Manuale di RIscrittura creativa

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Foto hapal (CC)

Dopo i buoni motivi per NON diventare autori esordienti, o almeno per fermarsi e porsi qualche domanda prima di mandare il nostro manoscritto in lettura, ecco i buoni motivi per RIscrivere una storia. E non mi riferisco a una rilettura superficiale, a un editing rapido che serve giusto a cambiare qualche pagina di dialogo e a correggere qualche incongruenza qua e là. No, la RIscrittura di questo nuovo manuale è drastica, impietosa, si abbatte come uno tsunami sulle nostre pagine, ma al tempo stesso è rigenerante, soffia nuova vita sulle braci della nostra storia e soprattutto è un’occasione unica per riflettere sull’atto creativo in sé, da una prospettiva nuova.

Ma attenzione, riscrivere in questo caso non equivale a correggere e non ha niente a che spartire con l’editing, che appunto ha lo scopo di individuare e risolvere i problemi di un testo.

La RIscrittura come la vedremo qui non muove necessariamente da un testo che non funziona. Sono convinta che abbia ragione di esistere anche a partire da storie che di per sé sono riuscite, che si consideravano concluse e che non appena vi soffiamo sopra di nuovo riprendono vita, in un palpito inaspettato.

Probabilmente ci sono storie che una volta terminate non ammettono cambiamenti o ribaltamenti di trama, ma sono poche, a mio parere. Quasi tutte  possono essere riprese in mano e trasformate, proprio come succede con la narrazione orale, come quando raccontiamo sempre la stessa storia ai nostri figli, in macchina, prima di andare a dormire, a tavola, e ogni volta aggiungiamo un dettaglio, un bivio narrativo, un personaggio, finché la storia a poco a poco non prende percorsi impensati e impensabili la prima volta che l’abbiamo raccontata.

La RIscrittura ha un fascino tutto suo, attinge al cuore pulsante della nostra ispirazione, fa sorgere domande a cui non avremmo mai pensato. Ci mette davanti ai nostri personaggi in un confronto serratissimo, costringendoci spesso a guardarli davvero, o almeno sotto una nuova luce. Permette di sbirciare nelle zone d’ombra della nostra storia (ogni trama ha le sue) quelle che per motivi di tempo, di economia narrativa o di pigrizia non abbiamo indagato abbastanza, per scoprirvi nuovi risvolti, episodi che aspettavano solo di essere scritti, emozioni intense e scene che racchiudono, a volte perfino meglio di tutte le altre, il senso della nostra storia e del nostro narrare.

La RIscrittura è un esercizio magico e prezioso, che consiglio a chiunque ami cimentarsi con la scrittura per il puro piacere di scrivere e di creare, senza ansie da nome in copertina e da posizione in classifica. Ci si può armare di carta e penna o provare semplicemente a immaginare quali nuove vite potrebbe avere la nostra storia.

E i risultati ci stupiranno.

Nell’ombra proiettata dalla nostra storia si nascondono infatti altre decine di storie. E abituare lo sguardo a distinguerle, lasciarle interagire con la storia principale, lasciare che la corrompano, che la obblighino a prendere nuove strade, seguirne i percorsi di significato senza preoccuparci di dove ci porteranno, è un’esperienza entusiasmante, forse perfino di più della prima stesura. È un viaggio senza mappa, nel sottobosco della nostra creatività, dove si agitano le storie ancora da raccontare.

Vedremo insieme, in questo nuovo manuale che si affianca al Manuale di NON scrittura creativa, come procedere in questa avventura. Perché si inizia con il fiato sospeso, ma quando si arriva alla fine si cammina a qualche metro da terra. E comunque sia andata, avremo imparato qualcosa di importante su come nasce una storia. E su come nasce uno scrittore.

Manuale di NON scrittura creativa/15

Foto Guillaume Menard (CC)
Foto Guillaume Menard (CC)

L’errore di oggi è uno dei più frequenti e invisibili in cui mi sia imbattuta. Frequente perché l’ho trovato anche in libri autorevoli, invisibile perché confesso che finché non ho iniziato a scrivere e me lo sono trovato sulla punta delle dita un’infinità di volte non ho capito che si trattava di un errore. E perché.

Qualcuno potrà obiettare che non si tratta di un errore e forse ha ragione, forse è solo una debolezza narrativa, uno spiraglio fra la finzione e la creazione, fra l’illusione di verosimiglianza e lo svelamento dell’artificio. Uno di quei momenti in cui l’autore e la macchina narrativa fanno capolino, senza volere, fra le righe.

Si tratta di una singola frase, insospettabile. Una frase all’apparenza innocente, di quelle che le leggi e non ci badi neanche troppo. A meno che l’autore non commetta l’errore – a questo punto sì – di perseverare e usarla più di una volta.

Come se mi avesse letto nel pensiero.

Eccola la frase incriminata. Ovviamente con tutte le varianti del caso. Come se gli leggesse nel pensiero. Quasi avesse appena letto nei suoi pensieri. E via dicendo.

Sembra innocente, vero? E lo è se siamo in un paranormal e il personaggio in questione può davvero leggere nel pensiero. O se la lettura nei pensieri altrui è in qualche modo un tema importante e dominante nella storia o nella relazione fra i personaggi. In una scena normale, invece, no.

Perché in realtà il personaggio non ha letto proprio un bel niente, è l’autore che ha piegato il dialogo alle sue esigenze narrative, che l’ha forzato, che ha accorciato troppo i tempi, non ha avuto la pazienza di arrivare al punto per vie meno dirette. In altre parole, nessuno ha letto nel pensiero a nessuno, tranne l’autore, che ovviamente legge nel pensiero di tutti ma dovrebbe far finta di no.

Pioveva a dirotto e iniziavo a temere che non avremmo mai più trovato un autobus per tornare a casa, sempre ammesso che l’ultimo non fosse già passato. Forse l’ultima possibilità che ci restava era fare l’autostop.

«Dici che dovremmo provare a chiedere un passaggio a qualcuno?» mi chiese mia sorella, come se mi avesse appena letto nel pensiero.

In un caso come questo è evidente che la sorella non è una medium e che la frase incriminata è semplicemente una soluzione di comodo, per inserire l’autostop nel dialogo. Quando esistevano molte altre soluzioni più rapide e indolori o più intriganti.

«Dici che dovremmo provare a chiedere un passaggio a qualcuno?» mi chiese mia sorella e io la guardai inorridita.

Solo l’idea mi terrorizzava. Iniziai a scuotere la testa per rifiutare, quando vidi l’ultimo autobus che ci passava davanti senza fermarsi, bagnandoci dalla testa ai piedi.

Attenti allora, quando uno dei personaggi sembra avere poteri divinatori improvvisi, chiedetevi se non state prendendo semplicemente una scorciatoia.

Non sia mai che qualche lettore legga nei vostri, di pensieri, e capisca che si è trattato di un attacco di pigrizia narrativa e che avete scroccato un passaggio alla telepatia.

Manuale di NON scrittura creativa/14

Foto Jes (CC)
Foto Jes (CC)

Dopo l’errore del Pesce rosso, arriva l’errore del Manichino. Anche questo molto più comune di quanto si creda. Se il pesce rosso vive in una boccia completamente vuota, circondato soltanto dalle sue bollicine d’aria, il manichino è… No, non è nudo. Anche, a volte, ma piuttosto che leggere il catalogo di Zara ogni volta che uno dei personaggi esce di casa, meglio lasciare alla fantasia del lettore il loro abbigliamento. Qualche capo sparso qua e là basterà a rendere l’idea.

Non è nudo. Il manichino che rischiate di trovare nella vostra storia è… immobile. Perfettamente, completamente, assolutamente immobile. Non gesticola, non cammina, non inclina la testa, non compie la benché minima azione, mai. Quando parla (perché parlare parlano sempre, ’sti benedetti manichini, pure troppo, di solito, e sempre con una voce un po’ enfatica, come quella che usano i bambini quando mettono le parole in bocca alle bambole), quando parla, dicevamo, il manichino non muove un muscolo. Non sorride, non si muove sulla sedia, non gli prude mai un piede, figuriamoci compiere una qualsiasi azione come, che so, bere un caffè o fumare una sigaretta. Niente, rigido come una statua di cera.

Eppure io sono convinta che nella testa dell’autore quel manichino fosse vivo, in carne e ossa. E che avrebbe potuto e voluto fare un sacco di cose, se solo l’autore si fosse ricordato di osservarlo un po’ più spesso, mentre scriveva, e gliel’avesse permesso. E invece l’autore era troppo preso dalla trama, dal dialogo, da quello che voleva dire, per ricordarsi del suo personaggio, mollato lì su una sedia e destinato a non fare più assolutamente – e intendo proprio assolutamente – niente fino alla fine del dialogo o della scena. Con un po’ di fortuna, prima della scena successiva l’autore si sarà ricordato di metterlo in una posa diversa, perfetta per la nuova vetrina, ma poi ancora una volta il dialogo ha il sopravvento e il manichino resta lì, dimenticato, senza potersi grattare quel piede che gli prude terribilmente, senza poter fare l’occhiolino a una ragazza di passaggio, sbuffare, agitarsi sulla sedia, sistemarsi una ciocca di capelli caduta sull’occhio, mordersi il labbro, sospirare, tossire… ossia fare tutte quelle cose che un personaggio farebbe volentieri, durante un dialogo. Un personaggio, non una persona, attenzione: una persona ne fa molte molte di più, ma sulla carta arriveranno solo quelle che sono significative per la scena e per la caratterizzazione del personaggio in questione.

Ancora una volta, è più facile di quanto sembri. Si tratta solo di ricordarsi dei personaggi, di scendere dal piedistallo dell’autore, fregarsene per un attimo del messaggio imprescindibile che trasmetteremo all’umanità con il nostro libro e delle parole meravigliose che abbiamo pensato per quel dialogo e raggiungere i nostri personaggi, vivere la scena insieme a loro. Anche solo il tempo di una rapida grattatina di piedi.

Note sul Noir/3

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di Maria Masella

Riassunto della puntata precedente. Avete realizzato lo schema, anzi lo SCHEMA. Tutto torna, al millimetro.

Siete a posto?

No. Purtroppo c’è sempre ancora qualcosa da approfondire. Uno SCHEMA impeccabile non vi mette al riparo da uno dei guai peggiori, quello che il vostro noir sia soltanto un rebus travestito da romanzo.

Affrontiamo uno dei passi che trasformeranno il rebus in romanzo.

Movente

Parola stuzzicante. Per uno chef (categoria molto di moda) alcuni ingredienti stimolano la fantasia, la creatività. Per i pittori alcuni colori sono ricorrenti (il rosso di Carpaccio è quasi una firma).

Per uno scrittore le parole sono i veri ingredienti ed è normale che una parola possa giocare un ruolo importante, sia di stimolo per la costruzione di una storia.

Per me, movente è una parola guida.

Sul fedele Zingarelli movente è sia sostantivo sia participio presente del verbo muovere. Ed è proprio questa duplicità a sedurmi. Da una parte la staticità del sostantivo e dall’altra il movimento allo stato puro, presente, in atto e non in potenza.

Un noirista almeno discreto vive con la parola movente appollaiata sulla spalla, è la sua scimmia.

Un noirista almeno decente sa d’istinto che è il movente a muovere la storia, è il movente a dare profondità al colpevole e insieme alla vittima e all’investigatore.

Perché qualsiasi noir è giocato su tre persone: assassino, vittima, investigatore. Ed è il movente a dare inizio alla storia e fin quando l’investigatore non trova il movente il caso non è risolto! E la vittima? Sembra la più estranea al movente… Sembra.

Cercate di vedere la scena. L’assassino muove verso la vittima armato del movente. La vittima è la sua meta, ma perché ha scelto quella e non un’altra? Questo è il punto su cui in noirista deve lavorare: chi legge deve capire perché è stata scelta quella vittima e, almeno in parte, essere accanto all’assassino in una specie di condivisione del movente.

Il movente perfetto ha alcuni requisiti:

  1. Comprensibile al lettore medio. Odio, amore, vendetta, gelosia, invidia, interesse… Sì, funzionano sempre, perché tutti noi li conosciamo.
  2. Condivisibile dal lettore medio. Non ci saremo vendicati uccidendo, forse neppure ci saremo vendicati, ma l’impulso alla vendetta l’abbiamo provato tutti.
  3. In movimento. Non basta dire “ha ucciso per gelosia” bisogna far sentire come è nata la gelosia, come si è sviluppata tanto da diventare padrona dell’assassino.
  4. Vado pazza per i moventi ibridi: non soltanto la gelosia, ma forse un pizzico di interesse. Perché neppure l’assassino sia monolitico.
  5. Anticipato con tocchi leggeri. Questo, come sempre quando si parla di anticipi, è difficile. Seminare una parola, una frase che a romanzo concluso faccia dire al lettore “Sì, un cenno c’era!”. La leggerezza di tocco è essenziale. Un trucco da banale mestierante? Inserirlo in un diverso contesto. Esempio. In Celtique si scopre che un senegalese viene ucciso perché scambiato per un altro. Un personaggio commenta, molte pagine prima, che per alcuni tutti i neri sono uguali.

Ma, come dico a ogni incontro con il pubblico, per un romanzo di più di duecento pagine un omicidio non basta e ne sono necessari almeno due.

Si aprono numerose possibilità:

  1. i due omicidi non hanno alcun collegamento, in questo caso l’autore deve sapere quale dei due è il più importante: sarà risolto per ultimo! Spesso il caso meno importante viene inserito per necessità temporali. Cito nuovamente Celtique. L’omicidio del senegalese mi è servito per riempire i molti giorni in cui non accadeva nulla relativamente al caso “Celtique” e per costringere il protagonista a lavorare su due fronti. I due casi devono essere incastrati al millimetro, doppio SCHEMA! E SCHEMONE di confronto. Attenzione: i due moventi sono probabilmente diversi e questo rischia di frammentare il romanzo. Trucchi? Conosco quello usato in Celtique. Due delitti completamente diversi, ma sia il senegalese ucciso sia l’investigatore devono fare i conti con una doppia fedeltà: il primo alle sue due patrie e il secondo alla legge e a un vecchio amico latitante.
  2. I due omicidi sono collegati: il secondo è di copertura. Situazione semplice che può essere, anzi deve essere arricchita, dando molta profondità al movente del primo omicidio.
  3. I due, o più, omicidi sono collegati e tutti preludono all’ultimo, quello che per l’assassino è il più importante. Usato in Morte a domicilio. È molto coinvolgente se ben gestito. È necessario che il lettore si identifichi con l’investigatore, ma… Ma sul filo di lana provi pena e compassione per l’assassino. Usato anche in Giorni contati, ovviamente modificando i moventi.
  4. Serial killer. Molto diverso dal precedente. Per l’assassino tutti gli ammazzati sono di pari importanza. No, non è vero. Uno antico, il primo deve essere quello fondamentale, gli altri sono “per ricordare”. Usato con gran soddisfazione in Caso irrisolto.

Si nota facilmente che non amo i romanzi di mafia, camorra e criminalità organizzata. Neppure gli intrighi internazionali. I miei sono assassini della porta accanto. E i moventi sono quelli che potrebbero spingermi a uccidere. Persona avvisata, mezza salvata! Ora sapete che cosa mi spingerebbe a uccidere.

Se volete saperne di più su Maria Masella e sui suoi libri, trovate tutto qui.

Se volete leggere le Note sul noir precedenti, le trovate qui qui

CORSO SPRINT DI SCRITTURA CREATIVA

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di Olivia Crosio

Prima lezione. Non lasciarti prendere la mano da progetti assurdi. Comincia semplicemente dall’inizio, e alla fine tornaci.

Seconda lezione. Tutto quello che scrivi oggi, domani ti farà orrore, perché sai di essere capace di fare molto meglio, anche se PER IL MOMENTO non ci riesci, chissà come mai. Se non piace a te, figurati agli altri. Ricomincia.

Terza lezione. Tema: il blocco. Il blocco… Sì, il blocco. Certo, non è facile. No, vero? Eh, be’, già. Mmm… aspetta un attimo…

Quarta lezione. Una volta superato in qualche modo il famigerato blocco da pagina bianca, rileggerai tutto quello che hai scritto prima e lo butterai via perché il blocco ti avrà fatto maturare. Ricomincia. A questo punto, dovresti avere un paio di paragrafi di cui non ti vergogni davanti a te stesso. Consolati con il fatto che questo corso è gratuito.

Quinta lezione. Sei un falegname. Sega, pialla, incolla, inchioda, vernicia. Ti sporcherai. E in fondo alla giornata sarai stanco come un falegname, ma stai creando un piccolo pezzo unico, non un Ikea.

Sesta lezione. Cercare di imitare l’ultimo libro che ti è piaciuto non paga! Non sei quello scrittore lì, sei qualcun altro! Per scoprire chi (sei), e per avere qualcosa da raccontare, esci dal guscio e vivi un po’, a costo di fracassarti le corna contro un muro. Niente paura, poi ricrescono.

Settima lezione. Mentre sei fuori a sbattere le corna di qua e di là, non perdere tempo a parlare ma ascolta gli altri. Loro sono la farina, le uova e il burro con cui confezionerai la tua storia. Non dimenticare il pizzico di sale. La ciliegina è il tuo stile personale.

Ottava lezione. Se pensi di scrivere per le donne, mira al cuore e alla mente. Se pensi di scrivere per i ragazzi (maschi e femmine), mira ancora al cuore e alla mente. Se pensi di scrivere per gli uomini, mira alla mente e basta, perché loro il cuore ce l’hanno, ma lo tengono rinchiuso.

Nona lezione. Punti, virgole e altri segni non sono come le zanzare, cioè apparentemente inutili: sono i respiri della frase. Gli a capo sono respiri un po’ più lunghi e servono per prendere ossigeno.
In fondo, anche le zanzare sono cibo per insettivori.

Decima (e ultima!) lezione. Sei arrivato alla fine. Hai scritto la tua opera. Finora ti sei divertito, hai dato sfogo al vero te stesso. Ma il lavoro inizia adesso: rileggi e ti metterai le mani nei capelli. E se per caso dopo la terza o quarta stesura qualcuno ti comprerà, allora entrerai in un vero e proprio incubo, perché la tua opera non sarà più tua, tutti ci ficcheranno il naso e le mani e vorranno dire la loro, ti costringeranno a cambiare questo e quello, ognuno ne darà una interpretazione personale lontanissima dalle tue intenzioni, eccetera eccetera.

Se volete seguire Olivia Crosio e saperne di più sui suoi romanzi, trovate tutto qui.

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Manuale di NON scrittura creativa/13

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Funziona un po’ come per le bugie. Fornire troppe spiegazioni non richieste è il modo migliore per far insospettire chi ci ascolta. Sempre meglio dare molto per scontato, dire il meno possibile, rimandare tutte le spiegazioni che possono essere rimandate e fornire solo le informazioni necessarie.

Con le storie è lo stesso.

Le informazioni sono il cruccio di molti scrittori, se le portano nello zaino come un fardello che non vedono l’ora di svuotare nella storia e farla finita. Ecco così che sul più bello, magari quando l’eroe è in pericolo di vita e i paramedici sono arrivati appena in tempo e stanno per praticargli l’iniezione che potrebbe salvarlo, senza sapere che il nostro eroe è allergico proprio alla medicina che stanno per sparargli in vena, mentre la siringa viene preparata, la storia si interrompe per:

  • avvisarci che il protagonista è allergico a quel farmaco (adesso?!).
  • spiegare che di solito tiene sempre al collo una targhetta che avverte dell’allergia ma che giusto il giorno prima se l’era tolta in piscina dove va tutti i mercoledì da undici anni ma poi l’ha dimenticata negli spogliatoi e quando se n’è accorto era troppo tardi e la piscina era chiusa.
  • raccontarci di quando da piccolo si trovò in una situazione identica e fu salvato dalla teppa della scuola che tirò il pallone contro l’infermiera un attimo prima che gli somministrasse la medicina.
  • spiegare che il nostro eroe ha sempre avuto un terrore cronico delle siringhe e che da piccolo si nascondeva sotto il letto per non farsi trovare ed era sempre il cane a rivelare la sua presenza alla madre
  • una breve storia degli otto anni di vita del cane, morto tragicamente sotto le ruote dell’auto del padre del protagonista.

E quindi, dov’eravamo rimasti? Appunto, dove eravamo rimasti?

La tensione della scena ormai è andata e il lettore ha perso ogni interesse, travolto da una valanga di informazioni inutili. Ma allora, quando dobbiamo informare il lettore e come fare a capire quali informazioni gli servono e quando?

In realtà, distribuire le informazioni è più facile di quanto sembri: basta aspettare che ce le chieda la storia. In qualche caso, dovremo tornare indietro e aggiungerle qualche capitolo prima, come nel caso dell’allergia del protagonista, ma è sempre la storia ad avvisarci, a chiedere spiegazioni, a esigere dettagli. Capiterà perfino di trovare le informazioni sulla pagina prima ancora di averle pensate.

La chiave, però, è limitarsi alle informazioni indispensabili. E per indispensabili intendo proprio indispensabili. Chi decide se sono indispensabili, chiederete voi? Siamo sempre lì: lo decide la storia.

Voi per esempio avete stabilito che la vostra protagonista ha divorziato cinque anni prima. Ma se ha perso del tutto i contatti con l’ex marito, se l’ex marito nella storia non compare, se nessuno dei personaggi sente il bisogno di chiederglielo o di ricordarglielo, se lei stessa non sente mai il bisogno di ripensare al primo marito e agli errori e alle gioie del primo matrimonio, allora è molto probabile che non abbia bisogno di saperlo neanche il lettore. E che la vostra protagonista non abbia mai avuto una fede al dito, qualunque passato avreste voluto per lei. Come bravi genitori, ogni tanto dobbiamo tirarci indietro e arrenderci all’evidenza: i nostri personaggi non fanno sempre le scelte che riteniamo più adatte a loro.

Se un’informazione è importante, sarà la storia a chiederla e se avete costruito bene la trama  e il personaggio, non ci sarà neanche bisogno di informare il lettore, perché lo capirà da solo. Non esiste insomma una regola universale sul momento giusto per dare un’informazione, ma in linea di massima vale sempre la pena di rimandare tutte quelle che possono essere rimandate, con almeno due eccezioni: la bomba e la pistola.

La bomba è quella di cui parlava Hitchcock, nascosta sotto il tavolo a cui chiacchierano tranquilli i due personaggi. Lo spettatore può non saperne niente e saltare sulla sedia insieme a loro, ma se lo sa, la tensione della scena salirà alle stelle. Anche la pistola arriva dai manuali di sceneggiatura, che insegnano che se a un certo punto compare una pistola, prima o poi dovrà sparare. Vale per qualunque informazione mettiate nella storia. Se non è importante, se la storia non ve lo chiede, meglio evitare di aggiungerla. Ma se la aggiungete, prima o poi dovrà farsi sentire.

Ascoltate la storia, insomma, e parlate solo se interrogati, come si diceva una volta ai bambini. Non so se i bravi scrittori lo facevano, ma sono pronta a scommettere che sono ottimi bugiardi.

Manuale di NON scrittura creativa/12

Foto Benson Kua (CC)
Foto Benson Kua (CC)

Poi c’è l’errore del pesce rosso, diffuso come il pesce da cui prende il nome.

L’errore del pesce rosso è quello in cui cadono le storie che si svolgono nel nulla, in una sorta di vuoto a perdere dove il più delle volte non troviamo neanche un’alghetta finta o un po’ di ciottoli sul fondo. I personaggi parlano, agiscono, si disperano, gioiscono nella loro vaschetta e il lettore li guarda un po’ come guarderebbe un pesce rosso, appunto. Dietro il vetro. Immersi nel nulla.

Quando va bene, sul vetro l’autore ha appiccicato un’etichetta con un’indicazione frettolosa del genere “si spostano in camera da letto” o “passeggiando al parco”, ma se cercate di capire, chessò, se la camera è luminosa o buia, se ha tende colorate alle finestre, se dà su una strada rumorosa o su campi sterminati, o se il parco è deserto o affollato, se tirano folate improvvise di vento, se il terreno è coperto da foglie autunnali o da aiuole vivaci, avrete un bel provare a incollare il naso contro il vetro della boccia. Dove si muova il pesce rosso resta un mistero, di cui deve farsi carico la vostra immaginazione.

Peccato che l’immaginazione, a differenza del pesce rosso (o forse proprio come lui) dopo cinque minuti nella boccia, senza uno straccio di atmosfera a cui aggrapparsi, un dettaglio insolito, una nota musicale, un raggio di luce che disegna ombre curiose sul vetro, finisca con l’annoiarsi e pensare a qualcosa di più emozionante, tipo la lista della spesa. E a quel punto la trasformazione in pesci rossi è compiuta, perché i vostri personaggi inizieranno anche a boccheggiare senza che al lettore importi un fico secco di quel che si dicono.

Se state leggendo questo Manuale sapete già che l’intenzione non è incoraggiarvi a scrivere, è esattamente l’opposto: mettervi in crisi, farvi incazzare, riempirvi di dubbi, perché solo così avrete la prospettiva giusta sulla vostra storia. Al calduccio e felici non si scrivono le storie migliori. Le idee giuste vengono quando siamo stanchi e infreddoliti, quando abbiamo bisogno, mai a pancia piena.

Alle domande da porsi a manoscritto ultimato che ho descritto nei post precedenti, per evitare di spendere un capitale in francobolli, aggiungete allora la Domanda del pesce rosso. Tornate indietro fra le pagine, guardate agire, parlare, soffrire i vostri personaggi e ignorate quello che si dicono, proprio come ignorereste i balbettii del pesce rosso, per concentrarvi invece esclusivamente sul posto in cui si trovano.

E se la risposta è «Quale posto?» potete iniziare a mettere via i francobolli e riaprire il file al computer.

Ecco, non c’è bisogno che vi dica che l’errore successivo è quello del Catalogo Ikea, in cui invadete la boccia del povero pesce rosso di mobili e suppellettili non richieste, di cui non sa cosa fare e che non gli lasciano lo spazio neanche per un colpetto di pinna. Non è necessario che includiate un registro esaustivo dei visitatori del parco nei dieci minuti in cui i vostri personaggi lo attraversano. Ma se c’è un dettaglio che può ravvivare il loro dialogo, qualche personaggio curioso che può fare da segno di interpunzione e, ancora meglio, rafforzare il clima emotivo della scena, il pesce rosso sarà felicissimo di fargli posto.

Allora, per citare una fonte indiscutibile come Ariel la Sirenetta, «Non fate i pesci rossi». Ma non cercate neanche di avere un controllo ossessivo degli ambienti. Funziona un po’ come con le stanze dei figli, noi ci mettiamo i mobili, ma se la camera avrà un’anima sarà soltanto grazie a loro. Lasciate fare ai personaggi, ogni tanto, chissà mai che non trovino una forchetta in una nave affondata e decidano che serve per arricciare i capelli. Altro che pesci rossi.