“Lei sì che è una furbona, il pranzo di Natale lo cucina suo marito.”
“Poveraccio, a tavola con tutte quelle donne, chissà che pazienza deve avere.”
“Adesso arriva, sai come sono le donne, sempre lì a farsi belle.”
“Ma cosa ci fate voi donne in giro oggi a quest’ora? Non dovreste essere a casa a cucinare per il cenone?”
“Siamo andati male da quando hanno iniziato a comandare le donne.”
“Non annoiamo gli uomini con i nostri discorsi da donne.”
“I gay sono più ricchi di noi perché non devono sempre fare regali alle proprie donne. Il loro è un rapporto alla pari.”
“È un vino da donne.”
“Per forza che le donne vivono più a lungo, fanno la bella vita mentre il marito si alza alle cinque per andare a lavorare.”
“Alcune donne le meritano, le mazzate.”
“L’avesse detto a me, l’avrei messa incinta.”
“Cara, hai davvero una bella casa e come la tieni in ordine, brava!”
“Eh no, a Natale no, per favore. Non fare la femminista anche oggi.”
Ed è allora, quando ti accusano di essere ostile e astiosa e di rovinare il pranzo a tutti, che ti rendi conto che la trappola peggiore che si possa tendere al femminismo è dare per scontato che le nostre battaglie debbano finire dove inizia l’armonia familiare. E di quanto sia facile caderci, in quella trappola, invece di pretendere una nuova armonia costruita attorno alle nostre battaglie, non al loro posto.
Puoi criticare una battuta volgare, puoi criticare una battuta razzista, qualche volta perfino una omofoba (anche se qui il terreno si fa più impervio), ma nell’istante in cui critichi una frase sessista non sei più un’idealista che lotta per quel che è giusto, solo una rompiscatole che impedisce agli altri di stare tranquilli e di godersi la festa.
No, a Natale ogni sessismo non vale. Se è sbagliato dietro lo striscione dell’8 marzo, è sbagliato sempre, anche dietro il panettone del pranzo in famiglia. E se lo facciamo notare non siamo musone e scontente, siamo solo così ottimiste e sognatrici da volerlo davvero, quel mondo migliore di cui parlano i biglietti di auguri.