci ha riportati alla magia della narrazione orale, con la sua immediatezza, la sua padronanza assoluta sul racconto e la sua capacità di trasformare le storie ogni volta, raccontandole, consegnandole all’istante in cui le parole si fanno storia.

Quell’istante in può succedere davvero di tutto.

 

Manuale di NON scrittura creativa/14

Foto Jes (CC)
Foto Jes (CC)

Dopo l’errore del Pesce rosso, arriva l’errore del Manichino. Anche questo molto più comune di quanto si creda. Se il pesce rosso vive in una boccia completamente vuota, circondato soltanto dalle sue bollicine d’aria, il manichino è… No, non è nudo. Anche, a volte, ma piuttosto che leggere il catalogo di Zara ogni volta che uno dei personaggi esce di casa, meglio lasciare alla fantasia del lettore il loro abbigliamento. Qualche capo sparso qua e là basterà a rendere l’idea.

Non è nudo. Il manichino che rischiate di trovare nella vostra storia è… immobile. Perfettamente, completamente, assolutamente immobile. Non gesticola, non cammina, non inclina la testa, non compie la benché minima azione, mai. Quando parla (perché parlare parlano sempre, ’sti benedetti manichini, pure troppo, di solito, e sempre con una voce un po’ enfatica, come quella che usano i bambini quando mettono le parole in bocca alle bambole), quando parla, dicevamo, il manichino non muove un muscolo. Non sorride, non si muove sulla sedia, non gli prude mai un piede, figuriamoci compiere una qualsiasi azione come, che so, bere un caffè o fumare una sigaretta. Niente, rigido come una statua di cera.

Eppure io sono convinta che nella testa dell’autore quel manichino fosse vivo, in carne e ossa. E che avrebbe potuto e voluto fare un sacco di cose, se solo l’autore si fosse ricordato di osservarlo un po’ più spesso, mentre scriveva, e gliel’avesse permesso. E invece l’autore era troppo preso dalla trama, dal dialogo, da quello che voleva dire, per ricordarsi del suo personaggio, mollato lì su una sedia e destinato a non fare più assolutamente – e intendo proprio assolutamente – niente fino alla fine del dialogo o della scena. Con un po’ di fortuna, prima della scena successiva l’autore si sarà ricordato di metterlo in una posa diversa, perfetta per la nuova vetrina, ma poi ancora una volta il dialogo ha il sopravvento e il manichino resta lì, dimenticato, senza potersi grattare quel piede che gli prude terribilmente, senza poter fare l’occhiolino a una ragazza di passaggio, sbuffare, agitarsi sulla sedia, sistemarsi una ciocca di capelli caduta sull’occhio, mordersi il labbro, sospirare, tossire… ossia fare tutte quelle cose che un personaggio farebbe volentieri, durante un dialogo. Un personaggio, non una persona, attenzione: una persona ne fa molte molte di più, ma sulla carta arriveranno solo quelle che sono significative per la scena e per la caratterizzazione del personaggio in questione.

Ancora una volta, è più facile di quanto sembri. Si tratta solo di ricordarsi dei personaggi, di scendere dal piedistallo dell’autore, fregarsene per un attimo del messaggio imprescindibile che trasmetteremo all’umanità con il nostro libro e delle parole meravigliose che abbiamo pensato per quel dialogo e raggiungere i nostri personaggi, vivere la scena insieme a loro. Anche solo il tempo di una rapida grattatina di piedi.

Manuale di NON scrittura creativa/9

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La fine della stesura di un romanzo è il momento delle domande. Alcune le trovate nei post precedenti, ma ce ne sono altre in cui arrivare alla domanda significa essersi già dati la risposta. Sono tutte quelle questioni che ronzano come mosche sul retro della nostra mente e a cui non sempre decidiamo di dare retta.

La mia protagonista non è troppo antipatica? Il suo migliore amico non è uno stereotipo? Ho descritto troppo poco il posto in cui si trovano? Manca l’atmosfera giusta?

Questo, ormai lo sapete, non è un manuale consolatorio, che vi incoraggia a scrivere e vi dice che ce la farete. Al contrario. Vi spiega tutti i motivi per cui il vostro testo potrebbe NON funzionare.
Il vostro e il mio, ovviamente.

A un certo punto della stesura del romanzo che sto cercando di terminare, per esempio, mi è venuto il dubbio che i miei personaggi non fossero abbastanza completi, di non averli descritti abbastanza e che fossero rimasti soprattutto nella mia testa. In questi casi, la risposta secondo me arriva leggendo, leggendo romanzi ben scritti, che amiamo e che vorremmo aver scritto noi. Io sono stata fortunata. In quel periodo stavo leggendo Le confessioni di Max Tivoli, di Andrew Sean Greer, e mi sono imbattuta in questa pagina magnifica:

Non mi rattristava vederla così cambiata. Qualsiasi suo innamorato di un tempo forse avrebbe guardato quella bellezza invecchiata di diciott’anni, piena di espressioni bizzarre e pensose come questa, e si sarebbe sciolto di malinconia per quello che era andato perduto. Ma io non provavo malinconia; io ero diverso. Di lei non conoscevo solo gli aspetti ovvi, gli occhi, la voce, il brio, ciò che il tempo sbiadisce dal corpo: conoscevo l’infausto colpo di tosse di quando si annoiava; conoscevo l’odore dell’anice che usava per coprire quello delle sigarette; conoscevo il brivido delle sue tre vertebre visibili quando un’idea la scuoteva; conoscevo il fremito delle sue palpebre irritate dalla stupidità; conoscevo le lacrime che le salivano agli occhi l’istante prima di uno scoppio di risa; conoscevo le sue grida tremanti nella notte, la voce da operetta nella vasca da bagno, le dita smangiate, il suo modo di russare. Le cose che conoscevo, la Alice che conoscevo, il tempo non le avrebbe toccate.

E ho avuto la mia risposta. Conoscevo i miei protagonisti almeno la metà di quanto Max Tivoli conosce la sua amata? Li amavo almeno la metà di quanto lui ama lei? Perché solo in questo caso potevo sperare che il tempo non toccasse neanche loro.

Ci sono momenti, insomma, in cui solo noi sappiamo qual è la domanda giusta. Ma la risposta può scuotere il nostro testo alle fondamenta con la forza di un uragano. E no, lo so che cosa state pensando, ma non funziona. Dire: “Non importa, io compenso tutto con la forza del mio messaggio alla quarta riga di pag. 247” serve più o meno come chiedere a un uragano se gli spiace passare qualche metro più in là. Ogni tanto funziona, non dico di no, ma quasi sempre si finisce gambe all’aria. E bisogna ricominciare da capo.

Del resto, è quando si finisce gambe all’aria che ci arrivano le idee migliori.

MANUALE DI NON SCRITTURA CREATIVA/6

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Non so quale sia il primo posto affollato che vi viene in mente (la spiaggia a ferragosto, i bagni delle donne al Salone del Libro, la pagina Facebook di Gianni Morandi), ma sappiate che non è niente, paragonato alla stragrande maggioranza dei manoscritti inediti. Una densità di popolazione che al confronto in Cina sono quattro gatti.

Personaggi nuovi a ogni voltar di pagina, non importa se la storia sta per finire o se è iniziata da venti pagine e il protagonista ancora non si è visto, loro ci sono sempre, l’esercito dei fedelissimi, gli interminabili personaggi secondari pronti a riempire ogni vuoto di trama e di ispirazione.

Per carità, non che un romanzo debba essere necessariamente un dramma da camera, affatto, ed è inutile dire che i personaggi secondari sono importantissimi e a volte possono fare la differenza. Ma che bisogno c’è di strafogare la storia di personaggi completamente superflui, con una certa tendenza alla logorrea, oltre tutto? Se la vostra protagonista va a bere qualcosa e il tizio dietro il bancone non ha altra funzione che servirle un cocktail, in quel momento, non c’è alcun bisogno di farlo parlare per cinque cartelle dei fatti suoi o di spiegare nei dettagli come è finito lì e che rapporto aveva con la madre. A meno che ovviamente tutto questo non si innesti in qualche modo nella trama principale. Certo, possiamo dare qualche indicazione sul suo aspetto, possiamo fare di lui un personaggio curioso, interessante, un po’ assurdo, possiamo (anzi, dovremmo) fare in modo che dia il suo contributo a definire l’atmosfera generale del romanzo o anche solo del locale (se il clima è cupo, il suo viso potrà essere esausto, severo, di un pallore inquietante, per fare qualche esempio banale), ma possiamo risparmiarci la sua biografia.

Sfoltire, sfoltire, sfoltire, è uno dei consigli che do più spesso. Come fare a capire quali personaggi sacrificare e quali no? Per prima cosa, chiedetevi se sono indispensabili, che ruolo hanno nella storia. Poi c’è un altro trucco.

Ricordate il gioco delle 10 differenze? Fatelo di nuovo, questa volta fra i personaggi secondari. Sì, perché di solito non è molto facile distinguerli l’uno dall’altro. Parlano allo stesso modo, sono poco o per nulla caratterizzati, hanno reazioni molto simili e le loro emozioni si ripetono. Sono intercambiabili, insomma. Se fra due personaggi secondari non trovate più di quattro differenze, allora molto probabilmente potete sacrificarli entrambi. Al vostro protagonista non servono otto amici tutti uguali, ne bastano un paio, ben caratterizzati e con un ruolo chiaro nella storia.

Degli altri, statene pure tranquilli, non sentirà la mancanza.