Non sono difetti, sono la prova che ce l’abbiamo fatta

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Le cicatrici, la pelle rimasta vuota dopo i chili persi, le grinze, le operazioni, un cesareo d’urgenza, una mastectomia, la pancia che reclama sempre più spazio, le braccia che sballonzolano un po’, i capillari di un sangue stanco e pigro,  i piedi un po’ storti, smagliature come corsie d’autostrada per ogni nostro cambiamento, i muscoli ingombranti dopo anni di sport, il seno afflosciato dall’allattamento, i segni incisi sulla pelle dalle operazioni…

È cominciata come una sfida, sulla pagina Facebook di Rosapercaso: ciascuna poteva indicare una parte del proprio corpo che non le piaceva, con cui provare a fare la pace quest’estate in spiaggia. E il risultato è stato magico. Perché a leggerli tutti insieme, quei commenti smettevano di parlare del nostro corpo e iniziavano a raccontare una storia. C’erano il trascorrere degli anni, il desiderio di essere diverse, le prove superate, gli ostacoli, le malattie, le guerre e i drammi e gli amori di tutte. C’erano parti sofferti e operazioni andate bene per miracolo e anni dedicati ai figli e il ricordo della giovinezza e la paura di invecchiare e tutte le tappe di una vita vissuta.

All’improvviso, a leggerli uno dopo l’altro, diventava evidente che quelli non erano affatto difetti. Tutta quella pelle in eccesso e la ciccia e il corpo che cambia e si trasforma e si rifiuta di obbedirci, e i peli e le gambe e il seno sempre troppo grande o troppo piccolo, e le vene che impazzano e le cicatrici non avevano più niente di brutto o di osceno o di vergognoso. Al contrario, erano meravigliosi. Erano la prova che siamo ancora qui, che abbiamo resistito, ce l’abbiamo fatta. Erano la dimostrazione della nostra tenacia, della nostra fortuna, della nostra forza. Del nostro ostinato rifiuto di essere perfette, per continuare a essere noi.

Come abbiamo fatto a non accorgercene? Come abbiamo fatto a scambiare per difetti il privilegio di abbassare lo sguardo su di noi e trovare quei segni ancora lì, nonostante tutto, nonostante noi, nonostante i nostri tentativi di scacciarli e farli scomparire? Quanto è magnifico un corpo che insiste, che non molla, che si aggrappa a se stesso in questo modo? Tutta quella pelle che si rifiuta di scomparire quando dimagriamo è eroica, non è oscena. Le cicatrici che ci ha scritto addosso la nostra storia non sono sgradevoli, sono la cosa più preziosa che abbiamo. Perché ci ricordano che siamo sopravvissute.

Che cos’è l’amore se non il privilegio di costruire ricordi comuni? Non è questo il segreto, non è questo che ci fa restare insieme, nonostante tutto, e ci riempie gli occhi di tenerezza e di desiderio, anche dopo tanti anni? E non è forse questo che continua a fare il nostro corpo, a scrivere i ricordi e a conservarli per noi, nonostante noi?

Stiamo sbagliando tutto, carissime, ma proprio tutto. Siamo ingrate, miopi e ci siamo lasciate fregare da quattro foto sulle riviste, invece di ascoltare chili di ciccia e di sangue e di pelle e di nei e peli, che ci conoscono e parlano di noi meglio di chiunque altro. Ci siamo lasciate convincere che il nostro corpo non ci appartenesse, che dovesse essere modellato sullo sguardo e sul desiderio altrui, che dovesse essere punito con un desiderio di perfezione impossibile. Portiamo addosso tutte le contraddizioni dell’essere donna, a cominciare dall’impossibilità di farci ascoltare, dal bisogno del permesso altrui, dalla necessità del castigo, dalla convinzione che il nostro corpo in realtà non ci appartiene.

Non c’è bisogno che il nostro corpo ci piaccia. Abbiamo confuso il nostro libro di storia con un romanzo rosa, il nostro diario personale con un articolo da rivista. Non è l’oggetto del nostro desiderio quello che vediamo allo specchio, non è la rappresentazione delle nostre aspirazioni e dei nostri sogni. Quel corpo siamo noi, è la nostra storia, porta scritte addosso tutte le nostre avventure, i nostri sbagli, le nostre paure. E il desiderio di essere diverse è solo una parte di quella storia.

Non siamo tenute a piacere nessuno. È da noi che il nostro corpo vuole essere ascoltato. Soltanto da noi. Ha custodito tutti quei momenti per ricordarci quanto siamo forti e tenaci, quanto siamo state fortunate, quanto siamo state sfortunate, quanto abbiamo lottato. I ricordi non sono forse tante cicatrici incise per sempre sui giorni e sulle ore? 

Non sono difetti, sono ricordi. Dobbiamo solo ricordarci di leggerli, ogni tanto. Il nostro corpo racconta la nostra storia. Non mettiamolo a tacere proprio noi.

 

MANUALE DI NON SCRITTURA CREATIVA/4

Lachlan Hardy
Photo by Lachlan Hardy – CC

Siamo al quarto post (potete leggere qui il primo, il secondo e il terzo) e mi rendo conto che non vi ho ancora raccontato niente di me. Sono nata una quarantina di anni fa a Milano, vivo in Spagna e lavoro nell’editoria da circa vent’anni, come correttrice di bozze prima, poi come lettrice di manoscritti, editor e traduttrice e infine (anche) come autrice di commedie sentimentali.

Allora? Che ne dite? Vi è piaciuta la mia storia? Vi ha appassionati? Come? Non era una storia? Come no? Quel che mi è successo ve l’ho detto, no? E c’è il crescendo e perfino una specie di lieto fine, a ben vedere. Non mi dite che non vi ho intrigati. Che cosa vi è mancato?

D’accordo, ho esagerato, ma qualcosa di molto simile succede in più inediti di quanti immaginiate. Non raccontano: riassumono, riferiscono, informano il lettore di quello che è successo ai loro personaggi. Sinossi di quattrocento pagine spacciate per romanzi. E non è facile spiegare quello che manca alla storia, perché in realtà quello che manca è la magia, il tocco del narratore, la capacità di farci dimenticare che stiamo leggendo e trasportarci altrove.

La magia non sono in grado di spiegarvela, ma proverò almeno a indicarvi un paio di posti in cui la troviamo di solito:

– i luoghi

Ma come, l’ho detto chiaro e tondo che sono nata a Milano e ora vivo in Spagna, non vi è bastato?

No, non i luoghi geografici, non solo almeno. I luoghi intesi come gli spazi in cui si muovono i protagonisti, che sia una metropoli o la loro cucina. E non basta menzionarli. Chi legge deve vederli, percorrerli, sentirli. E questo ci porta dritti al secondo punto:

– le atmosfere

Che cosa avrei dovuto scrivere, che nelle redazioni delle case editrici ci sono livelli di stress da fare invidia a una sala operatoria prima di un trapianto, ma con i dizionari al posto dei monitor? Questo lo sanno tutti.

Appunto, lo sanno tutti. Quando descrivete un’atmosfera, se lo state facendo davvero bene, state inchiodando la vostra storia alla pagina, la state rendendo unica. Se riuscite a creare l’atmosfera giusta lo capite, perché la storia vera si sposta lì. L’atmosfera giusta però non sono due lucette su un panorama notturno. E potete aggiungerci tutte le cicale o i cani che ululano (sì, lo so, l’ho fatto anch’io) che volete. L’atmosfera giusta è uno stato d’animo. Anzi, quando è proprio riuscita, l’atmosfera è il grido che abbiamo dentro e che non riesce a uscire.

Beccatevi questa. Ma non c’è bisogno di aspirare a tanto, tranquilli. Fra gli scaffali c’è posto anche per chi sa raccontare una bella storia senza scomodare le urla che si porta dentro.

Raccontare una bella storia, però. Non riferirla.