Altro che festival. Le magie del Women’s Fiction Festival di Matera.

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Foto dell’organizzazione del WFF

Matera ti costringe a pensare diversamente. Il primo segreto del Women’s Fiction Festival è questo. Lo scopri ancora prima di arrivare alle Monacelle, sede degli eventi del Congresso, quando capisci che fra i Sassi il senso dell’orientamento non serve: hai svoltato dove ti avevano detto di svoltare, hai seguito i cartelli, hai tenuto d’occhio il campanile del Duomo… e sei finita da tutt’altra parte! Google Maps alla prima scalinata in pietra ti abbandona, quindi inutile farci conto, sei proprio da sola. Ed è così, dopo qualche giro a vuoto, dopo aver scoperto che sui sassi di Matera le suole delle scarpe sembrano sottilette e dopo un principio di panico per chi soffre di manie di controllo (come me), è così che impari la prima lezione: per arrivare dove vuoi arrivare a Matera devi fidarti dei Sassi, e di te stessa. Guardarti intorno, memorizzare, notare i dettagli, cogliere l’energia del posto, lasciarti andare, fidarti del tuo intuito e della tua curiosità, spingerti dove normalmente non ti spingeresti, guardare sempre oltre la prossima curva, dimenticarti di te stessa e imparare a guardare davvero.

Il secondo segreto del Women’s Fiction Festival sono le organizzatrici. Funziona come per le torte, se le prepari con affetto per qualche ragione misteriosa sono sempre più buone. E al festival succede qualcosa di simile. Le vedi ovunque, neanche avessero il dono dell’ubiquità, instancabili, sorridenti, hanno sempre tempo per tutti, per un abbraccio, per due chiacchiere, per risolvere un problema, per gestire un panel, alzarsi e portare il microfono in sala, accompagnare un relatore disorientato. Se Matera ti abbraccia, con le sue curve e le sue forme femminili e accoglienti, al Women’s Fiction Festival senti che si stanno prendendo cura di te, cosa che non mi era mai successa a nessun altro festival. Si preoccupano che tu possa raggiungere tranquillamente l’albergo, che tu abbia caffè e prelibatezze a disposizione, si preoccupano di ascoltarti e di informarti e di rivelarti i segreti dell’editoria, e tutto in una sorta di lunga chiacchierata fra amiche, senza protagonismi, senza gerarchie che non siano quelle dettate dalle occhiate spaventate di chi si accinge a esporre la propria storia in tre minuti a qualche editor importante.

Matera riesce a farti credere che tutto è possibile, perché fra tante cure, fra tanto affetto, fra tanto benessere dell’anima e del corpo (piedi a parte!) l’unica cosa che ti resta da fare è dedicarti a coltivare i tuoi sogni e all’improvviso scopri di avere un’idea fantastica nascosta dietro i pensieri polverosi di sempre, la testa si riempie di storie, di parole, di personaggi. Storie, parole e personaggi che fanno capolino in ogni conversazione, in ogni chiacchiera, nei panorami mozzafiato che ti circondano, fino a quando non sei più sicura di saper distinguere la realtà dalla fantasia, la letteratura dall’amicizia, le storie dalla vita. Ed è allora, nell’istante in cui te ne accorgi e capisci che va bene così, che la magia è compiuta e sei finalmente sulla strada giusta.

L’altro segreto meraviglioso di Matera, non me ne vogliano gli uomini presenti, è che ci si muove in un universo tutto femminile, e chissà che cosa avrebbero pensato le monache del convento delle Monacelle (ora trasformato in albergo) a vedere fra le loro pareti tante donne riunite in religioso silenzio ad ascoltare chi spiega loro come realizzare i propri sogni. Chissà che non ci sia anche lo zampino di qualcuna di loro, perché mi piace immaginarmele tutte lassù, che guardano divertite e sorridenti e ci mettono una buona parola.

Per anni ho visto le foto di Matera e letto i resoconti del Festival, ma non ero preparata all’esperienza che ho vissuto. Il Women’s Fiction Festival ti trasforma, ti rassicura, ti fa sentire parte di qualcosa. E se non fosse perché ai panel, a prestare attenzione e a prendere appunti, scopri tutto quello che c’è da scoprire sull’editoria italiana e sulle sue tante tantissime sfaccettature, alla fine, mentre ti allontani con il trolley che sobbalza impazzito sui sassi, avresti l’impressione di essere tornata ragazzina, alla fine di una gita di classe o di un lungo pigiama party pieno di emozioni e di spunti per il domani. Con l’unica differenza che il grande amore da affascinare, convincere e conquistare non era il ragazzo del banco davanti, ma te stessa. La vera te stessa, quella che non credevi neanche più di conoscere e che invece era lì ad aspettarti paziente, con in mano un mazzo di sogni tutti da realizzare.

Riscrivere per ritrovarsi

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Foto jev55 (CC)
Le storie già scritte sono come le case in cui abbiamo abitato un tempo. In cui abbiamo sognato, ci siamo emozionati, abbiamo fatto progetti e coltivato relazioni fatte di conflitti e di prove. Quando ci torniamo dopo anni, ci aggiriamo fra le loro stanze credendo di conoscerle bene, di sapere che cosa troveremo svoltato l’angolo, ma prima o poi finiscono sempre per sorprenderci, per metterci davanti qualcosa che non ci aspettavamo e non ricordavamo. Tanto da farci sorgere il dubbio, per quanto assurdo sia, che sia passato qualcun altro dopo di noi a cambiare le cose.
Se bussiamo piano alle pareti e ascoltiamo con attenzione, poi, riusciamo a sentire se sono davvero solide o pericolanti, se sono intere o se nascondono un passaggio segreto, un nascondiglio, una cavità ancora tutta da esplorare.
A tornarvi dopo un po’ di tempo, il tempo necessario per dimenticare abbastanza e permettere alla nostra memoria di farci da editor, le pareti della storia a volte riservano grandi sorprese. Scopriamo per esempio che alcune possono essere abbattute senza pericolo, lasciando entrare aria e luce nella storia. E un attimo dopo ci accorgiamo che da qualche altra parte è necessario sollevarne subito un’altra, per evitare un cedimento strutturale di cui non avevamo tenuto conto.
Scopriremo porte che non conducono da nessuna parte, stanze che non comunicano fra loro, finestre troppo piccole che non valorizzano il panorama all’esterno. Ci sono stanze a cui non si può arrivare in alcun modo, perché ci siamo scordati la porta o le scale. Le abbiamo create per poi dimenticarcene e abbiamo costruito la storia tutt’attorno, soffocandole o riducendole a uno sgabuzzino.
A volte sentiamo il bisogno di aggiungere una cantina piena di tesori nascosti, o una soffitta in cui mettere quel che non ci servirà subito ma che tornerà utile più avanti. Altre volte dovremo andare a stanare quel tesoro e sistemarlo nella stanza giusta, perché ce l’eravamo scordato in garage o fuori dalla porta.
Anche le case più belle, quelle in cui siamo stati più felici, possono riservare sorprese, viste con altri occhi. A volte ci accorgiamo di essere stati troppo timidi, troppo preoccupati dalle necessità strutturali e dal bisogno che la casa fosse solida, per esempio, per ricordarci di fare in modo che ci assomigliasse davvero. Con le storie è lo stesso. In alcuni casi si ha bisogno di scriverle più volte, la prima per iniziare a conoscerle e imparare a costruirle senza che ci crollino addosso, la seconda per scoprire che quello che volevamo dire è rimasto in un angolo e che nessuno lo noterà, se non cambiamo il piano della casa. Qualche volta tocca sacrificare un personaggio e cacciarlo fuori di casa, qualche altro personaggio avrà una stanza più grande o magari addirittura un piano nuovo, tutto per sé. Possiamo togliere un’ala o aggiungerne una nuova, cambiare il colore della facciata e magari aprirvi intorno un bel giardino, o un piccolo parco. L’importante è che sentircisi a casa e lasciare che parli di noi.
La riscrittura, quando la affrontiamo con un pizzico di freddezza necessaria, ha qualcosa di frastornante e di rassicurante al tempo stesso, come smarrirsi in un labirinto e poi trovare finalmente l’uscita. Un labirinto costruito da noi, ma di cui abbiamo smarrito la mappa. E come per ogni viaggio, è quando ci si perde che si fanno le scoperte più belle. E si capisce che cosa è davvero importante.
Le regole del tè e dell'amore (1)

Manuale di NON scrittura creativa/16

 

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Foto Isidre García Puntí

Quando una storia non funziona, c’è quasi sempre un grande assente. La metafora. È la metafora infatti a fare la differenza. È lei, spesso, a trasformare ciò che si voleva raccontare in un racconto, le idee in una storia, le figure in personaggi. Come una bacchetta magica degna della fatina di Cenerentola, trasforma la zucca dello spunto iniziale in una carrozza, in grado di trasportare di gran carriera la fantasia verso il palazzo e il romanzo verso il lieto fine.

Sostituzione di un termine proprio con uno figurato, similitudine sottintesa, trasferimento di significato… Qualunque sia la definizione che preferite, sarà la metafora  a far spiccare il grande salto alla storia. Soprattutto se ci ricordiamo di usarla quando iniziamo a delineare i contorni di quello che racconteremo.

Nella stragrande maggioranza dei romanzi che aspirano a essere pubblicati manca un tema. E nella stragrande maggioranza dei romanzi in cui il tema è presente, viene messo in bella mostra così com’è stato concepito dalla mente dell’autore. Nudo e puro, quasi l’autore avesse paura di rovinarlo. Senza passaggi intermedi. Senza, appunto, diventare metafora.

Eppure le grandi storie nascondono tutte qualche metafora. Il taxista di Taxi Driver è una metafora della solitudine; la peste di Camus è una metafora del male; gli alieni dei romanzi di fantascienza sono spesso una metafora della diversità; gli zombie una metafora dell’alienazione; il mare di Baricco è una metafora della vita, il labirinto del Nome della rosa è una metafora della ricerca della verità… E gli esempi potrebbero continuare quasi all’infinito, sterminati e affascinanti.

Ma torniamo al nostro manoscritto, quello che il Manuale di NON scrittura creativa è qui per smontare impietosamente e sottoporre alla prova del fuoco. Riprendiamo in mano il nostro testo, già quasi pronto per essere spedito, e aggiungiamo un’altra domanda a quelle elencate nei post precedenti: dov’è la metafora?

Se l’intenzione era parlare della solitudine, ho introdotto un lungo dialogo del protagonista davanti allo specchio o l’ho raccontata attraverso una metafora, come l’autismo, la prigionia, l’isolamento, il gelo? Se il tema che mi stava a cuore era la vulnerabilità, ho tratteggiato una protagonista lamentosa e spaventata o mi sono affidata a metafore come una porta che non si chiude, una bambola senza un braccio, una mosca intrappolata in una ragnatela?

Ci saranno metafore più riuscite e altre meno, alcune più originali e altre più banali. Qualche metafora arriva sulla pagina per caso o trascinata dalla nostra ispirazione, senza bisogno di chiamarla. Qualche altra forse avrà bisogno di un lavoro più consapevole, nel momento in cui la storia prende vita. Non ha importanza. L’importanza è che non ci dimentichiamo di cercarle. E di usarle. E non solo perché arricchiscono il romanzo, non solo perché ci evitano di essere troppo diretti e didascalici. Soprattutto perché sono la bacchetta magica che darà vita alle nostre pagine nella mente del lettore. Perché non importa quanto siamo bravi, non importa quanto è interessante quel che abbiamo da dire. Senza la magia, senza qualche topolino come cavallo e un cavallo come cocchiere, la nostra fantasia non correrà mai a briglia sciolta e le idee non si trasformeranno in storie.

Manuale di RIscrittura creativa/2

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Quando decidiamo di riscrivere un testo, perché ci sembra che non funzioni o semplicemente per provare a vedere che cosa succede, con la curiosità di un bambino che smonta il suo giocattolo preferito, finiamo spesso per fare scoperte inaspettate. Proprio come il bambino. E come lui, anche a noi servono coraggio e incoscienza in parti uguali per cominciare, perché stiamo per mettere mano a qualcosa che amiamo e che molto probabilmente non tornerà mai più come prima. O almeno noi non lo vedremo più con gli stessi occhi. Quasi sempre, però, ne vale la pena. Perché arriviamo a conoscere la nostra storia molto più di prima. A conoscere il nostro percorso creativo. E a migliorarlo.

Ma da dove cominciare? La storia molto spesso ci piace già così com’è. Dopo tutte le ore che le abbiamo dedicato ci siamo affezionati a ogni singola riga e sì, certo, intuiamo che da qualche parte c’era qualcosa in più che ci sarebbe piaciuto dire, ma non sappiamo come arrivarci.

Un buon punto di partenza per la riscrittura sono i personaggi. Perché a volte ce ne sono almeno un paio che possono essere sacrificati. Attenzione, non sto dicendo che sia indispensabile farli fuori, che sia un errore non farlo e che ogni bravo scrittore dovrebbe avanzare fra le fila dei suoi personaggi mietendo vittime in modo spietato. Ovviamente ci sono storie in cui non è possibile farlo, per esempio quando sono molto corte o hanno pochi personaggi. Ma quando è possibile, spesso è un ottimo modo per cominciare a riscrivere una storia e soffiarci dentro nuova vita. Come capire quindi quali personaggi sacrificare?

Per cominciare, pensiamo che più miriamo in alto più i risultati saranno interessanti. Non sto suggerendo di far fuori il protagonista o la protagonista (cosa che peraltro aprirebbe scenari davvero impensati!), ma neanche di prendervela con qualche comprimario di cui forse non si sentiva la necessità, ma di cui non si noterà neanche la mancanza. E che quindi non ci costringerà a ripensare la storia.

I personaggi ideali da eliminare sono quelli che entrano a far parte della storia per un unico motivo, di solito per dare il via alla vicenda o per apportare un’informazione fondamentale o per presentare qualcuno a qualcun altro. Sono personaggi rilevanti, ben caratterizzati, spesso molto vicini al nostro protagonista e abbastanza presenti nella storia. Di quelli che non si può fare a meno di citare in quarta di copertina, per intenderci. Eppure, non appena proviamo a eliminarli, ci accorgiamo che quasi tutte le scene funzionano perfettamente anche senza di loro. Questo perché di solito erano distratti mentre il protagonista si occupava delle cose davvero importanti, si limitavano a qualche commento ininfluente ai margini della vicenda, non erano insomma di nessun aiuto e di nessuna utilità. Si limitavano a svolgere una funzione ed esaurita quella, vagavano per la storia come anime in pena, salvo di solito scomparire improvvisamente per non fare più ritorno.

Ecco dunque da dove possiamo cominciare se vogliamo cimentarci con la riscrittura. Proviamo a eliminare una o due di queste figure e vediamo che cosa succede.

Ecco alcune delle conseguenze possibili:

  1. il protagonista è costretto ad affrontare da solo le situazioni in cui usava il nostro personaggio-funzione come spalla, quindi ora non solo ha più spazio, ma siamo obbligati a farlo agire di più, a misurarsi con i problemi e le novità, ad assumersi un maggior numero di responsabilità narrative. A crescere, insomma, in un certo senso. Soprattutto se a scomparire è un membro della sua famiglia, un migliore amico, un fidanzato, un fratello o una sorella.
  2. in assenza del personaggio-funzione, siamo costretti a trovare un altro modo per giustificare determinati snodi, per esempio, il coinvolgimento del protagonista nella vicenda, il modo in cui viene a conoscenza di una certa informazione, il perché di una sua scelta. È uno dei momenti più interessanti della riscrittura e spesso la struttura narrativa ne esce enormemente rafforzata. Eliminare il personaggio-funzione infatti può servire a portarci più vicini al cuore della nostra storia, a sviluppare meglio il tema, a rendere più intimo e ricco il percorso del protagonista. Tolta la scusa, eliminato il pretesto, anche il protagonista sarà costretto a dire chiaro e tondo che cosa cerca, che cosa spera di imparare o quale conflitto spera di risolvere.
  3. alcuni dei tratti del personaggio-funzione possono ricadere su altri personaggi secondari, arricchendoli. Capita spesso che in una storia ci siano personaggi che si assomigliano o che hanno qualche affinità emotiva o caratteriale. Se decidiamo di eliminare uno dei due, l’altro avrà molte più sfumature a disposizione e potrà diventare più complesso e articolato.

Ma non finisce qui, ovviamente. Ora abbiamo una storia sbilanciata, un po’ zoppa. Nel prossimo post vedremo alcuni dei modi in cui possiamo provare a rimettervi mano, intervenendo sulla trama e sulla struttura narrativa. Per ora, anche se ci sembra impossibile, abbiamo una visione privilegiata dei meccanismi interni della nostra scrittura, dopo averla messa a nudo in modo un po’ crudele, dopo averla smembrata per poterla guardare più da vicino. Proprio come il bambino davanti al suo giocattolo, quando, tolti i primi pezzi, riesce finalmente a sbirciarci dentro.

Manuale di RIscrittura creativa

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Foto hapal (CC)

Dopo i buoni motivi per NON diventare autori esordienti, o almeno per fermarsi e porsi qualche domanda prima di mandare il nostro manoscritto in lettura, ecco i buoni motivi per RIscrivere una storia. E non mi riferisco a una rilettura superficiale, a un editing rapido che serve giusto a cambiare qualche pagina di dialogo e a correggere qualche incongruenza qua e là. No, la RIscrittura di questo nuovo manuale è drastica, impietosa, si abbatte come uno tsunami sulle nostre pagine, ma al tempo stesso è rigenerante, soffia nuova vita sulle braci della nostra storia e soprattutto è un’occasione unica per riflettere sull’atto creativo in sé, da una prospettiva nuova.

Ma attenzione, riscrivere in questo caso non equivale a correggere e non ha niente a che spartire con l’editing, che appunto ha lo scopo di individuare e risolvere i problemi di un testo.

La RIscrittura come la vedremo qui non muove necessariamente da un testo che non funziona. Sono convinta che abbia ragione di esistere anche a partire da storie che di per sé sono riuscite, che si consideravano concluse e che non appena vi soffiamo sopra di nuovo riprendono vita, in un palpito inaspettato.

Probabilmente ci sono storie che una volta terminate non ammettono cambiamenti o ribaltamenti di trama, ma sono poche, a mio parere. Quasi tutte  possono essere riprese in mano e trasformate, proprio come succede con la narrazione orale, come quando raccontiamo sempre la stessa storia ai nostri figli, in macchina, prima di andare a dormire, a tavola, e ogni volta aggiungiamo un dettaglio, un bivio narrativo, un personaggio, finché la storia a poco a poco non prende percorsi impensati e impensabili la prima volta che l’abbiamo raccontata.

La RIscrittura ha un fascino tutto suo, attinge al cuore pulsante della nostra ispirazione, fa sorgere domande a cui non avremmo mai pensato. Ci mette davanti ai nostri personaggi in un confronto serratissimo, costringendoci spesso a guardarli davvero, o almeno sotto una nuova luce. Permette di sbirciare nelle zone d’ombra della nostra storia (ogni trama ha le sue) quelle che per motivi di tempo, di economia narrativa o di pigrizia non abbiamo indagato abbastanza, per scoprirvi nuovi risvolti, episodi che aspettavano solo di essere scritti, emozioni intense e scene che racchiudono, a volte perfino meglio di tutte le altre, il senso della nostra storia e del nostro narrare.

La RIscrittura è un esercizio magico e prezioso, che consiglio a chiunque ami cimentarsi con la scrittura per il puro piacere di scrivere e di creare, senza ansie da nome in copertina e da posizione in classifica. Ci si può armare di carta e penna o provare semplicemente a immaginare quali nuove vite potrebbe avere la nostra storia.

E i risultati ci stupiranno.

Nell’ombra proiettata dalla nostra storia si nascondono infatti altre decine di storie. E abituare lo sguardo a distinguerle, lasciarle interagire con la storia principale, lasciare che la corrompano, che la obblighino a prendere nuove strade, seguirne i percorsi di significato senza preoccuparci di dove ci porteranno, è un’esperienza entusiasmante, forse perfino di più della prima stesura. È un viaggio senza mappa, nel sottobosco della nostra creatività, dove si agitano le storie ancora da raccontare.

Vedremo insieme, in questo nuovo manuale che si affianca al Manuale di NON scrittura creativa, come procedere in questa avventura. Perché si inizia con il fiato sospeso, ma quando si arriva alla fine si cammina a qualche metro da terra. E comunque sia andata, avremo imparato qualcosa di importante su come nasce una storia. E su come nasce uno scrittore.

Manuale di NON scrittura creativa/15

Foto Guillaume Menard (CC)
Foto Guillaume Menard (CC)

L’errore di oggi è uno dei più frequenti e invisibili in cui mi sia imbattuta. Frequente perché l’ho trovato anche in libri autorevoli, invisibile perché confesso che finché non ho iniziato a scrivere e me lo sono trovato sulla punta delle dita un’infinità di volte non ho capito che si trattava di un errore. E perché.

Qualcuno potrà obiettare che non si tratta di un errore e forse ha ragione, forse è solo una debolezza narrativa, uno spiraglio fra la finzione e la creazione, fra l’illusione di verosimiglianza e lo svelamento dell’artificio. Uno di quei momenti in cui l’autore e la macchina narrativa fanno capolino, senza volere, fra le righe.

Si tratta di una singola frase, insospettabile. Una frase all’apparenza innocente, di quelle che le leggi e non ci badi neanche troppo. A meno che l’autore non commetta l’errore – a questo punto sì – di perseverare e usarla più di una volta.

Come se mi avesse letto nel pensiero.

Eccola la frase incriminata. Ovviamente con tutte le varianti del caso. Come se gli leggesse nel pensiero. Quasi avesse appena letto nei suoi pensieri. E via dicendo.

Sembra innocente, vero? E lo è se siamo in un paranormal e il personaggio in questione può davvero leggere nel pensiero. O se la lettura nei pensieri altrui è in qualche modo un tema importante e dominante nella storia o nella relazione fra i personaggi. In una scena normale, invece, no.

Perché in realtà il personaggio non ha letto proprio un bel niente, è l’autore che ha piegato il dialogo alle sue esigenze narrative, che l’ha forzato, che ha accorciato troppo i tempi, non ha avuto la pazienza di arrivare al punto per vie meno dirette. In altre parole, nessuno ha letto nel pensiero a nessuno, tranne l’autore, che ovviamente legge nel pensiero di tutti ma dovrebbe far finta di no.

Pioveva a dirotto e iniziavo a temere che non avremmo mai più trovato un autobus per tornare a casa, sempre ammesso che l’ultimo non fosse già passato. Forse l’ultima possibilità che ci restava era fare l’autostop.

«Dici che dovremmo provare a chiedere un passaggio a qualcuno?» mi chiese mia sorella, come se mi avesse appena letto nel pensiero.

In un caso come questo è evidente che la sorella non è una medium e che la frase incriminata è semplicemente una soluzione di comodo, per inserire l’autostop nel dialogo. Quando esistevano molte altre soluzioni più rapide e indolori o più intriganti.

«Dici che dovremmo provare a chiedere un passaggio a qualcuno?» mi chiese mia sorella e io la guardai inorridita.

Solo l’idea mi terrorizzava. Iniziai a scuotere la testa per rifiutare, quando vidi l’ultimo autobus che ci passava davanti senza fermarsi, bagnandoci dalla testa ai piedi.

Attenti allora, quando uno dei personaggi sembra avere poteri divinatori improvvisi, chiedetevi se non state prendendo semplicemente una scorciatoia.

Non sia mai che qualche lettore legga nei vostri, di pensieri, e capisca che si è trattato di un attacco di pigrizia narrativa e che avete scroccato un passaggio alla telepatia.

Manuale di NON scrittura creativa/14

Foto Jes (CC)
Foto Jes (CC)

Dopo l’errore del Pesce rosso, arriva l’errore del Manichino. Anche questo molto più comune di quanto si creda. Se il pesce rosso vive in una boccia completamente vuota, circondato soltanto dalle sue bollicine d’aria, il manichino è… No, non è nudo. Anche, a volte, ma piuttosto che leggere il catalogo di Zara ogni volta che uno dei personaggi esce di casa, meglio lasciare alla fantasia del lettore il loro abbigliamento. Qualche capo sparso qua e là basterà a rendere l’idea.

Non è nudo. Il manichino che rischiate di trovare nella vostra storia è… immobile. Perfettamente, completamente, assolutamente immobile. Non gesticola, non cammina, non inclina la testa, non compie la benché minima azione, mai. Quando parla (perché parlare parlano sempre, ’sti benedetti manichini, pure troppo, di solito, e sempre con una voce un po’ enfatica, come quella che usano i bambini quando mettono le parole in bocca alle bambole), quando parla, dicevamo, il manichino non muove un muscolo. Non sorride, non si muove sulla sedia, non gli prude mai un piede, figuriamoci compiere una qualsiasi azione come, che so, bere un caffè o fumare una sigaretta. Niente, rigido come una statua di cera.

Eppure io sono convinta che nella testa dell’autore quel manichino fosse vivo, in carne e ossa. E che avrebbe potuto e voluto fare un sacco di cose, se solo l’autore si fosse ricordato di osservarlo un po’ più spesso, mentre scriveva, e gliel’avesse permesso. E invece l’autore era troppo preso dalla trama, dal dialogo, da quello che voleva dire, per ricordarsi del suo personaggio, mollato lì su una sedia e destinato a non fare più assolutamente – e intendo proprio assolutamente – niente fino alla fine del dialogo o della scena. Con un po’ di fortuna, prima della scena successiva l’autore si sarà ricordato di metterlo in una posa diversa, perfetta per la nuova vetrina, ma poi ancora una volta il dialogo ha il sopravvento e il manichino resta lì, dimenticato, senza potersi grattare quel piede che gli prude terribilmente, senza poter fare l’occhiolino a una ragazza di passaggio, sbuffare, agitarsi sulla sedia, sistemarsi una ciocca di capelli caduta sull’occhio, mordersi il labbro, sospirare, tossire… ossia fare tutte quelle cose che un personaggio farebbe volentieri, durante un dialogo. Un personaggio, non una persona, attenzione: una persona ne fa molte molte di più, ma sulla carta arriveranno solo quelle che sono significative per la scena e per la caratterizzazione del personaggio in questione.

Ancora una volta, è più facile di quanto sembri. Si tratta solo di ricordarsi dei personaggi, di scendere dal piedistallo dell’autore, fregarsene per un attimo del messaggio imprescindibile che trasmetteremo all’umanità con il nostro libro e delle parole meravigliose che abbiamo pensato per quel dialogo e raggiungere i nostri personaggi, vivere la scena insieme a loro. Anche solo il tempo di una rapida grattatina di piedi.