HO LE MESTRUAZIONI!/2 In spiaggia

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Sì, sempre in maiuscolo e a voce bella alta, come nel primo post, ma in bikini questa volta!

Quando il gioco si fa duro, le donne mestruate cominciano a giocare a racchettoni in spiaggia. Ma che ne sapete, voi che passeggiate sul bagnasciuga sfoggiando muscoli palestrati tutti bozzi e steroidi, con una tartaruga capovolta al posto della pancia e un costumino stretto stretto si sa mai che non si noti. Ma che ne sapete voi di forza, di resistenza, delle prove di sopravvivenza, quelle vere?

“Non è che spunta il filo del Tampax?”

“Esisterà un modo per attaccare l’assorbente al pezzo di sotto del bikini e non ritrovarmelo sotto le ascelle?”

“Sicura che una volta in acqua si bloccano? Ma poi quanti secondi di autonomia ho fino al bagno?”

“Sangue? No, no, faccio il peeling con i semini del pomodoro. Fanno miracoli.”

“Uh, che schifo, non vorrai mica fare il bagno con le mestruazioni? Nell’acqua in cui poi entriamo anche noi per fare la pipì?”

Ebbene sì, fatti due rapidi calcoli, di tutte le bellezze in bikini intorno a voi, almeno un quarto ha le mestruazioni. Le mestruazioni. Quel piccolo dettaglio fisiologico da cui dipende sostanzialmente la sopravvivenza della specie, il segreto più difeso dopo la ricetta della Coca-Cola (“Sì, certo che lo so che cosa vi succede, state buttando fuori l’uovo scaduto.” “Ci credo che sei debole, perdere trenta litri di sangue ogni mese…”).

L’altro giorno il mio vicino di ombrellone ha cambiato il pannolino pieno di cacca santa sotto il mio naso e io ho capito e sono stata zitta. E l’altro giorno ancora l’ho vista quella signora con la messa in piega a prova di salsedine che entrava in acqua giusto giusto fino all’inguine e poi usciva più leggera con un sorrisino finto innocente, e io ho capito e sono stata zitta. E ho visto anche quel signore anziano che a riva si è fatto un lavaggio del cerume che neanche dall’otorino, e ho capito e sono stata zitta. E in acqua mi sono trovata davanti una nonna che ha tirato fuori dalle narici della nipotina abbastanza moccico da costruirci una diga, e anche quella volta ho capito e sono stata zitta.

E allora sapete che c’è? Io farò del mio meglio per non sporcarmi (per me, non per voi), ma se dovesse succedere, se mi ritrovassi con il costume insanguinato, con un alone rosso fra le gambe o con il cordino del Tampax che sporge dal costume, mi aspetto che voi capiate e stiate zitti.

Le nostre mestruazioni vi infastidiscono? Che peccato. Ce lo segniamo, fra le cose interessantissime  di cui non possiamo non tenere conto, subito dopo i rituali di accoppiamento dei pappagalli. Nel frattempo, mentre voi fingete che non esistano, vi spiace se per il Tampax zuppo usiamo il cono di plastica per i mozziconi di sigaretta?

Il burka anticellulite

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Chi vive al mare lo sa. A un certo punto arriva quel momento dell’anno in cui invece di salutare le madri degli amici dei tuoi figli al riparo di jeans e maglioni, ti ritrovi a farlo mezza nuda. E non solo le madri dei tuoi amici, anche le maestre, la parrucchiera, la cassiera del supermercato, l’idraulico, il tizio con cui hai litigato due mesi prima perché non ha rispettato lo stop, il dentista, l’imbianchino, e più il paese è piccolo, più l’elenco si allarga.

Dopo un po’ ci si abitua, ma salta anche all’occhio un dettaglio che, abituata alle mie interazioni cittadine, non avevo mai preso in considerazione. Il corpo degli uomini, svestito, non incide sulla loro autorevolezza, non più di quanto non faccia con i vestiti addosso. Tutt’al più ti può sorprendere con qualche tatuaggio o con qualche muscolo in più o in meno del previsto, ma poco altro. Perché il corpo degli uomini si può offrire allo sguardo o restarne indifferente, ma non è un pegno da pagare. Non è una colpa da scontare. Che sia terreno di esami appassionati e approfonditi o che passi indisturbato lungo il bagnasciuga, il corpo degli uomini esiste, è oggetto di desiderio come quello femminile, ma non è un biglietto di ingresso. Non chiede il permesso.

Questo ho capito interagendo con le persone che facevano parte della mia vita quotidiana pancia all’aria e cosce in bella vista. Il corpo della donna non è solo oggetto di desiderio, ha sempre qualcosa da farsi perdonare. È il nostro biglietto di ingresso e al tempo stesso la ragione per cui ne abbiamo bisogno e la moneta con cui lo paghiamo. Ci portiamo addosso un burka invisibile, fatto di creme anticellulite e cerette e cure dimagranti. Il nostro corpo non ha diritto di cittadinanza in quanto tale, non gli basta esistere, come a quello degli uomini, deve rispettare determinati canoni, deve essere attraente, deve occupare lo spazio che è stato previsto per lui e nel modo in cui è previsto che lo occupi. Il corpo della donna deve obbedire.

La “prova” della prova costume è un lapsus maschilista, uno di quei momenti in cui il linguaggio tradisce la mentalità a cui appartiene e la svela per quella che è. Non c’è niente di scherzoso in quella prova, non lasciamoci ingannare dai titoli ammicanti delle riviste e dalla finta complicità delle diete che compaiono sui siti di salute e bellezza. Quella prova non ha niente di amichevole, in realtà, è una sorta di attrai quindi esisti sotto una patina estetica che gli serve per dissimulare la propria ferocia e fingersi docile e nostro alleato. Quella prova è il nemico che dobbiamo combattere, non il nostro corpo, con quelle che ci hanno insegnato a chiamare imperfezioni e invece sono caratteristiche che lo rendono unico, diverso dal modello che ci vuole eternamente fertili e desiderabili. Eternamente giovani, la legittimazione di un immaginario maschile malato, intriso di pedofilia e sopraffazione.

Il nostro burka è l’eterna giovinezza che rende perdonabile il corpo femminile in tutta la sua fisicità, la maternità è (anche) un’arma con cui tenerlo a bada, il body shaming sono le frustate che riceviamo quando disobbediamo. Sì, è una metafora, no, non è la stessa cosa, ma resta comunque una forma di controllo che non ci appartiene e limita la nostra libertà. Ricordiamocene, ora che inizieranno a sommergerci di consigli su “come arrivare preparate alla prova bikini”. Ricordiamoci di quanto male ci stiano facendo, in realtà, quei “consigli”, e poi decidiamo se seguirli o meno, se continuare a guardarci nello specchio di cristallo delle aspettative e dei giudizi altrui o in quello che riflette soltanto il nostro benessere e il piacere e la necessità di stare bene con noi stesse.

Non chiamatela prova bikini

grey-seal-2164736_1280Capillari. Peli. Smagliature. Da almeno trent’anni ci combatto come se fossero piante infestanti nel giardino all’inglese impeccabile ed eternamente giovane che il mio corpo non è mai stato, in realtà.

Non è certo l’unica guerra in corso. C’è anche quella contro i chili di troppo, per citarne una, ma in quel caso se non altro la battaglia non è solo contro il mio corpo, anche contro uno squilibrio che lo minaccia, non solo estetico, contro un punto di non ritorno all’orizzonte. O almeno io così sempre l’ho vissuta. Ma l’accanimento contro i peli, contro la pelle che invecchia, inesorabile, ed è liscia e giovane e uniforme più o meno come un fossile del pleistocene, quello è diverso. In realtà sto combattendo contro me stessa. Quella con cui me la prendo sono io.

Certo, i capillari sono il segno di una circolazione che non funziona come dovrebbe e quindi a loro volta la spia di un disequilibrio, ma una spia accesa ormai da quando avevo quindici anni e che non si spegne se non dietro lauto compenso e sempre e comunque in modo provvisorio. Un po’ come la cellulite. Non dovrebbe esistere una sorta di condono cellulitico, dopo tutto questo tempo? Trascorso un determinato numero di anni, non è più perseguibile per legge. Ormai ce l’hai e te la tieni, come la veranda abusiva del vicino o il gatto randagio che dorme ogni sera nel tuo giardino. Dopo un po’ non si fa prima a lasciarlo entrare e dargli un nome?

All’improvviso mi sono resa conto che quella sono io. Non è una malattia, non è un errore di fabbricazione, non è un difetto, sono io. Mi sono stufata di accanirmi contro me stessa, come se non ci pensassero già abbastanza l’avanzare degli anni e i sensi di colpa. Basta. No, non ho le gambe giovani e lisce e perfette che farebbero così bene il paio con l’immagine di me stessa che coltivo dentro e che nessuno vede, ma che fa capolino dietro i sogni e i sorrisi. Continuerò a prendermi cura di me stessa, ma non a misurarmi con un traguardo che non mi appartiene. Prima di guardarmi allo specchio, mi assicurerò che lo sguardo che giudica sia il mio, e il mio soltanto.

Niente prova bikini, quest’anno, insomma. Rimandata a mai più. Se quel che vedete non vi piace, sentitevi liberi di guardare dall’altra parte. Il corpo degli uomini viene esibito, si allarga, si espande, occupa spazio, lo rivendica, si fa metafora del loro potere. Il corpo delle donne viene limato costantemente dagli sguardi e dalle aspettative altrui. Ma è nostro, ci appartiene, possiamo farne quello che vogliamo, ed esistono sicuramente modi migliori di vivere i mesi in cui lo liberiamo dai vestiti che trasformarli in un esame continuo.

Non chiamatela prova bikini, almeno finché non esisterà anche una prova bermuda al maschile e la posta in gioco sarà esattamente la stessa, quella sorta di diritto di cittadinanza sulla spiaggia che le donne si guadagnano a suon di diete e creme anticellulite. C’è uno specchio di cristallo, nell’immaginario collettivo, uno specchio in cui noi donne riusciamo a vedere solo il riflesso del giudizio degli altri e mai davvero ed esclusivamente noi stesse. L’estate è un ottimo momento per provare a farne a meno. Per vedere soltanto il nostro corpo, in quello specchio.

Famiglie da spiaggia

La spiaggia è un osservatorio privilegiato sulla famiglia. Padri piegati sotto il peso di borsoni coperti da orsetti dietro madri che avanzano a passo di marcia con il pargolo avvolto nel pareo stile crisalide. Mariti tempestati da raffiche di indicazioni e consigli da mogli e suocere, e che esibiscono le spalle scottate come scampolo di indipendenza. Madri che riempiono di crema da sole i quattro figli nel tempo che ci vuole al marito per togliersi i sandali e lamentarsi perché la doccia è troppo lontana.

Andare in spiaggia in famiglia è una prova di sopravvivenza. La spiaggia sta alla famiglia come l’Ikea alla coppia. Ma senza l’hot dog a salvare la situazione nel finale.

C’è la famiglia che sceglie la strategia della chiocciola e si porta dietro tutta la casa, con tanto di tavolini, sedie, caffè, ammazzacaffè, carte per la partita, sdraio, lettino, amaca, pinne, maschera, muta, salvagente per la nonna, tutto nel perimetro delimitato da due ombrelloni montati stile bunker, con i sacchetti di sabbia a tenere fermi i lati. Mangiano un pranzo di cinque portate, si alzano dalla sedia pieghevole il tempo di andare a fare la doccia e poi tornano a casa abbuffati e contenti.

C’è la famiglia selvaggia, che scende con due figli e un costume solo e niente giochini che poi si perdono, usate pure quelli degli altri. Niente, neanche essere sepolta viva sotto la sabbia o le urla del vicino quando i pargoli passano a lui, può distogliere la madre dalla cura del sonno o richiamare a riva quel puntino all’orizzonte che è diventato il padre. Quando il sole tramonta la madre apre gli occhi, il padre emerge stile Tritone dalle acque, prende i primi due bambini che si trova di fianco e se ne tornano a casa ustionati e contenti.

Di questa esiste anche la versione da terza età, con modalità praticamente identiche, quando i nonni in vacanza con i nipoti (“Vacanza un corno”) decidono di voler arrivare all’estate successiva e che il modo più sicuro per riuscirci sia fingere di essere scesi in spiaggia da soli e contare sulla benevolenza altrui.

Poi c’è la famiglia novella, quella che porta il bebè in spiaggia per la prima volta, con un padre ansioso che non perde di vista il pargolo per evitare che si metta in bocca i sandali, la crema da sole, il rastrello, cinque chili di sabbia, il telo del vicino, la coda del cane del vicino, l’alluce del vicino, e quando finalmente la creatura si addormenta sulla sdraietta torna a rilassarsi, pronto a scattare al primo vagito, mentre la moglie sfoggia il libro che non ha avuto il tempo di aprire negli ultimi dieci mesi e di cui leggerà sì e no due righe, per poi tornare a casa orgogliosa e contenta.

Non ci saranno viti e nomi impronunciabili, ma anche la spiaggia, proprio come l’Ikea, è un faro puntato su tutte le crepe del nostro nido d’amore. Che si tratti di scegliere il divano o di montare l’ombrellone, la domanda di fondo è più o meno sempre la stessa: perché non assomigliamo un po’ di più alle famiglie felici delle pubblicità? Perché il nostro equilibrio familiare è solido come il fondo della cassettiera da 29,9 euro?

In realtà, secondo me, le famiglie felici sono l’equivalente del tipetto calvo con l’aria saccente disegnato sui manuali delle istruzioni dell’Ikea. Non esistono. Servono solo a farci sentire sbagliati, incapaci e falliti. Le famiglie solide sono quelle in cui accartocci esasperato le istruzioni fin dall’inizio perché manca una vite, ti sei accorto di non avere il pezzo fondamentale, in cui ammacchi uno spigolo ancora prima di cominciare. E solo così, mettendoci una pezza, trovando una soluzione impensata, puntellando qua e là e ignorando il tipetto calvo e le famiglie degli annunci, si riesce a reggere, anno dopo anno, spiaggia dopo spiaggia, divano dopo divano.

La soluzione non è mai nel libretto di istruzioni, la soluzione è dimenticarsi della foto del catalogo e smetterla di sentirsi in colpa se non ci assomigliamo per niente.

Per essere felici non serve una famiglia felice, ma una famiglia in cui ci sia spazio per la felicità di tutti quanti. Anche sotto l’ombrellone.