Insegnami a sognare

 

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Insegnami a contare, mamma.

Insegnami a cantare. Insegnami a scrivere, a leggere e a parlare.

Insegnami a lavarmi i denti e ad andare in bici e a fare i compiti.

Insegnami l’inglese e le buone maniere, a dire grazie e a non urlare.

Insegnami a vincere e a perdere, a essere prudente e coraggiosa.

E poi insegnami a sognare.

Insegnami i sogni delle donne, quelli che ti tieni dentro quando ti mordi il labbro inferiore e fingi di ascoltarmi. Quelli che si sono spenti sul fondo del tuo sguardo e quelli che lo fanno brillare quando pensi che nessuno ti veda.

Insegnami i sogni delle donne, quelli che aspettano il permesso di essere realizzati, quelli in cui non hai creduto abbastanza, quelli di cui ti vergogni, quelli per cui non hai trovato il tempo, quelli di cui non ti sei presa cura, quelli a cui mancava così poco, quelli a cui sei rimasta aggrappata.

Insegnami i sogni delle donne. E insegnami a non calpestarli mai, per nessun motivo. Insegnami a non metterli da parte, a non distogliere lo sguardo, a non trascurarli, a non sminuirli. Insegnami che sono importanti e che me li merito. Insegnamelo come mi hai insegnato tutto il resto, con il tuo esempio.

Femminismo Super Plus

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Foto z a m i r a no more (CC)

Ci sono cose che capisci davvero solo quando cerchi di spiegarle ai tuoi figli. Come la fotosintesi, il plurale in -ie o i lati buoni di tua suocera. E le mestruazioni. Non solo perché ti scopri vergognosamente impreparata su un sacco di dettagli tecnici o perché non sai mai dove ti porterà la domanda successiva o dove finirà il tampax che il figlio minore sta usando come elica. È perché ti scopri a parlarne come di una condanna, un piccolo segretuccio imbarazzante, una cosa che ti capita, da sopportare stoicamente come ogni brava donna che si rispetti, nel più assoluto silenzio. «E ringrazia che adesso puoi andare in spiaggia lo stesso»  ti scopri a dire, con le stesse parole che hanno detto a te in quel giorno che ti sembra ieri ma che ieri non è, quando avevi visualizzato schiere di donne in costumi a mezza coscia coraggiosamente incollate alle sdraio. «E non devi neanche metterti le mutande di plastica.»

Poi leggi qualcosa negli occhi di tua figlia, una sorta di incomprensione mista a incredulità, in cui ritrovi la stessa incredulità che avevi provato anche tu anni prima. E capisci che non è per la faccenda degli ovuli e neanche per la tua spiegazione raffazzonata e men che meno per il sangue. I bambini il sangue lo vedono in continuazione, a ogni caduta e a ogni graffio al parco. No. È la vergogna la parte che non capisce, come non la capivo io allora. Se succede tutti i mesi, dice quello sguardo in cui mi riconosco, se succede perché lo dice il mio corpo, non può esserci niente di male. Dove è andato a finire l’orgoglio di essere donna che mi hai insegnato finora? Entra in stand by per qualche giorno al mese? Come funziona esattamente, in quei giorni sei donna a metà? Sei donna nel modo crudele in cui ti impongono di essere donna, a volte, quando significa subire in silenzio, dimostrare il proprio valore soffrendo, come sa bene qualunque donna sia entrata in sala parto e abbia chiesto un’epidurale.

Poi un giorno senti sussurrare all’uscita di scuola di una compagna che ha sporcato di sangue il bagno e ti immagini che cosa deve aver provato quella bambina e all’improvviso capisci che è lì che nasce tutto il maschilismo del mondo, in quello stigma che ci portiamo dietro, senza neanche accorgercene. In quel peccato mensile da scontare, per cui non bastano tutti i cicli e tutti i palloncini rossi del mondo. E che torna puntuale come l’aglio, ogni ventotto giorni.

Pensi a tutte le situazioni in cui hai dovuto mentire, nasconderti, a tutte le volte in cui sei arrossita. A tutti gli anni in cui, una volta al mese, automaticamente, hai ricordato a te stessa che a essere donna in fondo in fondo c’è un po’ da vergognarsi. E il prezzo di quella vergogna si paga in monete sonanti, comprando assorbenti che al chilo costano più del tartufo.

Per più di trent’anni una parte di me ha creduto che una volta al mese la natura ti insegnasse ad abbassare la testa, che ti ricordasse qual era il tuo posto. Ora mi rendo conto che la natura non c’entra niente, che sono sempre stati solo condizionamenti sociali e culturali, gli stessi che ti spingono a pensare che la felicità delle donne sia intrinsecamente sbagliata e che essere donna sia essere meno, a prescindere. È una differenza sottile e sfuggente, forse, ma cambia tutto radicalmente.

Non so bene come se ne esce, confesso. Ma confido che lo sapranno le nostre figlie. Confido in un futuro in cui gli assorbenti costeranno come la schiuma da barba, in cui non ci si vergognerà a vederli sfilare sul nastro alla cassa e in cui le pubblicità la pianteranno di dirti che con l’assorbente giusto non te ne accorgi neanche, perché col cazzo che non te ne accorgi, sappilo, caro creativo uomo. Te ne accorgi eccome. Prova tu ad andartene in giro con un tampax infilato nel sedere, poi vediamo se ti viene voglia di fare la ruota.

«Ma perché succede?»
«È la natura, serve per riprodurci.»
«Come quando l’albero mette le ciliegie, ma una volta al mese.»
Sorrido. Messa così sembra improvvisamente facile. «Esatto.»
«Il sangue poi smette di uscire da solo, vero?»
«Sì, a un certo punto sì.»
«Allora okay, non c’è problema.»

La generazione on demand forse in fondo ha proprio l’atteggiamento giusto.

 

 

Il televisore nell’armadio

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Foto Giulia van Pelt (CC)

L’altro giorno ero in un’agenzia immobiliare e nella stanza accanto alla mia si discuteva della vendita di una casa. Ho sbirciato, incuriosita, e ho visto una coppia anziana insieme a una ragazza giovane, probabilmente la figlia, perché aveva gli stessi occhi intensi e mansueti della madre. Dall’altra parte del tavolo c’era una coppia giovane, belli, ben vestiti, impazienti.

Mentre aspettavo ho origliato, confesso. Stavo per smettere, annoiata da quel susseguirsi di tasse, assegni circolari, mappe catastali, quando la voce della signora anziana ha richiamato la mia attenzione. Mentre la figlia e l’agente immobiliare discutevano del contratto della luce e dell’assicurazione, lei li ha interrotti ansiosa per ricordare che nel secondo cassetto in bagno c’erano i suoi occhiali di lettura e che gli asciugamani buoni erano ancora nell’armadio in corridoio.

Ho sorriso. Doveva trattarsi di una seconda residenza, l’ho intuito dai loro discorsi. Ho sbirciato di nuovo. La proprietaria aveva una gran testa di capelli neri, acconciata per l’occasione, e una giacca scura di panno all’antica ma di buon taglio. Accanto a lei, il marito guardava sornione la coppia di successori e cercava di convincerli a comprare un quadro africano.

La segretaria dell’agenzia è passata da me per avvisarmi che la persona con cui avevo appuntamento era in ritardo. Era appena uscita, quando ho sentito la donna anziana commentare alla giovane acquirente, a bassa voce e in tono di intesa: «C’è una televisione nascosta nell’armadio in camera da letto. Sa, per quando mio marito faceva tardi di sotto» ha aggiunto con aria vergognosa, ma orgogliosa del suo piccolo segreto. Poi l’ho sentita sospirare. «L’ho curata così tanto quella casa.»

Una decina di minuti dopo, mentre io cercavo un appartamento in montagna a un prezzo ragionevole, ho sentito che uscivano e ho allungato il collo. La signora anziana avanzava in testa al corteo, tamponandosi discretamente gli occhi dietro le lenti scure. Il marito la seguiva a ruota scherzando con la giovane acquirente.

E mi si è stretto qualcosa dentro. Era una storia d’amore che finiva, quella fra l’anziana signora e la sua casa al mare. Ho pensato a tutte le attenzioni che doveva avervi riversato, pulendola e strigliandola, mentre gli altri se la godevano. E adesso stavano per svuotarla da cima a fondo rischiando di dimenticarsi i suoi occhiali di lettura nel cassetto del bagno. Tutte quelle pulizie erano state un gesto d’amore, in fondo, un modo come un altro per buttare fuori quell’intensità senza nome che a volte noi donne ci portiamo dentro e che se non traduciamo in gesti e parole ci marcisce nel petto e ci sommerge in una malinconia incurabile. Mi sono chiesta se la casa l’avesse ricambiata. Immagino che lo facesse la sera, quando la signora apriva l’anta dell’armadio e si godeva in solitudine il suo televisore segreto.

Se è stata davvero una storia d’amore, è stata una storia triste, probabilmente. Come tutte le storie vissute in solitudine, quella solitudine che conosciamo solo noi donne, credo, anche quando siamo al centro della più affettuosa e unita delle famiglie. Quella solitudine che tinge ogni piccolo piacere di un senso di colpa strisciante, perfino il piacere di un televisore nascosto in un armadio, di cui approfittare solo quando “mio marito fa tardi di sotto”.

Forse, pensavo tornando alla mia casa caotica e sporca, quella donna starà meglio, in fondo, senza quelle stanze di cui prendersi cura con tanta dedizione. Forse, esauriti a poco a poco gli oggetti su cui riversare le nostre attenzioni, un giorno potremo tutte aprire l’anta dell’armadio e trovarci dentro noi stesse. E a quel punto non avremo più scuse per guardare da un’altra parte, con un po’ di fortuna il senso di colpa tacerà e potremo ascoltare la voce che ci grida dentro.

Perché sono sicura che in realtà fosse quella voce a far piangere l’anziana signora dopo la vendita della casa. L’eco di una voce di tanti anni prima, una voce giovane, piena di sogni e di promesse.  Qualcuno di quei sogni sarà incorniciato nelle fotografie sulla mensola del camino, qualche altro, i più audaci ed egoisti, secondo me è rimasto sul fondo di un cassetto in una casa vuota.