Sì, è victim blaming

“Potevi dire di no.”

“Perché non te ne sei andata?”

“Che cosa ci facevi lì?”

“Eri già grande, non eri più una bambina, potevi difenderti.”

“Te lo sei scelto tu.”

“Perché non hai denunciato?”

“Se ti è successo è perché gliel’hai permesso.”

“Sei sicura che lui non abbia frainteso? Forse non sei stata abbastanza chiara.”

“Ci hai fatto due figli, non lo sapevi com’era?”

“La stai facendo più grande di quanto non sia.”

“Se non ti andasse bene davvero l’avresti già mollato.”

“Devi imparare a fregartene.”

“Tu però non rispondere, non provocarlo.”

“Ma che cosa gli fai agli uomini?”

“Succedono tutte a te.”

“Come hai fatto a restarci insieme. Io me ne sarei andata.”

“Ma come? È così innamorato!”

“Quando ti ci sei messa assieme, qualche segnale l’avrai avuto, no?”

“Non potevi urlare e dargli un calcio nelle palle?”

“Potevi evitare di restare da sola con lui.”

“Bisogna sentire tutte e due le campane, però. Qualcosa avrai fatto anche tu.”

“Perché lo stai dicendo solo ora?”

“Sì, però anche tu…”

“Sei sicura?”

Grazie come sempre alla pagina Facebook di Rosapercaso, da cui arrivano questi esempi e dove ne trovate molti altri.

Sembra romantico, invece è un abuso

Frasi che sembrano romantiche e invece sono comportamenti tossici che dovrebbero farvi correre nella direzione opposta. O almeno obbligarvi a una riflessione e a un cambiamento. Perché l’amore è sempre e prima di tutto libertà, mai il suo opposto.

“Sono l’unico a volere davvero il tuo bene.”

“Continuerò a dirtelo ogni giorno, finché non capirai che siamo fatti per stare insieme.”

“Resta tranquilla a casa con i bambini che ci penso io a te.”

“Non importa se dici di non amarmi più, io ti amo abbastanza per tutti e due.”

“Non sono geloso, è che non mi fido degli altri uomini.”

“Sei tutto per me. Senza di te la mia vita non ha più senso.”

“Stasera ti avrei voluta qui, tutta per me. Divertiti con le tue amiche.”

“Tu non sei come le altre donne, le altre sono tutte puttane.”

“Sei mia. Tornerai sempre da me, e lo sai.”

“Non hai bisogno del trucco. Poi ti guardano tutti perché sei troppo bella.”

“Tu non pagare niente, pago tutto io.”

“Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa.”

“Chiudi il tuo conto in banca tanto gestisco tutto io, anche le bollette, non preoccuparti.”

“Con tutto quello che ho fatto per te.”

“Non troverai mai nessuno che ti ami quanto ti amo io.”

“Quando arrivi al lavoro avvisami.”

“Eri fuori a cena e non mi hai messaggiato neanche per una volta, vuol dire che non stavi pensando a me.”

“Ho il diritto di saperlo.”

“Ti farò da amico, padre, fratello, confidente, sarò tutto per te, non ti servirà nessun altro.”

“Fatti carina per me.”

“Sei la mia donna.”

“Devo sapere sempre dove sei, mi preoccupo per te.”

“Ti coprirò di regali.”

“Ti accompagno, non ti ci faccio andare da sola.”

“A te ci penso io.”

Grazie come sempre alla pagina facebook del blog, dove trovate molti altri esempi e dove i commenti restano aperti, per raccoglierne sempre di nuovi.

“Io non lo so più chi sono.” La violenza di genere fra i minori

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Foto di Karen Arnold da Pixabay

Le bambine ribelli sono cresciute. E il femminismo non ha ancora trovato il modo giusto per parlare con loro. I toni infantili e le storie della buonanotte non servono più e per gli spunti adolescenziali più duri e senza filtro è ancora troppo presto. E così finiamo per lasciarle sole. Le lasciamo sole negli anni delle prime curve e delle prime mestruazioni, quando diventare donna rischia di sembrare una condanna, non un privilegio, quando la libertà ti si stringe addosso come il primo reggiseno. Rischiamo di lasciarle sole quando si affacciano alle relazioni di coppia e azzardano le prime definizioni dell’amore e del sesso.

Il discorso femminista non sempre arriva alle preadolescenti, non parla abbastanza il loro linguaggio, e le conseguenze iniziano a farsi sentire. Lo dimostra l’ultimo rapporto della fondazione spagnola ANAR (Ayuda a Niños y Adolescentes en Riesgo) che rivela come la violenza di genere aumenti fra preadolescenti e adolescenti in modo preoccupante. L’età dei minori che si rivolgono alla fondazione è sempre più bassa: la media sono 15,7 anni, contro i 16,1 dell’anno precedente, e il 17,6% rientra nella fascia fra i 12 e i 14 anni. Non solo, nell’1,8% delle situazioni l’adolescente convive con il suo aggressore.

“Io non so se la colpa è mia, se mi ama e mi odia. E la cosa peggiore è che se mi chiamasse tornerei fra le sue braccia, come faccio sempre.” “È geloso, non mi lascia uscire con le mie amiche, mi dà della puttana solo perché vado a farmi un giro. Mi ha detto che se lo denuncio mi ammazza.” “Mi insulta continuamente, mi dice che sono una zoccola, una schifosa… Io non lo so più chi sono.” “A volte devo farlo con lui perché se no si arrabbia e diventa violento.” “Io gli dico che non mi piace e lui mi risponde: dai, tranquilla, sopporta, abbiamo quasi finito.” Sono alcune testimonianze raccolte al telefono dell’associazione da ragazze di 15 e 16 anni.

Messaggi di WhatsApp dai toni sempre più violenti e minacciosi, l’obbligo di condividere la propria posizione in ogni momento, il controllo esercitato sul cellulare, la richiesta di fotografie intime come prova d’amore… Nel 67,5% dei casi le aggressioni avvengono per mano del fidanzato, nel 32,5 di un ex fidanzato. A quell’età le nuove tecnologie giocano ovviamente un ruolo rilevante, ma per il resto le dinamiche non cambiano.  Se non fosse che nel 39,3% dei casi l’aggressore ha meno di 18 anni e in due casi su dieci le vittime hanno fra i 12 e i 14 anni.

Il dato più preoccupante però è quello sulla consapevolezza. Nel 53,5% dei casi, la minore che chiama al telefono dell’associazione non è cosciente di essere vittima di violenza. Nell’80,9% dei casi non ha alcuna intenzione di denunciare. Siamo abituati a leggere frasi e dati simili nel contesto della violenza di genere, ma quanto fa male scoprire che a quindici anni ancora oggi puoi cadere in una relazione tossica, essere isolata dalle tue amiche, essere sminuita, insultata, umiliata, controllata in modo ossessivo, presa a schiaffi, violentata, e non riuscire a dare un nome diverso dall’amore a quello che ti sta succedendo? Se la forma di violenza più frequente fra le adolescenti è quella psicologica, questo significa che c’è stato un vuoto preoccupante nel discorso femminista rivolto a quella fascia d’età. Ce la siamo cantata e suonata fra di noi, insomma, e anche quando eravamo convinte di rivolgerci a loro, parlavamo un linguaggio così distante e incomprensibile da non riuscire a farci sentire, o a far venire loro voglia di ascoltarci.

L’età anagrafica delle vittime della violenza degli uomini sta diminuendo più in fretta della nostra capacità di adattarci e imparare il loro linguaggio. C’è una nuova sfida all’orizzonte del nostro discorso femminista e dobbiamo raccoglierla il più in fretta possibile.

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Uomini, non sostenete le battaglie delle donne

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“Non è una guerra contro gli uomini.” Lo ripetiamo fino allo sfinimento. Quella del femminismo è una battaglia contro un modo di intendere le donne, contro una cultura che ci ha educati tutti quanti, uomini e donne. Quando ce la prendiamo con le battute e gli atteggiamenti sessisti, il nostro obiettivo non sono gli uomini, ma la cultura da cui scaturiscono, in cui scorre un filo rosso che unisce quelle battute allo stupro e alla violenza di genere.

Allora perché certi uomini dicono di voler sostenere le “nostre” battaglie? Perché non dire che anche loro combattono contro quella stessa cultura, a modo loro, con i loro strumenti e le loro risorse? Non si tratta di “aiutarci” qual cavalier servente e neanche di “metterci la faccia” che sa un po’ di volontariato a costo zero. Non è che non li vogliamo accanto, certo che abbiamo bisogno di loro, ma abbiamo bisogno che facciano la loro parte, non la nostra. La nostra la sappiamo fare benissimo da sole.

Il lavoro non manca. C’è da riscrivere da capo l’abbecedario del corteggiamento, delle relazioni amorose e del sesso. C’è tutto un campionario di mascolinità tossica da smentire e reinventare. Ci sono centinaia di battute, modi di dire e di pensare che ci avvertono, come la spia rossa sul cruscotto, che c’è qualcosa che non va nelle relazioni fra i sessi.

Non vogliamo essere elogiate, non vogliamo essere difese, non vogliamo sentirci dire che meritiamo rispetto perché siamo le sorelle, le madri o le figlie di qualcuno. Non vogliamo sentirci dire che la donna è una creatura meravigliosa perché è in grado di dare alla luce, come se dare la vita esaurisse l’universo femminile. Non vogliamo sentirci dire che la donna sacra, perché il sacro è patrimonio collettivo ed è proprio la percezione della donna come bene collettivo quello che combattiamo. Dire che amate tanto le donne non sposta le nostre lotte di un centimetro e se lo fa è per riportarle indietro. Essere sorelle, figlie, madri, creature sacre e meravigliose non ci rende più libere, tutto il contrario. Rende più libero qualcun altro di fare ciò che crede con noi.

Se davanti a una battaglia femminista pensate di dover aiutare le donne, allora non avete capito il senso di quelle battaglie. Non serve impiastricciarsi di rosso la faccia per dire che le donne non devono essere picchiate. Non abbiamo bisogno che sosteniate le nostre battaglie, abbiamo bisogno che combattiate le vostre.

Dove sono gli uomini?

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Queste immagini sono i primi quattro risultati che ho ottenuto dopo aver cercato su Google “uomo violento”. L’uomo dov’è? Non c’è. Non c’è quasi  mai. Se è presente, salvo rare eccezioni troviamo un pugno, la tasca posteriore dei jeans, un braccio, una spalla. La parte scelta non è quasi mai il viso, ma un dettaglio molto più anonimo e astratto, privo di emozioni. Nel caso delle donne, invece, il volto è quasi sempre presente.

L’uomo nella rappresentazione della violenza non esiste. La causa diretta del problema è assente dal racconto di quel problema, dimenticata, e quindi parzialmente assolta. Se la donna è al centro di quella rappresentazione, in qualche modo ne deduciamo che ne sia anche responsabile, che il problema sia suo, prima che dell’aggressore, che la colpa sia declinata al femminile, proprio come le immagini.

La donna delle immagini si difende, si nasconde, si sottrae alla violenza. Ed ecco allora il secondo messaggio: donne, difendetevi, fate qualcosa, per la miseria, se non volete farvi picchiare. Per averne la conferma, basta leggere i titoli dei risultati collegati a quella ricerca: “Come riconoscere un uomo violento” “Che cosa fare se incontri un uomo violento” “Come difendersi da un uomo violento”. Il tutto, lo ricordo, partendo da una ricerca che includeva soltanto le parole “uomo” e “violento”, senza alcun riferimento alle donne.

Infine il volto femminile, un volto distorto dalle emozioni, stravolto dalla paura, in netto contrasto con l’immobilità del pugno, che trasmette forza, fermezza e decisione, oltre che rabbia e aggressività. Ricordo bene una vittima di violenza che mi raccontò che non provava più dolore per i colpi del marito, che la paura lo cancellava, cancellava tutto il resto. La paura fredda e immobile che ti mangia dentro, non quella delle mani sulle orecchie o degli occhi strizzati. L’altro messaggio quindi è che la donna sia emotiva, instabile e fragile, e l’uomo invece saldo, forte, decisamente più dalle parti dell’autorità che del delinquente.

Queste immagini non raffigurano: additano, incolpano, scaricano responsabilità. Compresa la responsabilità di difendersi. Lo conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, il fatto che la maggior parte dei post sull’argomento si rivolga a una lettrice donna, non a un uomo.

La violenza sulle donne, insomma, resta ancora un problema tutto femminile. La provochiamo, la subiamo e dobbiamo imparare a impedirla. E intanto gli uomini, la stragrande maggioranza senza colpe e la minoranza colpevole, si sentono autorizzati a guardare altrove, perché il problema, dicono quelle immagini, non li riguarda.

Dolcemente complicate

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Un giorno il padre di un’amica mi raccontò che l’animale a cui più aveva voluto bene era stato un pappagallino cenerino. Era morto una notte d’estate, se lo ricorda perché era la settimana più calda degli ultimi dieci anni, secondo la televisione, e lui non riusciva a dormire. E al piano di sotto il pappagallo non stava zitto un secondo.

Al mattino, quando si alzò, lo trovò morto. Si avvicinò alla gabbia e si accorse che era rimasto senz’acqua. “Come facevo a capirlo?” mi chiese, sconsolato. Mi trattenni dal fargli notare che probabilmente era quello che l’animale aveva cercato di dirgli per tutta la notte, mentre lui sprimacciava il cuscino e gli gridava di non rompere e lasciarlo dormire.

L’episodio mi torna in mente ogni volta che sento un uomo sostenere che le donne non le capisce nessuno e che diciamo una cosa ma ne intendiamo un’altra e che è impossibile decifrare che cosa vogliamo. Nove volte su dieci, quello stesso uomo poi si lamenterà perché la fidanzata non sta zitta un attimo e non fa che dargli il tormento e parlare e parlare, perché le donne devono sempre essere così rompiscatole e non ci lasciano in pace, ogni tanto?

Siamo come quei pappagallini senz’acqua. Parliamo e nessuno ci sta a sentire, perché la voce delle donne è fastidiosa, è carica di pretese e di capricci e di presunzione. La voce degli uomini sa, insegna, consiglia, informa. La voce delle donne è lamentosa, arrogante, incontentabile, umorale. E così, che strano, nessuno ci capisce e a nessuno sorge il dubbio che forse, se ci ascoltassero, scoprirebbero che non c’è niente di così misterioso e impenetrabile in noi.

Chissà, forse ascoltandoci qualcuno scoprirebbe che abbiamo dei sogni e che i nostri sogni hanno bisogno di tempo e che spesso è del sacrificio di quei sogni che si nutre l’equilibrio domestico e familiare. Che averli calpestati ha reso tutto più facile agli altri, ma ha reso tristi e insoddisfatte noi. Che i nostri progetti sono incompatibili con la cura altrui, che la nostra forza non serve solo a sopportare, anche a creare. Che se non ci proviamo, quasi sempre, è perché ci hanno convinte che non ne saremo capaci. E che se stiamo zitte, molto spesso, è perché sono riusciti a farci sentire sole e sbagliate, fra tante altre donne che si credono sole e sbagliate in silenzio.

Se ci ascoltassero, scoprirebbero che la violenza sessuale ha mille facce diverse, che avviene anche nel silenzio e non solo fra urla e schiaffi. A volte perfino fra una dichiarazione d’amore e l’altra. Se ci ascoltassero, si renderebbero conto di quanto suona vuota la parola violenza del loro vocabolario in confronto all’umiliazione, all’impotenza, ai sensi di colpa, al mutismo doloroso in cui sprofondano le donne che subiscono, che perdono il diritto sul proprio corpo. Se ci ascoltassero scoprirebbero mille sfumature di dolore, quel dolore che non lascia lividi e non lascia tracce, in una cultura che non ha interesse ad ammetterlo e a riconoscerlo.

Se ci ascoltassero, forse, sarebbe più facile capire che quando una donna viene penetrata senza averlo deciso e senza averlo desiderato, quella è violenza. Che se una ragazzina ubriaca viene penetrata a turno da più uomini, quella che ha subito è un’aggressione che nessuna società civile dovrebbe tollerare. Anche se non ha detto di no. Perché se ci ascoltaste, quel no l’avreste sentito eccome, l’avreste sentito nascere dentro di voi, prima che sulle labbra di quella ragazza. Se ci ascoltaste, invece di sbuffare e girarvi dall’altra parte nel letto, forse avremmo qualche possibilità in più di salvarci.

Se hai paura, è violenza

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“Non sarà esagerato chiamare un centro antiviolenza se non mi ha mai messo le mani addosso?”

“Farò la figura della scema?”

“Mi diranno che hanno cose più gravi e importanti a cui pensare?”

Quando è violenza? Dove inizia la violenza psicologica? Quanti tipi di violenza esistono? Troppe donne non sono consapevoli di trovarsi in una situazione di pericolo, che le legittima a chiedere aiuto. Grazie alle risposte e alle testimonianze raccolte sulla pagina Facebook di Rosapercaso, ecco un elenco (incompleto) di casi in cui sì, è violenza. E sì, probabilmente hai bisogno di aiuto. Se ti sembra troppo presto, non aspettare che sia troppo tardi.

Se ti minaccia, è violenza.

Se ti controlla, se ti segue, se vuole sapere sempre dove sei, è violenza.

Se ti umilia, è violenza.

Se urla, è violenza.

Se prende a pugni le porte, se sbatte le sedie per terra, se spacca un bicchiere contro il muro, è violenza.

Se ti spinge, se ti pizzica, se ti graffia, se ti stringe troppo, se ti prende a calci, se ti strattona, se ti schiaffeggia, se non si ferma quando gli dici che ti fa male, è violenza.

Se ti costringe a restare in una situazione di dipendenza, di qualunque dipendenza si tratti compresa quella economica, è violenza.

Se non rispetta i tuoi no, è violenza.

Se vuole accompagnarti ovunque, se ti impedisce di andare in palestra, di viaggiare, di uscire con i tuoi amici o ti dice a che ora devi rientrare, è violenza.

Se ti fa sentire una nullità, è violenza.

Se pretende di gestire quello che ti appartiene, è violenza.

Se ti fa il vuoto attorno, è violenza.

Se limita la tua libertà in qualunque modo, è violenza. 

Se decide per te, è violenza.

Se ti colpevolizza, è violenza.

Se ti manda regali indesiderati e inopportuni, è violenza.

Se ti ignora costringendoti ad affrontare il suo silenzio, è violenza.

Se ti proibisce di lavorare o di studiare, è violenza.

Se ti addossa compiti e responsabilità che dovrebbero essere di entrambi, è violenza.

Se ti controlla il cellulare, è violenza.

Se hai paura, è violenza.

Se credi di avere bisogno di aiuto, o anche solo se vuoi scoprire se hai davvero bisogno di aiuto, puoi rivolgerti a un centro antiviolenza (li trovi sul sito di D.I.Re Donne in rete contro la violenza) o chiamare il numero gratuito 1522, il servizio pubblico del Dipartimento per le Pari Opportunità che offre sostegno per i casi di violenza e stalking.

No, non sei uno dei casi patetici di cui parlano i giornali o gli spot contro la violenza di genere, non lo sei perché non esiste una situazione uguale all’altra, come non esiste una donna, una relazione o una soluzione uguale all’altra. Ma fingere di non avere bisogno di aiuto non ti salverà. Provare a chiederlo forse sì.