L’assoluzione delle risate

 

042317_1320_Amicischerz1Ci sono uomini, e forse anche qualche donna, convinti che una palpatina al culo sia un po’ come lo scodinzolio di un cane. Chi può resistere? Quale donna sana di mente e nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche e mentali non prova almeno un brivido di piacere a ritrovarsi le cinque dita di un estraneo sul sedere, ogni tanto? Escluse, le femministe, ovviamente, che si sa sono tutte un po’ frigide e non sanno divertirsi.

Dev’essere questo che avevano in mente ad Amici quando hanno imbastito quello spettacolino abbastanza vomitevole, in cui le molestie sessuali venivano spacciate per divertimento, ridotte a un numeretto di avanspettacolo di cattivo gusto, certo, ma era pur solo per farsi due risate. “Io l’ho trovato divertente”, ha detto più di una donna nei commenti sui social, del resto non erano poche le donne in trasmissione che ridevano.

Ma allora su, ridiamoci sopra, ridiamoci sopra un po’ tutte quante. Anche quando sei un’adolescente intimidita e qualcuno ti si struscia addosso in un autobus affollato, non vorrai mica voltarti e dargli del porco? Che poi qualcuno penserà pure che ti è piaciuto e che ti vergogni. Vergognarmi mi vergogno, ed è anche per questo che è più facile farci una risata sopra, per nascondere la vergogna, non fosse che insieme alla nostra nascondiamo anche quella di chi invece dovrebbe soffocarcisi. E invece no, a vergognarsi è sempre la vittima, prima dell’aggressore. Ci si vergogna perché ci si sente un oggetto, perché si è deboli, umiliate, perché le mani di un estraneo addosso ti spogliano di qualcosa di così intimo e privato che riderci sopra sembra l’unico modo per proteggersi un po’, per sentirsi meno nude.

A non ridere ci vuole una gran forza e ci si sente sole. La solitudine del resto è spesso il prezzo da pagare per fare la cosa giusta e avvicinarci un po’ di più a noi stesse. Ridere invece è tanto più facile, ridere e passare oltre. È l’assoluzione più facile e più imbecille di tutte, quella delle risate. Da una risata però non si torna indietro tanto facilmente.

Il confine fra lo scherzo e la violenza è un confine sottile, che spesso si trasforma in arma. Lo sanno bene le vittime del bullismo. Dove finisce lo scherzo e dove inizia la prevaricazione? Quanta umiliazione costa al chilo il divertimento altrui? Nel caso delle molestie sessuali credevamo che almeno il confine fosse chiaro, per fortuna la televisione ci è venuta in aiuto e ci ha spiegato che non è chiaro per niente. Che ancora non abbiamo il diritto di lamentarci quando ci fischiano dietro, quando ci toccano senza il nostro permesso, quando il primo arrivato si sente in diritto di allungare le mani. E se può farlo un ballerino davanti alle telecamere, vuoi che non possa farlo un capoufficio dietro l’intimità di una porta chiusa?

Forse anche in questo caso il femminismo rosa ci può venire in aiuto. Perché è dietro le nostre emozioni, sul fondo di quella vergogna che ci sforziamo di nascondere, di quella debolezza solo apparente, che si nasconde il potere di raccontare la storia dal nostro punto di vista, di diventare protagoniste. Solo diventando protagoniste saremo noi a decidere quando è il momento di ridere. E di spegnere i bollori altrui e una televisione appiattita su modelli maschilisti, che continua a tradurre il desiderio con le forme più svariate e becere di degradazione del femminile.

Come sopravvivere agli hater

Decidere di scrivere un post sulle mamme dei maschi e poi pubblicarlo in un gruppo Facebook dedicato alle mamme è un po’ come cospargersi di miele ed entrare nella gabbia degli orsi. Ci si aspetta di essere criticate, che ti facciano presente che non sono mica tutte così o che anche le mamme delle femmine non scherzano. Quello che non mi aspettavo era che gli attacchi diventassero tanto personali e violenti. “Ma chi è questa?” è una delle cose più carine che mi hanno scritto, roba che subito dopo ti aspetti di leggere un “che l’aspetto sotto casa”…

Questa è  stata la prima cosa che non mi aspettavo.

La seconda è stato l’effetto che ha avuto su di me. Quando gestisci un blog che parla di femminismo rosa, alle critiche finisci per fare il callo, per forza. Se poi ogni tanto pubblichi i tuoi post nei gruppi femministi, dove come è noto rischi la vita se sbagli una desinenza, allora puoi dire di avere il master. Finora però non avevo mai suscitato tanta rabbia. Passo un sacco di tempo sui social, conosco troll e hater e so come bisognerebbe gestire una discussione. Eppure quella rabbia mi aveva piantato dentro un malessere inatteso, una sorta di timore misto a imbarazzo. Il timore di chi si accorge di essere finito nella posizione della vittima e l’imbarazzo di chi sa quanto sia assurdo prendersela tanto.

Come mai i commenti rabbiosi e gli attacchi in un luogo impersonale come Facebook arrivano tanto in profondità? E questo nonostante io non sia più una ragazzina e abbia una vita personale quasi del tutto scollegata dai social, a differenza delle adolescenti che si trovano in posizioni simili e che sui social hanno il riflesso della loro vita scolastica e sociale. Il mio primo pensiero, lo confesso, è andato al giornalista della BBC e a sua moglie, che avevano visto la propria casa e le figlie, ciò che di più privato esiste, diventare virale e oggetto di commenti poco lusinghieri. Poi ho cercato qualche risposta e qualche strumento utile per il futuro.

Era l’anonimato di quei commenti a renderli così disturbanti. Una forma di anonimato però ben diversa da quella delle telefonate anonime. Qui la persona che se la prendeva con me ci metteva la faccia e il nome, anche se la faccia poteva essere un campo di fiori (o il viso del figlio di pochi mesi) e il nome poteva essere fasullo (o un po’ spiazzante, come accade in quei profili di coppie inseparabili che scelgono di chiamarsi Famiglia Chiara e Mario Rossi, in cui mancano solo la suocera e il cane). È una forma di anonimato che ti obbliga a metterci del tuo, a esercitare la fantasia, a fare la tua parte riempiendo i buchi e colmando le lacune, il che significa che il risultato finale, così come si è formato nella tua testa, ti assomiglierà molto di più di quanto non ti assomigli quella persona nella vita reale. Avrà più a che fare con te. E ti arriverà molto più vicina, perché la maggior parte del lavoro l’hai già fatta tu.

La forza di quei commenti è anche la loro debolezza. In realtà sono commenti pigri, che richiedono uno sforzo minimo, neanche quello di alzare la cornetta e comporre il numero. Sono commenti vigliacchi e passeggeri, che spesso chi lascia dimentica pochi minuti dopo, a differenza di chi li legge. Nel giorno della querelle materna ho ricevuto anche molti messaggi privati solidali, alcune persone mi hanno ringraziato per aver sollevato la questione, eppure quando mi connettevo ai social non potevo fare a meno di provare una sorta di ansia, di disagio. Finché non ho capito che quei commenti non solo erano fragili, ma erano alimentati dal mio stesso disagio, proprio come la rabbia che li muoveva era alimentata dal loro. Non il disagio per quel che avevo scritto, sia chiaro, ma per il potere che avevo attribuito a quei commenti e  a quelle voci pigre e passeggere. È bastato parlarne, gridare che il re era nudo, perché il disagio svanisse.

I social sono il regno della condivisione, c’è chi arriva a condividere i propri segreti più intimi. La vergogna però non è un segreto facile da condividere, non è facile neanche parlarne. Eppure nell’istante in cui lo facciamo, come per magia, scompare.

Non è un problema solo adolescenziale, allora, ci riguarda tutti. Siamo saliti sulla macchina dei social come su un treno in corsa, senza preoccuparci di rallentare o di scoprire come manovrarlo. E senza capire che alla guida di quel treno c’eravamo noi. Il segreto contro gli hater non è bannare, non è neanche il silenzio, non basta. Il segreto è spegnere la loro voce nella nostra testa,  è riprendersi l’unico potere che hanno quei commenti, che è quello che gli abbiamo attribuito noi.