Sì, perché spesso è la maternità a imporre limiti e decisioni. Per molte è il momento di una solitudine strana, una solitudine che suona colpevole e sbagliata, che ti si apre davanti nel momento in cui ti ritrovi inchiodata a responsabilità e doveri che fino a un attimo prima ti erano sconosciuti. Tu, e soltanto tu.
Perché dall’istante successivo al parto, tutti si aspetteranno che sia la madre a sapere che cosa fare, e poi nel caso spiegarlo con pazienza al padre. Tutti si aspetteranno che sia la madre a fare sempre la cosa giusta, a sacrificare ore di sonno, ad azzeccare ogni diagnosi come un medico esperto, a sapere come far scomparire le coliche, come calmarlo, come nutrirlo, come decifrare il pianto con la stele di Rosetta dell’istinto materno.
A un certo punto, però, ho scoperto che il mio femminismo era passato proprio da lì, da quella solitudine imposta e riscoperta, da quell’impossibilità di trovare l’approvazione altrui. Da quel bisogno improvviso di fidarmi di me stessa, senza aspettare il permesso delle persone intorno a me. E non solo quando mi davano dell’isterica perché correvo dal medico e poi si scopriva che avevo ragione io. Non solo quando mi sembrava di essere la madre peggiore del mondo. Quella solitudine era necessaria anche quando volevo lavorare, quando provavo a ritagliarmi spazi per me, quando sfuggivo, a poco a poco, alla maternità e decidevo che ogni tanto, almeno ogni tanto, venivo prima io. Anche se era necessario soltanto a me.
Per non dimenticare i propri sogni, ogni tanto bisogna dimenticarsi di essere madre. Ogni tanto. Ogni tanto i figli e la famiglia devono uscire dalla nostra testa per fare spazio al resto. E non significa trascurare nessuno, non significa essere egoiste, non è l’anticamera del “E allora i figli che cosa li hai fatti a fare?”. Di certo non significa che l’amore sia meno o meno importante. Non significa che alla prima emergenza non si possa essere lì con loro, anche se l’emergenza è che a Batman si è staccata la testa e se l’è mangiata il cane. Non significa essere meno mamma. Significa essere mamma in un modo diverso, senza perdere di vista se stesse, per esserci davvero, al cento per cento, io e tutti i miei sogni, quelli che coltivo quando non penso a loro e non posso stare con loro, perché i sogni sono esigenti e ti sfiancano e ti costringono a equilibri impossibili e se sei donna ti tolgono sempre qualcosa di più di quello che tolgono a un uomo, ma una famiglia senza sogni è una famiglia triste. E una famiglia senza i miei sogni è una famiglia senza di me.
Così ho imparato, anzi no, sto imparando, ad aggiungere un posto a tavola per i miei sogni, accanto a quello che c’è sempre stato per i sogni di mio marito e accanto alle decine di posti già apparecchiati per i sogni dei miei figli. Ed è stato faticoso, mi ha fatta sentire colpevole, ho tolto e rimesso quel piatto centinaia di volte, ci sono stati giorni in cui l’ho spaccato per la frustrazione, altri in cui ho usato un piattino di plastica sperando di sentirmi meno in colpa. Ma ho tenuto duro e l’ho lasciato lì.
La strada per i miei sogni passa per la solitudine, la solitudine che prova a volte una donna quando decide di non aver bisogno del permesso e dell’approvazione di nessuno, solo del proprio. Dobbiamo imparare a fidarci di quella solitudine, nascosta sotto la sensazione di essere tutte sbagliate, e a trasformarla in forza e fiducia. Perché è lì, sotto strati e strati di doveri e ruoli imposti da una società pensata per gli uomini e dagli uomini, è lì che inizia il cammino verso i nostri sogni. E a volte anche verso noi stesse.