Cinquanta sfumature di violenza

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Foto di Thomas Hawk (CC)

Centoventicinque milioni. Secondo Wikipedia è il numero di copie vendute dall’intera serie delle Sfumature nel mondo. Centoventicinque milioni. Con una cifra simile è evidente che non si può pensare che si tratti solo di un fenomeno editoriale. I tre libri hanno avuto conseguenze fin troppo profonde nell’incidere e sdoganare modelli sentimentali e romantici pericolosi. È già stato scritto più volte.

Ma non si può liquidare il fenomeno all’insegna della perversione o del gusto del proibito o dell’erotismo più sfrenato, come è stato fatto fin troppo spesso. È vero, molte donne lo hanno letto alla ricerca di una via di fuga, ma non si trattava di sfuggire a un quotidiano faticoso e monotono: io credo che alcune di quelle lettrici cercassero di fuggire da se stesse. Le Cinquanta sfumature non erano solo un catalogo di pratiche sessuali di dubbio gusto e piacere, per molte lettrici erano un’assoluzione. L’assoluzione per aver giustificato lo stronzo di turno tirando in ballo i problemi del suo passato, per averlo scusato per il suo caratteraccio perché poverino ha avuto una giornata difficile, per puntare sempre e comunque il dito verso la presunta sensibilità del lui di turno, sensibilità che proprio perché inesistente viene spacciata per fragile e preziosa. L’assoluzione per essersi fatte trattare male, una volta di troppo. E la trovavano. La trovavano nelle pagine del romanzo, nel modello rivisto di Cenerentola, in una rilettura del genere che sembrava fatta su misura per loro. Le Cinquanta sfumature sono state in un certo senso l’equivalente del Diario di Bridget Jones. Sono andate a pescare fra i nostri complessi, fra i nostri sensi di colpa, fra le nostre debolezze più o meno nascoste e li hanno messi su un piedistallo, sommergendoli fra le risate o fra i gemiti, poco importa, l’importante era rassicurare le lettrici.

Intervenire sul rapporto fra letteratura e modelli sociali significa sempre muoversi su un terreno pericoloso e complesso, fatto di sottigliezze, di distinguo quasi inafferrabili, dove basta a volte l’uso di una figura retorica invece di un’altra a spostare di segno l’intero discorso. Non mi azzarderò quindi a scendere su questo terreno. Dirò soltanto che la letteratura di genere, di evasione, si muove su un filo sottile, perché gioca con i modelli culturali dominanti, parte integrante della stessa struttura narrativa. Il genere di per sé è quasi sempre conservatore e proprio nel suo ripercorrere e consolidare determinati modelli incide in modo profondo sulla loro evoluzione. Per questo andrebbero ripensati una volta per tutte i modelli romantici, senza forzature, senza imporre messaggi, senza far svanire il fascino e la magia. E fra i modelli romantici che vorrei veder scomparire per primi c’è proprio quello dell’uomo bruto e brutale per colpa di qualche esperienza traumatica del passato. O del presente. O del giorno prima.

Siamo così abituate a subire, a farci carico del mantenimento dell’ordine, a ricucire, a sanare, a pacificare, che finiamo per mettere pezze assurde anche sulle violenze che subiamo. Se un uomo ci tradisce è bipolare, se un uomo si ricorda di noi solo quando gli fa comodo ha paura dell’impegno, se è scostante e scortese sta passando un brutto periodo. Siamo sempre pronte a passare lo strofinaccio dietro le pecche altrui, a cancellarne i segni, a redimere chi non se lo merita.

L’intervista di Barbara D’Urso a Ylenia Grazia Boavera, la ragazza a cui è stato appiccato fuoco, fa qualcosa di molto simile e di molto più pericoloso. La giovane che inneggia all’amore dalla corsia di un ospedale, che si rivolge alla giornalista chiamandola per nome, che sfida apertamente in tutta la sua fragilità chiunque la contraddica, ha tutte le carte in regola per diventare un modello vincente e aspirazionale per una parte delle sue coetanee. Anche lei, in modo molto diverso dalla serie delle Sfumature, ma con meccanismi analoghi, rappresenta una via di fuga. La frase terribile e vergognosa della conduttrice sui gesti motivati da “troppo amore” non è che il suggello finale, la nota in calce che rende tutto ancora più “normale”.

La figura di Ylenia, paradossalmente, rischia di diventare confortante per chi vive una situazione simile e non sa uscirne, o non è sicura di avere il diritto di uscirne. Ricuce le ferite, invece di aprirle, spalma una parvenza di normalità, permette alla violenza di tornare a mimetizzarsi nel quotidiano. È questo a cui dovremmo prestare attenzione. Da un punto di vista puramente narrativo, lasciando che tribunali, psicologi e legislatori facciano il loro dovere, dobbiamo stare attenti alle trame che dilagano e occupano l’immaginario collettivo. Dobbiamo guardarci dal loro potere catartico e dalla loro capacità di riconciliare le vittime con un’ingiustizia strisciante. Un’ingiustizia che come tutte le spaccature e le crepe del quotidiano, come tutto ciò che ci fa sentire fragili e diversi, è molto più facile e rassicurante considerare normale.

2 risposte a "Cinquanta sfumature di violenza"

  1. Le persone che hanno un ruolo pubblico, in particolare, dovrebbero condannare o, per lo meno, mai giustificare la violenza. Perché essere ascoltati, visti o letti da milioni di persone è una grossa responsabilità. Invece…
    La presa di posizione di Ylenia sembra incomprensibile, per quanto lei sia sotto shock. E, come dici tu, anche questo diventa un pessimo esempio e più sui giornali ne scrivono e più risuona.

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