Ritirarsi, quello che qualcuno definirebbe “dargliela vinta” a volte è meglio che portare lo scontro a un livello troppo alto, da cui poi sarebbe difficile tornare indietro. “Che faccio, lo costringo di peso?” si chiede prima o poi qualunque genitore, davanti alla creatura che adesso ha più ormoni, più muscoli e più tempo di lui. Il suo spazio personale cresce e insieme a quello la nostra necessità di tirarci indietro e lasciare che ogni tanto lo abiti da solo, anche quando sta sbagliando.
Rimandare, le conseguenze, le spiegazioni, i rimproveri, i chiarimenti, segna la differenza fra ritirarsi e dargliela vinta. E a volte anche la differenza fra educare e sfogarsi.
Raccontarsi, parlare di noi, è il ponte migliore che si possa costruire fra genitore e figlio, quello fra il nostro passato e il suo futuro. Rafforza le radici e il senso di identità, accorcia la distanza fra problema e soluzione e soprattutto invita a fare altrettanto. Aprirsi, esporsi, anche quando sembra che dall’altra parte ci sia lo stesso interesse di un piguino per un costume da bagno, quando è fatto senza ostentazione è una grande dimostrazione di fiducia.
Reggere la barca quando fa di tutto per ribaltarla, tenerla forte, impedirgli di imbarcare acqua fino ad affondare. Anche quando la tentazione sarebbe spingerlo giù e lanciargli un bel salvagente e che inizi a nuotare. In realtà non vuole affondare, ci sta sfidando a dimostrargli che non se lo merita, che non è destinato a fallire, che tutta la negatività che si è scoperto dentro non avrà la meglio e che c’è qualcuno che regge forte la barca insieme a lui. Ha solo bisogno di sapere che può farcela, e quale modo migliore che tentare disperatamente il contrario e non riuscirci.
Riflettere il meglio di lui, l’immagine che vorremmo che vedesse nello specchio anche quando non la vediamo più neanche noi, anche quando ci sembra scomparsa, anche quando lui diventa lo specchio dell’immagine di noi che non vorremmo mai vedere. La tenerezza, lo smarrimento, l’entusiasmo, la genialità della bambina o del bambino che conoscevamo c’è ancora, più lontana, confusa, un po’ estranea, fra contorni che non avremmo mai immaginato, ma c’è, deve esserci. Forse passiamo tutta la vita a inseguire quell’immagine e vederla riflessa negli occhi di un genitore la rende la misura del nostro valore.
E infine, recitare una preghiera, incrociare le dita, attirare energie positive, invocare qualche spirito… insomma, sperare che vada tutto bene. Perché per quanto ci faccia star bene pensare il contrario, contiamo molto meno di quanto vorremmo.
Mini che più mini non si può. Cinque regole rapidissime per provare ad affrontare la pagina bianca con qualche punto di riferimento in più.
1. Prendete la vostra idea e spaccatela in due. Dovete tirarci fuori due mondi il più distanti possibile. Più saranno diversi, più la vostra storia sarà efficace. E sarà proprio il confronto fra questi due mondi a rendere il percorso del protagonista interessante. Povertà/Ricchezza Freddo/Caldo Realtà/Magia Sconosciuto/Famoso Timido/Estroverso Di successo/Imbranato… Se poi si tratta di una storia d’amore, la regola vale anche per i due protagonisti. Più saranno diversi, più la loro storia sarà impossibile, più il lettore si appassionerà. ESEMPIO: Élite, la serie di Netflix, non sarebbe la stessa cosa senza Samuel, Nadia e Christian, se tutti i protagonisti fossero ricchi.
2. Qualcuno ha detto impossibile? Ogni storia ha una posta in gioco, ossia quello che c’è in ballo e che il protagonista, o l’intera società, rischia di perdere. Quello che si vuole ottenere davvero. Un poliziotto può desiderare di risolvere un caso per il proprio senso innato di giustizia, ma se lo fa anche per riscattarsi, per mettere a tacere un senso di colpa nascosto, perché anni prima per esempio non è riuscito a salvare qualcuno che amava, la storia diventerà molto più appassionante. Nella posta in gioco è implicita anche la difficoltà della missione che aspetta i personaggi. Più l’obiettivo è difficile, più la storia sarà intrigante. ESEMPIO: La casa di carta, la serie di Netflix, a chi era mai venuto in mente di derubare proprio l’inespugnabile Fábrica Nacional de Moneda y Timbre?
3. A cena con il protagonista. Non basta dargli un nome, un passato, un colore per gli occhi e i capelli. Il vostro protagonista deve prendere vita sulla pagina. Significa che dobbiamo vederlo muoversi, dobbiamo sentire il suo tono di voce, dobbiamo sapere come cammina, che cosa lo spaventa, che cosa nega perfino a se stesso. Immaginatevelo davanti a una porta. Come la apre? Bussa? La spalanca? Aspetta di sentire chi c’è dall’altra parte? Se bussa lo fa con decisione o con discrezione? Si pulisce i piedi sullo zerbino? Non è necessario sapere tutto dei vostri personaggi, ma quando si muovono sulla carta dovete vederli, il movimento deve nascere da loro, non dovete muoverli voi come marionette. Date loro spazio, guidateli e lasciatevi guidare da loro. ESEMPIO: una storia di Instagram. Quante cose vi rivela una storia di Instagram dei vostri amici? Molto più di quello che crede chi l’ha postata. Sapremo qualcosa della sua casa, dei suoi gusti musicali, dei suoi orari, del suo stato d’animo… Con i vostri personaggi è lo stesso, ogni volta che agiscono ci svelano molto di più di quanto credono.
4. Sì, ma dove? Tutto ciò che accade nella vostra storia si svolge in uno spazio ben preciso, non avviene nel nulla. Questo non significa che ogni volta dobbiate fermare l’azione e descrivere tutto nei dettagli, stile catalogo Ikea, ma è importante che ci arrivi almeno l’atmosfera, qualche pennellata, i colori, la luce, un soprammobile, un profumo, un suono fuori dalla finestra. Non riferite quello che succede ai vostri protagonisti, non riassumete, mostratelo. Per questo non deve esserci nulla di casuale. La vostra stanza vi assomiglia, giusto? Ecco, anche il mondo della vostra storia deve assomigliare alla vostra storia. ESEMPIO: i meme di Harry Potter. Se non conosciamo il mondo di Harry Potter, i meme non ci diranno niente, al massimo potranno strapparci un sorriso poco convinto. Se scoppiamo a ridere quando li vediamo su Instagram è perché conosciamo il mondo a cui appartengono, proprio come la vostra storia ha bisogno di appartenere a un mondo.
5. La battaglia reale. Una storia non è una linea tesa fra l’inizio e la fine, ogni tanto bisogna aggrovigliarla, scomporla e cambiare l’ordine dei tasselli, spostare le informazioni qui e là, per rendere tutto più avvincente. Vi sono poi alcune tappe che tornano spesso e che possono aiutarvi a costruire la vostra trama. Ci sarà per esempio un momento in cui l’equilibrio iniziale del vostro protagonista cambia, per esempio quando riceve una notizia o conosce qualcuno o riceve un nuovo incarico. Ci sarà un momento in cui conosce i suoi nuovi compagni di viaggio e di avventura, ci sarà un momento in cui affronterà un mondo nuovo (forse perché si è messo in viaggio, forse perché ha conosciuto qualcuno che lo porta in quel mondo) e un altro in cui capirà che non può più tornare indietro, ci sarà un primo scontro con il nemico da cui uscirà malconcio, ma soprattutto ci sarà un momento in cui penserà che tutto è perduto, prima della battaglia finale. Per chi è interessato ad approfondire, cercate le 12 tappe dell’eroe di Christopher Vogler. Gli sceneggiatori dicono che quando scrivi una storia devi prendere il tuo protagonista, farlo salire su un albero, iniziare a tirargli le pietre e poi farlo scendere dall’albero. Solo mentre lo prendiamo a sassate infatti il nostro protagonista ha occasione di cambiare, di capire che cosa vuole davvero e di fare scelte diverse. ESEMPIO: i videogiochi ci portano in un mondo diverso, di cui dobbiamo conoscere le regole, per cui dobbiamo attrezzarci. Nel corso del gioco possiamo stringere alleanze e avere nuovi compagni e il nostro personaggio può cambiare pelle, come le skin di Fortnite, per avere maggiori possibilità di vincere. E più andiamo avanti, più il gioco si fa difficile. Proprio come per i nostri personaggi.
Dopo aver buttato giù la vostra storia, se volete fare la prova del nove, cercate il Manuale di NON scrittura creativa, crudele, ma utile. 🙂
1. Proprio vero che i ragazzi non leggono i libri. Li divorano. Se amano un romanzo lo finiscono in una sera. Se non sono interessati, invece, lo mettono giù dopo poche pagine e non lo riprendono più in mano. Leggono eccome, solo hanno il privilegio di leggere come vivono, senza mezzi termini e mezze misure.
2. Quando chiedi qualcosa a un adolescente non otterrai quasi mai la risposta che cercavi. “Che libro vorresti leggere? Su che argomento?” E se la ottieni, di solito è dopo un sacco di sbuffi e dopo averglielo chiesto cento volte e con ogni probabilità avrà finito per dirti quello che immaginava volessi sentirti dire, perché ti togliessi dai piedi. Le risposte degli adolescenti e dei preadolescenti, però, sono anche piccole esplosioni meravigliose di significato, che non c’entrano niente eppure contengono esattamente quello che cercavi prima ancora di avere capito che cercavi proprio quello. Perché la verità è tangenziale e caotica, e loro lo sanno, siamo noi che ce ne siamo dimenticati e abbiamo finito per credere ai nostri criteri patetici per inscatolarla e tenerla a bada.
3. Se domandi a un ragazzo se un libro gli è piaciuto ti risponderà semplicemente sì o no. E se gli chiedi anche perché probabilmente ti risponderà con una scrollata di spalle scocciata, perché il piacere andrebbe vissuto, non raccontato e di certo non analizzato. Il piacere è intimo e prezioso. Chi ha voglia di raccontare il gusto di una tavoletta di cioccolato mentre la mangia o mentre ne conserva ancora il sapore sulla lingua? E quando invece ti rispondono, spesso lo fanno con una frase sola, che le contiene tutte e il cui significato è riassumibile con: “Perché parla di me”. E il senso dei libri non è proprio quello, il senso più profondo e prezioso, il motivo per cui sono indispensabili?
Insomma, altro che preoccuparci perché i ragazzi non leggono. Dovremmo ricominciare da capo a imparare a leggere da loro.