La tristezza indecente delle donne

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“Super vitamine per una super mamma.”

“Dieci trucchi per conciliare famiglia casa e lavoro e riuscire a fare tutto, senza perdere il sorriso.”

“Sei stressata? Figli cane marito lavoro casa e genitori anziani ti sembrano un peso insostenibile? Scopri come arrivare a fine giornata e avere ancora energie per andare in palestra!”

Siamo circondate. Siamo subissate di consigli su come riuscire a prenderci cura degli altri e tenere la casa in ordine e smacchiare i grembiulini e tenerci in forma e il tutto dopo una giornata lavorativa di otto ore. Lo trovo meraviglioso. Mi fa sempre l’effetto di chi si aggira fra le rovine dopo un’esplosione e ti consiglia un panno per la polvere che fa miracoli. O di chi vede qualcuno affogare e gli ricorda che bisogna bere almeno due litri d’acqua al giorno.

Super mamma. Super donna. Le donne possono, sanno e soprattutto fanno. Ah, la forza delle donne. Uh, se non ci fossero loro. Eh, quanto sono brave. Dimmi quante volte ti sei seduta oggi e ti dirò che donna sei. Conta quante cose riesce a fare contemporaneamente una donna nel tempo necessario a un uomo per trovare i calzini. Oh, le donne, le mamme, il centro del mondo.

Ci stanno prendendo per il culo, lo sappiamo, vero?

Non abbiamo bisogno di integratori, non abbiamo bisogno di consigli su come combinare famiglia casa e lavoro, non abbiamo bisogno di trucchi. Abbiamo bisogno di fare l’unica cosa che nessuno vuole vederci fare, men che meno quelli che levano odi e glorie alla nostra capacità di stringere i denti: abbiamo bisogno di mollare.

Non possiamo fare tutto. Non siamo tenute a fare tutto, ma soprattutto, ed è questa la parte più dura da mandare giù, per prenderci cura di noi e dei nostri sogni dobbiamo smettere di prenderci cura degli altri. Almeno un po’. Almeno per un po’.

Non ci stanno (e non ci stiamo) solo prendendo in giro. Ci stanno (e ci stiamo) facendo male. E siccome ci hanno insegnato a soffrire in silenzio, ci ammaliamo in silenzio. E no, la nostra malattia non si cura con gli integratori. E neanche con le vitamine e con i trucchi delle riviste. La nostra malattia si chiama tristezza. Che roba squallida da fotoromanzo, no? Come suona antiquata e patetica, la tristezza delle donne. È volgare, indecente, egoista e segno di squilibrio mentale. Non la vuole vedere nessuno, la nostra tristezza. Per questo la nascondiamo come una brutta macchia sul tappeto buono e ci mordiamo le labbra e ogni tanto riempiamo troppo il bicchiere e ogni tanto prendiamo una pastiglia di troppo e ogni tanto ci facciamo del male. Perché siamo tristi. E non possiamo neanche dire che è per qualche nobile motivo che in quanto tale ovviamente non riguarda soltanto noi, come un amore non corrisposto. Non sono le lacrime della madre, non sono le lacrime della moglie, sono solo le lacrime della donna.

Che cosa terribile e indegna. La tristezza della donna che si è persa e non si trova più. Perché le sue cure non bastano agli altri e non servono a lei. Perché sotto tutte quelle cure e quei pasti e quei vestiti stirati e quella casa pulita di cui non frega niente a nessuno ci sono tutti i suoi sogni, anche quelli di cui si vergogna, c’è la sua paura di fallire, anche quella che non vorrebbe ammettere. È rimasto tutto lì sotto, un po’ per colpa sua, un po’ perché così era più facile, un po’ perché era quello che si aspettavano tutti da lei, un po’ perché i sensi di colpa, a fare il contrario, erano perfino più insopportabili del peso di tutti quei sogni e di tutte quelle paure.

Chissà che cosa succederebbe se provassimo a guardarla in faccia, quella tristezza, tutte insieme. A gridare forte che esiste e che non ce ne vergogniamo perché riguarda la cosa più importante del nostro universo, ossia – sorpresa! – noi stesse. Smettiamo di nasconderla, se c’è, smettiamo di pensare che sia sbagliata, o che renda sbagliate noi. Diamo un posto e un volto e un nome a quella tristezza. Quella tristezza a forma di vuoto, il vuoto lasciato da aspirazioni e desideri e sogni che forse possiamo ancora provare a spolverare e indossare. Anche se sono della taglia sbagliata, anche se non ci entriamo più, almeno all’inizio, saranno sempre e comunque meglio di quel vuoto a forma di noi stesse. A forma di quel che eravamo e di quel che non siamo diventate.

Obblighiamo gli altri a vederla, quella tristezza, se esiste, non teniamocela per noi, come se fosse il nostro sporco segreto, il più inconfessabile di tutti. Quello che fa più male. Non siamo folli. Non siamo stressate. Non siamo lunatiche. Non siamo isteriche. Siamo tristi. E siamo ancora in tempo per cambiare.

 

Vuoi fare una cosa femminista? Riposati

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Non si uccidono così anche le femministe?

Ci stanno prendendo per sfinimento. Ancora una decina d’anni a questo ritmo e al primo che dirà che le donne devono stare a casa risponderemo in coro “Ma magari, quando comincio?”

Ammettiamolo, questa faccenda del dover dimostrare quanto valiamo ci è sfuggita un po’ di mano. Siamo super mamme, super mogli, super sexy, super professioniste, super acconciate, super alla moda, super smaltate, super calzate, super depilate, super aletiche. Super donna puoi dirlo a tua sorella, qui siamo oltre. Ultra. Un’ultradonna con prestazioni inaudite, interfaccia in cinque lingue, capacità di gestire ottanta gruppi whatsapp al secondo e un bebè per braccio con riunione in cuffia e spesa in testa, scheda grafica impeccabile, memoria ram di ultima generazione, master in cucina esotica e attrezzata per sopportare mansplaining e schivare mani sul culo con disinvoltura e il dito già sull’hashtag metoo, capace di gestire campagne femministe e impastare il pane con lievito madre, farina integrale di quinoa e acqua dai ghiacciai vergini dell’Himalaya, e ricavarci pure un paio di storie Instagram e un post che spacca.

Le donne in carriera degli anni Ottanta ci fanno il solletico, patetiche imitazioni di quei polpi con la sindrome da iperattività che siamo diventate trent’anni dopo. Cinque minuti liberi sono diventati un’anomalia, una spia accesa, un malfunzionamento improvviso da riparare al più presto, prima che qualcuno se ne accorga. Lista della spesa, lavatrice, polvere, mail di lavoro in sospeso, status persi su Facebook, telo del divano da sistemare, scarpe da raccattare in giro per il soggiorno, piante da annaffiare, sopracciglia da strappare. L’importante è riempire al volo quel poro dilatato nelle nostre giornate tese come leggings di spandex.

Non si uccidono così anche le femministe? Ecco la maratona della vita, signore mie, tante donne che si sfidano fino all’ultimo muscolo dolorante, fino all’ultima emicrania, fino all’ultimo messaggio di whatsapp, fino all’ultima corsa a casa, fino all’ultima riunione, ventiquattrore su ventiquattro, a oltranza. Senza scordarsi di divertirsi con le amiche, andare al cinema, leggere i libri del momento, scrivere un paio di commenti arguti sui social, fotografare il pupo che poi cresce, giocare con il pupo che poi cresce, andare a comprare le scarpe al pupo che porca vacca se cresce, portare il pupo al nido che cresce bene lo stesso e si fa gli anticorpi, andare a riprendere il pupo dal nido perché gli anticorpi al primo virus hanno fatto i finti morti.

Insomma, sapete che vi dico. Io mi fermo. Non di colpo, che rischio il testacoda. Comincio con cinque minuti. Cinque minuti al giorno senza far niente, senza pensare a niente, cinque minuti da ferma, per provare a rallentare. Cinque minuti senza cellulare. Senza ascoltare i figli, senza decidere che cosa fare per cena, senza accarezzare il cane, senza raccogliere relitti alimentari da terra che in confronto il formaggio peloso della Schiappa è fresco di giornata, senza preoccuparmi se sono in ritardo con la consegna. Senza pensare al prossimo romanzo da scrivere e a come vendere quello appena scritto. Senza leggere i commenti sulla pagina, senza sfogliare un libro, senza aprire le mail, senza ascoltare musica, senza decidere che film vedere la sera, senza chiedere ai miei figli se hanno fatto i compiti. Cinque minuti da sola. E sono sicura che sarà la cosa più femminista che avrò fatto in tutta la settimana. Ritrovarmi all’improvviso al centro del mio mondo, per la bellezza di cinque minuti. Io e me stessa continuiamo a volerci un gran bene, ma ultimamente ci vediamo meno di una coppia di astronauti in due missioni diverse.

Più crediamo di dimostrare di essere invincibili, più ci stiamo preparando a essere sconfitte. Stanno per arrivare tempi duri, non facciamoci trovare già esauste. Se vogliamo vendere cara la pelle dobbiamo sapere chi ci abita, in quella pelle. Non facciamoci fregare dai cori del “Non mi siedo altrimenti chi si rialza”, dalle gare al martirio femminili, dalla stanchezza indossata come medaglia al valore, la prova definitiva del nostro essere donna: lo sfinimento. È una fregatura. Ci hanno fregate. Ci siamo fregate da sole. La strada del femminismo è lastricata di buone intenzioni e donne esauste.

Io dico di fermarci. Per ricordarci quanto valiamo. Per tornare a conoscerci, per sapere per chi stiamo lottando. Per poi tornare più incazzate, ribelli e riposate che mai.

Se non sei esausta, che mamma sei?

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«Stanotte ha dormito cinque ore.»

«Il mio quattro.»

«Beata te, noi abbiamo dormito solo tre ore.»

«Io due, e con lui che mi tirava i calci nella schiena.»

«Io una e mezzo, e nel frattempo allattavo ed ero tutta storta perché lui stesse comodo.»

«Io ho dormito solo mezz’ora, seduta, mentre allattavo, gli facevo il massaggio per le coliche, mio marito russava e intanto pensavo alla lista della spesa e al menù di tutta la settimana.»

Ci sono giorni in cui le conversazioni fuori da un asilo farebbero tremare le ginocchia a un penitente, roba che in confronto portare la croce scalzo in processione deve sembrargli una passeggiata.

«Io lo ho allattato con i capezzoli sanguinanti, io fino ai tre anni, io fino ai quattro, io fino ai sei…»

«I miei figli non hanno mai dormito una notte senza la loro mamma.»

«Non esco la sera da due anni, io da tre anni, io da quattro anni… Io esco ma lo chiamo sempre almeno due o tre volte perché non si senta abbandonato e non faccio mai tardi.»

A volte sembra che il cammino della maternità sia costellato di fustigazioni, che il valore di una madre si misuri nella rinuncia a se stessa, che la stanchezza sia una medaglia da appuntarsi bene in vista, dove le altre mamme possono vederla e farsi i loro conti.

Una vera madre non arriva a sera riposata. Una vera madre non chiude la porta neanche quando va in bagno. Una vera madre non dorme più di tre ore di fila. Una vera madre mangia gli avanzi del figlio e pensa a se stessa negli avanzi di tempo del figlio.

Una vera madre soffre quando torna al lavoro. Una vera madre si sente in colpa, sempre, costantemente, anche quando lascia il figlio a una baby sitter per andare a fare un lavoro che la lascia sfinita e svuotata e in cui la trattano male ma di cui ha bisogno per arrivare a fine mese. Figuriamoci se il lavoro le piace ed è quello che ha sempre sognato di fare. Allora non c’è insonnia che tenga, non c’è sacrificio, stanchezza, esaurimento abbastanza grande da giustificare l’audacia di inseguire sogni che appartengono solo a te, lasciando tuo figlio a crescere da solo dalle otto alle sei.

Così finisci per dirti che lavori e ogni tanto esci la sera anche per insegnare a tua figlia la lezione più importante, ossia a non rinunciare mai a se stessa, e per insegnare a tuo figlio che è normale e fondamentale che una donna continui ad avere una vita e a dedicarsi a se stessa, sempre e comunque.

Ed ecco che ci sei cascata di nuovo. Sei tornata a giustificarti, hai sentito di nuovo il bisogno di essere per lo meno un esempio, un modello da seguire. Ancora una volta hai sentito la necessità di dare qualcosa in cambio ai tuoi figli, per il tempo dedicato a te stessa.

Certo, arriviamo stanche a sera, inutile negarlo, con figli o senza. Certo, i nostri figli hanno bisogno di noi (anche se sono convinta che spesso ne abbiano bisogno meno di quanto crediamo e sia vero piuttosto l’inverso, che siano le madri ad avere bisogno di loro). Certo, fare la madre significa cercare continuamente un equilibrio impossibile e avere sempre e comunque la sensazione di tradire qualcuno o qualcosa. Ma è proprio necessario questo elogio costante della stanchezza delle donne? Non potremmo smetterla? Non ci fa un gran male, in realtà, questo insistere sulla nostra capacità di esaurirci?

Perché dietro i lamenti spesso recitati con orgoglio dalle madri, dietro la loro spossatezza esibita come sfida, come prova di valore, dietro le loro rinunce e quel riversarsi per intero nell’accudimento del figlio in una sorta di immersione senza bombole, fa capolino e resiste l’idea che la donna sia nata per soffrire. Che una donna sia davvero tale solo quando arriva a sera esausta. Che una donna riposata sia una donna a metà. L’apoteosi della Sindrome dello Strofinaccio. Con il rischio peraltro che l’amore venga servito come un ricatto costante, soprattutto quando poi i figli crescono, condito da lacrime e sudore, come un dolcetto a forma di cuore ma con una spolverata di recriminazioni.

Comincia e finisce tutto in sala parto, lo sa bene chi ci è passato. Dove l’epidurale viene somministata e vissuta come una sconfitta. Dove perfino l’infermiere che ti spinge sulla sedia a rotelle vuole sapere se partorirai davvero o opterai per l’imitazione, per il parto falso e “indolore” (ah!) che passa per le mani dell’anestesista. E se hai l’ardire di rispondere che no, che partorirai naturalmente, allora lo stesso infermiere, che probabilmente si fa la barba con il rasoio più indolore e delicato che trova sullo scaffale e non con il machete, lo stesso infermiere sarà lì ad aspettarti con un sorrisetto di sfida per sapere se l’hai fatto davvero. Se hai sofferto. Se sei stata una vera donna. «Ah. Dicono tutte che vogliono partorire naturalmente e poi se le senti strillare che vogliono l’anestesia.»

Donna, partorirai con dolore, allatterai con dolore, svezzerai con dolore, dormirai con dolore, educherai con dolore, lavorerai con dolore…

In alternativa avrai l’epidurale. O una montagna di sensi di colpa.