La violenza sulle donne si combatte occupando gli spazi pubblici, non abbandonandoli

Il victim blaming, l’atteggiamento che tende a colpevolizzare la vittima di una violenza invece di chi l’ha commessa, ha molte facce e forse non tutte sono immediatamente riconoscibili. È victim blaming chiedersi come fosse vestita una sopravvissuta a uno stupro, ma lo è anche stendere un elenco di consigli per la sicurezza delle donne quando vanno in giro la sera. È victim blaming soffermarsi su quanto avesse bevuto la ragazza, ma lo è anche chiedersi che cosa ci facesse da sola per strada. Ed è victim blaming insistere sulla separazione che ha preceduto un femminicidio o sulle “pretese” economiche della donna.

Le statistiche parlano chiaro: la maggior parte degli episodi di violenza subiti dalle donne avviene all’interno della coppia, o da parte dell’ex partner, di amici, di familiari. Perché allora, se proprio si vuole insistere nel victim blaming, non sconsigliare alle donne di sposarsi o di iniziare una relazione? Perché nel momento in cui si decide di controllare la donna lo si fa privandola del diritto alla solitudine e alla libertà di movimento? Gli uomini inglesi hanno reagito indignati alla proposta di Jenny Jones di un coprifuoco solo maschile, perché certo, non sono mica tutti così. Ma allora perché tutte le donne dovrebbero restare a casa quando una di loro viene violentata e uccisa?

Forse perché è stata violentata e uccisa in quanto donna. Non per quello che indossava, per l’ora a cui andava in giro da sola o perché non aveva seguito un corso di autodifesa e non sapeva come chiedere aiuto. Non perché è stata imprudente, perché era in spiaggia alle tre del mattino, perché voleva divertirsi, perché aveva voglia di conoscere persone nuove, perché non ha controllato che non le mettessero niente nel bicchiere, perché non aveva detto a un’amica dove andava o perché ha sorriso troppo. Solo in quanto donna.

Ecco allora l’unico modo sensato di raccontare la violenza sulle donne: contestualizzandola, all’interno di una società che si regge su uno squilibrio di potere, una società che misura quello stesso potere sulla capacità di possesso maschile, in tutte le sue forme, compreso il possesso del corpo femminile e quindi anche lo stupro. Una società in cui le donne non hanno voce e in cui la narrazione collettiva risponde alle esigenze e ai desideri maschili, compreso quello di lasciare le cose esattamente come stanno.

Smettiamola con gli inviti alla prudenza. Siamo prudenti da anni, conosciamo tutti i trucchi, sappiamo in quali strade passare, qual è il modo più sicuro per entrare nel portone di casa, impariamo da giovanissime a stringere un oggetto fra le dita se camminiamo da sole, sperando di colpire più forte. Sappiamo che dobbiamo informare qualcuno dei nostri spostamenti, siamo allenate a riconoscere il pericolo dal suono dei passi che ci seguono, decifriamo gli sguardi, cronometriamo i sorrisi, proviamo a renderci invisibili nascondendoci in abiti a prova di curve. Calcoliamo per istinto qual è il posto più sicuro dove sederci su un treno, abbassiamo le sicure quando siamo da sole in macchina la sera, ci muoviamo nel mondo in uno stato di allerta quasi costante, affinando doti degne di qualche corpo speciale. E non è servito a un accidenti. Continuano a ucciderci e a violentarci e a metterci le mani sul culo per la semplice ragione che possono farlo. Perché quando lo faranno, qualcuno verrà da noi a dirci di rientrare a casa prima e di stare più attente.

Per sconfiggere la violenza sulle donne è fondamentale scardinare la narrazione attuale, assolutoria e tesa a salvaguardare il sistema di potere maschile senza metterlo mai davvero in discussione. La violenza sulle donne è un problema politico, culturale e sociale, non individuale. La strada per la nostra sicurezza non può passare dalla limitazione della nostra libertà, ma dalla rivendicazione di quella stessa libertà. Dobbiamo fare tutto il contrario: riappropriarci dello spazio pubblico. Impedire che ci ammazzino o che ci stuprino non è una nostra responsabilità.