Ed io, avrò cura di te

munich-1220908_1280

“La colpa è delle madri che educano male i maschi.”

“I figli li crescono le mamme.”

“Oh, che bravo papà, cambia perfino i pannolini poverino.”

Ho visto madri strappare dalle braccia dei padri i figli piccoli e difendere la propria posizione a suon di tetta, che di mamma ce n’è una sola e viene prima di tutti. E ho visto madri che ogni santo sabato si trasformano in polpi a otto braccia per gestire figli e cane e passeggino e cellulare e borse della spesa e amici dei figli, perché il marito il fine settimana va in bici con gli amici “che almeno quando torna è di buon umore”.

Non è una partita a squadre, insomma, in cui la questione paterna rotola da un campo all’altro come un pallone preso a calci dalla posizione di turno. Nel caso, assomiglia forse di più a quei calcinculo in cui tutti prendono a calci tutti quanti e quando scendono hanno le vertigini e qualche livido.

Qualche giorno fa, in un post su Facebook Matteo Bussola lamentava giustamente il fatto che gli uomini che fanno i padri finiscono per essere ingabbiati in un lessico al femminile, con quello scherno misto a tenerezza con cui li trattiamo a volte anche nella vita reale. Del resto, alzino la mano i papà che saprebbero trovare un capo di abbigliamento a scelta del figlio a occhi chiusi, che fanno parte di almeno una chat di classe di Whatsapp o quegli esemplari ancora più rari che si ricordano il nome della maestra e il giorno della frutta, della ginnastica, del riciclaggio, del libro da condividere, del fegato di tacchino per l’ora di scienze, quello in cui ci si veste tutti di rosso e quello delle tabelline creative.

Poi però alzi la mano il papà che è riuscito a rimproverare il figlio davanti alla madre senza che lei intervenisse, che non si è sentito una bestia rara alle feste di compleanno, che al parchetto ha potuto consolare il figlio da solo, senza che accorressero tutte le donne presenti decise a salvare il pargolo in balia delle cure paterne con lo stesso spirito con cui un meccanico aiuterebbe una bionda a cambiare una gomma.

In tutta onestà, non so se sia meglio essere ricoperta di critiche perché lavori e non sei sempre presente e disponibile per i tuoi figli, o essere ricoperto di complimenti se ti ricordi di soffiare il naso a tuo figlio invece di lasciarlo andare in giro stile vulcano moccicoso in eruzione.

Forse dovremmo fermarci tutti quanti a riflettere. Invece di saltar su ogni volta con la storia che le madri devono educare i maschi come si deve, perché non proviamo a lasciare più spazio ai padri nel quotidiano dei figli? Non in termini di autorità, come è stato sempre fatto, più o meno ingannevolmente – “Chiedi a tuo padre e digli che io ho detto di sì” – ma in termini di cura. Non sarà più utile, per imparare il rispetto dell’altro sesso, crescere senza dare per scontato che l’accudimento sia femminile e l’assenza maschile? La strada per la parità di genere non passa secondo me dalle favole della buonanotte per bambine ribelli, ma da padri che leggono la storia della buonanotte a bambini ribelli, che si prendono cura dei figli, che li pettinano, li vestono, danno loro da mangiare, che curano le ferite e scacciano le preoccupazioni, da padri che vanno a parlare con le maestre, che comprano vestiti, che scelgono il colore del cerchietto, che si alzano nel cuore della notte a portare un bicchier d’acqua e a uccidere i mostri dietro la porta.

Certo, l’educazione dei figli non è una responsabilità delle donne, è responsabilità comune. Ma non c’è educazione senza cura ed è qui che noi madri fatichiamo a mollare l’osso e a perdere il controllo della situazione. Sull’autorità siamo disposte a chiudere un occhio ogni tanto, ma quando la creatura cade e si fa male, quando ha fame o piange o c’è da decidere la fantasia delle lenzuola e il colore della calzamaglia, fate largo, ci pensa mammà. C’è una zavorra enorme nell’emancipazione femminile ed è lo scettro con cui ci teniamo strette la supremazia dell’accudire. Finché non lo lasceremo andare, rischiamo di non volare alto quanto vorremmo e di fermarci molto prima di dove avrebbero potuto portarci i nostri sogni.

Prendersi cura dei figli non intacca la mascolinità di nessuno, su questo sono (quasi) tutti d’accordo. Ma quante donne sono davvero convinte che non farlo, o farlo meno, non scalfisca la loro femminilità?

Si chiama amore lo stesso, anche se ogni tanto vengo prima io

beach-1799232_960_720

“Non riesco neanche più ad andare in bagno da sola.” “No, non posso uscire, non è capace di stare senza di me.” “Non ho mai dormito neanche una notte senza di lui, in sette anni.” “Verrei molto volentieri, ma devo aiutarlo a fare i compiti.” “Certo, a furia di scarrozzarlo di qua e di là non ho più una vita, ma mio figlio ha la precedenza su tutto.”

Si potesse ricavare energia dallo spirito di sacrificio delle mamme, non ci sarebbe più bisogno dei pannelli solari. Quanto orgoglio trattenuto dietro le loro lamentele, dietro le loro rinunce esibite come medaglie. La mamma che si sacrifica, che non dorme, che non ha più una vita.

Chili e chili di sacrificio, che finiranno per seppellirci tutte. Quanto siamo disposte a pagare l’illusione di essere indispensabili? E nel frattempo, mentre ci facciamo sempre più piccole, mentre facciamo la tara alle nostre esigenze, mentre barattiamo il nostro tempo con la sicurezza dell’approvazione altrui e del riconoscimento sociale, nel frattempo i nostri figli ci osservano. E mentre noi cerchiamo di insegnare loro a parlare inglese, a giocare a tennis, a dire grazie prego e per favore, mentre ipotechiamo il nostro tempo per la loro sicurezza in se stessi e la consapevolezza di essere amati e apprezzati, mentre li valorizziamo, li stimoliamo e li analizziamo alla ricerca di batteri e disturbi e frustrazioni ed etichette più o meno salvifiche, c’è una cosa che imparano su tutte le altre. Una lezione che respirano nell’aria ogni volta che stanno con noi.

La mamma c’è, c’è sempre. La mamma si sacrifica per me. La mamma mette la mia felicità al di sopra di ogni altra cosa. Di certo al di sopra della propria. Il tempo della mamma vale meno del mio. Il tempo del papà no.

Ogni volta che mettiamo la felicità dei nostri figli davanti alla nostra stiamo insegnando alle nostre figlie che un giorno dovranno fare altrettanto. Non importa se sanno parlare cinque lingue e sono campionesse in almeno due discipline sportive e hanno un master che ci è costato un rene: quando saranno grandi la felicità degli altri avrà la precedenza. Ogni volta che rinunciamo a uscire con le amiche, a leggere un libro, a lavorare, a creare qualcosa di nostro, a ritagliarci tempo per noi dietro una porta chiusa, stiamo insegnando alle nostre figlie che tutto quello che stanno imparando ora, che tutta la loro creatività e intelligenza e fantasia, tutte le loro risorse e il loro potenziale, un giorno dovranno scivolare sullo sfondo della vita di famiglia. E stiamo insegnando ai nostri figli che un giorno avranno accanto una donna che farà altrettanto. Che un giorno avranno una moglie che si farà carico dei bisogni altrui e metterà da parte i propri. E che è giusto così.

Dovremmo provare a guardare dietro lo schermo dei nostri sacrifici. A vederci come ci vedono le nostre figlie e i nostri figli. Dovremmo ricordarci che si impara di più a salutare la mamma che esce con le amiche o parte per un viaggio di lavoro che a leggere tante belle storie della buonanotte sulle ragazze ribelli. Perché anche le ragazze ribelli hanno figli che hanno bisogno di loro e a cui devono dire di no, ogni tanto. Anche le ragazze ribelli hanno bambini che le vorrebbero sempre accanto e da cui devono separarsi, a volte. Le ragazze ribelli ogni tanto si sentono egoiste e ingrate e mamme schifose. Le ragazze ribelli hanno dovuto scegliere e non sono sempre sicure di aver scelto bene. Le ragazze ribelli hanno bisogno di tempo per sé, hanno le case più sporche delle altre, mariti più efficienti, meno torte in forno e figli che ogni tanto sentono la loro mancanza. È questa la vera storia della buonanotte che dovremmo raccontare alle nostre figlie, se vogliamo che un giorno sappiano ritagliarsi addosso la propria vita prendendo le misure soltanto su di sé, se vogliamo che un giorno possano misurare il proprio valore sui risultati raggiunti e non su quelli a cui hanno rinunciato per amore degli altri.

Si chiama amore lo stesso, questo dovremmo dire prima di spegnere la luce, si chiama amore lo stesso, anche se non posso darti tutto il tempo che vuoi e che vorrei. Si chiama amore lo stesso, anche se ogni tanto vengo prima io.

E se Cenerentola fosse la favola più ribelle di tutte?

child-1244531_960_720Una giovane dalla vita sfortunata, costretta a dimenticare i propri sogni di felicità a colpi di straccio e di scopa. Le persone che la circondano non fanno che ricordarle qual è il suo posto e sono decise a impedirle di realizzarsi ed essere felice. Ma lei non demorde, insiste, tiene duro e, complici alcuni amici molto speciali, riesce ad arrivare dove si era ripromessa e una volta lì, si trasforma. È bellissima, irresistibile, sa di poter ottenere tutto quello che vuole. E infatti se lo prende.

Non è anche questa una favola perfetta per bambine ribelli? In cui la protagonista si ribella a quello che il destino sembra aver scritto per lei? Non solo. Ci ritroviamo alcuni dei temi fondamentali del femminismo e della battaglia che ciascuna donna deve combattere per trovare la propria strada: la solitudine che ti si spalanca intorno nel momento in cui reclami il diritto a fare di testa tua, il senso del dovere imposto a forza contro il piacere, la necessità di essere ostinata e non mollare mai, anche quando il sogno sembra ormai perduto e impossibile realizzare.

Che cosa cambia, allora, se per riuscirci servono dei topolini che si improvvisano sarti, una zucca che si improvvisa carrozza e una fata che per un pelo non si lasciava il vestito nella bacchetta? E che cosa cambia se il sogno della protagonista era sposare il principe azzurro? Non è questa la parte più importante. L’importante è quello che fa per riuscirci, che ci creda fino in fondo, che non molli mai. È questa la lezione che Cenerentola ha lasciato alle bambine di mezzo mondo (insieme a una pessima reputazione per le matrigne). Il principe è un simbolo, poco di più. Potremmo scambiarlo con un viaggio, con un bel lavoro, con una casa e la storia non cambierebbe poi più di tanto.

Lo dimostra il fatto che i bambini e le bambine non amano Cenerentola perché lei alla fine sposa il principe. Della favola nella versione Disney ameranno soprattutto i topini, l’apparizione della fata smemorata, la cattiveria e la ridicolaggine delle sorellastre. Ameranno tutto ciò che li ha emozionati e li ha fatti ridere, quindi l’ingiustizia e poi l’arrivo al ballo e il riscatto tanto a lungo sognato. Proprio come chi scivola e si affanna sul palo della cuccagna non lo fa perché sa che in cima troverà un prosciutto o una bottiglia di spumante, lo fa per l’ansia e il piacere di vincere. Il principe delle favole, insomma, è un po’ il nostro prosciutto. Dice un paio di battute, non si fa notare troppo, nel complesso ha il carisma di un merluzzo sotto sale, ma è lì, a indicare il traguardo, la fine della storia.

Altro che castelli e bianchi destrieri, niente ci ha preparate alla futura convivenza come un principe che da solo non trova neanche le armi, se qualche fatina irriverente non gliele piazza in mano, che prima ti bacia e poi ti chiede come ti chiami, che è convinto di essere il protagonista solo finché le donne della storia glielo lasciano credere e fanno tutto il lavoro sporco al posto suo. Non ricordo il volto di un solo principe delle favole Disney, ma riconoscerei ovunque una delle principesse. Non è emancipazione, questa, in un certo senso? Non c’è bisogno che alla fine la protagonista apra un ristorante come avviene in La principessa e il ranocchio, non è neanche necessario che lei alla fine diventi una famosa tennista o una pittrice. Quello che importa è la magia, è la fiaba, è credere nella possibilità che il sogno si avveri, se ci metti tutta te stessa e tieni duro, nonostante tutto. Quello che conta è sapere che ciascuno ha la propria favola e il diritto di viverla fino in fondo.

Non è quel che si racconta, insomma, ma come lo si racconta. Generazioni di bambine si sono identificate in Mowgli e in Peter Pan e perfino in Bambi, senza avere bisogno di un corrispettivo femminile. È la storia a fare la differenza, il modo in cui vengono distribuite le informazioni, la posta in gioco, i conflitti, la dimensione emotiva. Se la storia funziona, se ti coinvolge, se ti emoziona, se ti permette di identificarti, non importa più che il protagonista sia un maschio o una femmina. Non c’è neanche bisogno che sia una persona. Sono sempre le parole a compiere la magia, non la storia edificante che vogliono raccontare.

Una favola ben raccontata è ribelle e rivoluzionaria, a prescindere dal sesso dei suoi protagonisti. Basta che scatti la magia, che la storia ci porti con sé, che ci insegni a superare i nostri limiti e a realizzare le nostre aspirazioni. Che ci convinca che abbiamo il diritto di inseguire i nostri sogni, sempre e comunque, senza lasciarci scoraggiare dalle matrigne crudeli o dai lupi cattivi.

Una favola ben raccontata è sempre femminista, a modo suo, perché non c’è niente di più femminista che credere nell’impossibile e trasformarlo in realtà.