Femminismo a pois

I pois viola sono il segno di una violenza invisibile, che viene vissuta ogni giorno da moltissime donne, spesso senza accorgersene e senza saperlo. Ogni volta che ci sforziamo di aderire alle aspettative altrui, perdendoci per strada e facendo violenza su noi stesse. Ogni volta che abbiamo bisogno di restare da sole per essere davvero noi stesse e quando siamo con chi amiamo ci accorgiamo di scomparire. Ogni volta che sacrifichiamo i nostri talenti per andare incontro alle esigenze altrui. Ogni volta che ci sentiamo dire che siamo multitasking per definizione, supermamme, superdonne, un sacco di super, ma senza bastare mai a noi stesse.

Per chi volesse saperne di più o cercasse del materiale per approfondire l’argomento, in vista dell’8 marzo, per esempio, trovate tutto nel file qui sotto.

Per scaricare e leggere “Donne a pois”, invece, potete cliccare qui o sulla copertina del libro.

La violenza invisibile sulle donne

La violenza invisibile sulle donne è quella che ci definisce super e toste e multitasking.

È quella che ti chiama mamma e moglie, perché in fondo basta questo a definirti, basta e avanza. È quella delle mamme che non dormono mai, delle donne che sono il cuore della casa, di “il figlio è muto e la madre lo capisce” e “una mamma vale per cento figli” e “mamma di uno mamma di tutti”.

È violenza invisibile ogni volta che diciamo che le donne sono più pazienti, hanno più capacità di sopportazione, sono più sensibili, sono più attente ai bisogni altrui, sono più efficienti, sono più disposte al sacrificio.

È violenza invisibile quando non ti ricordi più di quello in cui eri così brava, perché è troppo tempo che fai solo quello in cui sono bravi gli altri. Quando nel frigo di casa non c’è niente che ti piaccia e hai appena fatto la spesa. Quando a sederti sul tuo divano ti senti in colpa. Quando il tempo per te è quello che resta quando gli altri hanno finito di averne bisogno. È violenza invisibile quando non puoi distrarti un attimo se vuoi che la casa continui a funzionare, quando sei diventata la bacheca della famiglia, l’agenda, la lista della spesa, il centro di controllo delle vite altrui, e non perché ve ne fosse una reale necessità, solo perché così è più facile. È violenza invisibile quando sei l’unica a sapere dove sono le cose in casa, quando sei l’unica a ricordarsi l’ora della lezione di violino, o a sapere la password della app per pagare le escursioni o l’unica a ricevere le email della scuola (perché mio marito poi si dimentica di tutto) e l’unica nel gruppo whatsapp di classe.

È violenza invisibile quando senti che se ti occupi di te stessa stai rubando qualcosa agli altri, quando porti i tuoi figli dal medico al primo colpo di tosse e tu invece stringi i denti e prendi una pastiglia in più perché non hai tempo. È violenza invisibile quando nascondi quello che ti sei comprata perché non vuoi sembrare spendacciona e superficiale, quando leggi un libro sul cellulare perché così sembri occupata e puoi interrompere appena ti chiamano, quando aspetti che tutti siano andati a dormire per fare quello che vuoi fare in santa pace. È violenza invisibile quando fai o non fai qualcosa “altrimenti si arrabbia”, quando pensi che la felicità degli altri sia una tua responsabilità, quando vivi in funzione degli umori altrui, quando ti rannicchi in un cantuccio della tua vita e pensi che un giorno te la prenderai tutta intera, quando i figli sono grandi quando tuo marito sarà in pensione quando non avrai più il pappagallo a cui pensare e poi i figli crescono il marito va in pensione il pappagallo vola via e tu resti comunque in quel cantuccio a cercare di raggiungerli tutti in qualche modo, anche quando diventi invadente e ingombrante, perché non conosci la realtà se non attraverso i loro bisogni e quel modo di essere utile.

È violenza invisibile quando sorridi a una battuta sconcia solo per non dover continuare nella conversazione, quando lasci che gli altri ti spieghino quello che già sai e meglio di loro, quando ti guardano con un sorriso dispiaciuto se dici che non vuoi avere figli, quando sei costretta a sorridere per non sembrare aggressiva, quando le tue idee diventano automaticamente lamentele, i tuoi bisogni pretese, le tue emozioni fragilità.

La violenza invisibile è questo e molto altro. E non se ne parla ancora abbastanza. E intanto le donne si ammalano di malattie di cui non frega niente a nessuno e sono infelici di un’infelicità che è più facile chiamare inadeguatezza e continuano a credere di non essere fatte per questo mondo, quando è il mondo a non essere fatto per noi e dovremmo pretendere che lo diventi. Se un giorno lanciassimo un urlo, come le protagoniste di “Donne a pois” e ci ritrovassimo tutte la faccia a pois viola, allora saremmo costrette a cambiare e dare ascolto al nostro corpo, la violenza non sarebbe più invisibile e tutti vedremmo quanto è brutta e quanto ci fa male.
E molte donne saprebbero di non essere sbagliate, solo invisibili.

Come difendere le ragazze dalle molestie

Cose che possiamo fare per cercare di evitare che le ragazze vengano molestate:

  • lottare perché la responsabilità degli abusi maschili non ricada sul corpo e sulle azioni delle donne, lasciandoli quindi implicitamente impuniti;
  • combattere la cultura dello stupro ogni volta che ce la troviamo davanti, anche nella forma di un meme a cui sarebbe più facile rispondere con l’emoticon di una risata che con un pippone sul sessismo (basta anche scrivere “è sessista”, non siamo obbligate a spiegare perché, e ci stupirà scoprire quanto sia efficace);
  • insegnare alle nostre figlie che gli sguardi maschili non sono una loro responsabilità;
  • crescere figlie libere di godersi il proprio corpo nei modi in cui riterranno meglio farlo;
  • insegnare ai ragazzi e alle ragazze l’importanza e il valore del consenso;
  • rivendicare il diritto a essere tutelate e difese dalla società e a occupare in sicurezza lo spazio pubblico.

Cose che dovremmo ricordarci quando pretendiamo che le ragazze si coprano di più:

  • andare in giro coperta da capo a piedi non ha mai evitato uno stupro o una molestia; per essere oggetto di commenti, fischi e sguardi fastidiosi c’è un solo requisito: essere donna;
  • nel momento in cui lo facciamo non le proteggiamo, ma spostiamo la colpa su di loro e sul loro corpo, con tutte le conseguenze del caso in termini di disagio, disturbi alimentari, autolesionismo…;
  • la maggior parte delle molestie non avviene nei luoghi pubblici, ma in quelli privati, non avviene per mano di sconosciuti, ma all’interno della coppia: se insegniamo alle ragazze a prestare attenzione ai segnali di pericolo, non dimentichiamoci di individuarli e riconoscerli anche lì;
  • fare di tutto per sottrarsi allo sguardo maschile, nascondendosi in abiti extralarge o dietro espressioni ostili e vivendo con disagio le proprie forme non ha mai reso nessuna donna meno sessualizzata o più indipendente dallo sguardo maschile, tutto il contrario.

Sì, è victim blaming

“Potevi dire di no.”

“Perché non te ne sei andata?”

“Che cosa ci facevi lì?”

“Eri già grande, non eri più una bambina, potevi difenderti.”

“Te lo sei scelto tu.”

“Perché non hai denunciato?”

“Se ti è successo è perché gliel’hai permesso.”

“Sei sicura che lui non abbia frainteso? Forse non sei stata abbastanza chiara.”

“Ci hai fatto due figli, non lo sapevi com’era?”

“La stai facendo più grande di quanto non sia.”

“Se non ti andasse bene davvero l’avresti già mollato.”

“Devi imparare a fregartene.”

“Tu però non rispondere, non provocarlo.”

“Ma che cosa gli fai agli uomini?”

“Succedono tutte a te.”

“Come hai fatto a restarci insieme. Io me ne sarei andata.”

“Ma come? È così innamorato!”

“Quando ti ci sei messa assieme, qualche segnale l’avrai avuto, no?”

“Non potevi urlare e dargli un calcio nelle palle?”

“Potevi evitare di restare da sola con lui.”

“Bisogna sentire tutte e due le campane, però. Qualcosa avrai fatto anche tu.”

“Perché lo stai dicendo solo ora?”

“Sì, però anche tu…”

“Sei sicura?”

Grazie come sempre alla pagina Facebook di Rosapercaso, da cui arrivano questi esempi e dove ne trovate molti altri.

La trappola del consenso nella cultura dello stupro

  1. Conformità di intenti e di voleri.
  2. Permesso, approvazione.

Quale di questi due significati della parola “consenso” abbiamo in mente, quando la usiamo in relazione a uno stupro? In quanti casi è un no mancato a travestirsi da consenso/permesso agli occhi di una società in cui la donna è sempre consenziente, salvo dimostrazione del contrario?

Nelle storie che arrivano a Rosapercaso, quando le donne sono in dubbio e si interrogano sulla definizione da dare alla violenza subita, è quasi sempre questo il discrimine: il permesso dove avrebbe dovuto esserci conformità di intenti e di voleri. Quelle donne si trovavano in una strada buia, in una situazione di pericolo, non avrebbero saputo come gestire un no, non si fidavano abbastanza di se stesse per dirlo, così hanno finito per accettare, per paura che lui diventasse violento, per non peggiorare la situazione. L’unica faccia del consenso che era possibile rintracciare era il permesso, non certo la conformità di intenti. Ti do il permesso di fare sesso con me, per evitare di essere lasciata sola in una strada isolata/di essere picchiata/di essere trattata da stupida/di essere umiliata… Nella realtà non abbiamo davanti un grande tasto rosso da premere per comunicare la nostra decisione. La realtà è fatta di momenti che corrono rapidi, di sensazioni che non abbiamo imparato a riconoscere e a tenere in conto, di cui non ci hanno insegnato a fidarci. In una realtà di analfabeti del consenso e del piacere femminile, la violenza sulle donne a volte precede (di qualche frazione di secondo o di qualche anno) la sua definizione, anche per chi la subisce. “Io non lo so se ho subito violenza, perché in realtà l’ho lasciato fare per evitare che andasse a finire peggio.”

Ed è spesso lì, in quel permesso travestito da consenso, il punto. “In realtà si conoscevano già, erano amici” mi hanno detto a mo’ di attenuante commentando lo stupro di una minorenne durante una festa in spiaggia. Se lui è uno sconosciuto che la trascina in un angolo con la forza, allora (forse) è stupro. Ma per tutto il resto il consenso è ovunque, basta cercarlo con un po’ di attenzione e ne trovi quanto ne vuoi. Perfino nelle parole delle vittime: era un mio amico, gli avevo sorriso, non gli ho detto di no, sono stata ingenua, avrei dovuto capirlo, avevo su un bel vestito.

La ragazza in spiaggia si era allontanata di sua spontanea volontà con un amico, poi era tornata dal gruppo piangendo. Ma fra amici, fra fidanzati, fra sorrisi e alcol e divertimento non è mai stupro. Al massimo la versione un po’ spinta di un gioco di potere, e piovono allegri gettoni di mascolinità tossica e cameratismo. E se proprio non si riesce a strappare un permesso, resterà sempre il desiderio maschile come eterna attenuante. Eccolo, allora, tutto il consenso di cui ha bisogno la cultura dello stupro.

  1. Conformità di intenti e di voleri.
  2. Permesso, approvazione.
  3. Qualunque cosa ecciti un uomo.

L’unico consenso che ha valore e significato è la conformità di intenti e di voleri. Non si tratta di aggirare un no o di portare a casa un d’accordo, ma di incontrare un sì, lo voglio. Tutto il resto è violenza.

Come insegniamo alle bambine a subire la violenza maschile

“I maschietti sono fatti così, sono più portati ai giochi aggressivi.”

“Ha bisogno di esprimere la propria energia, è molto fisico.”

“Se ti picchia è perché in fondo in fondo gli piaci.”

“È tutto testosterone!”

“È colpa tua che ti metti a piangere e gli dai soddisfazione.”

“Il mio Mario tocca già il sedere alle compagne, da grande sarà un donnaiolo.”

“Ha solo bisogno di sfogare l’energia.”

“Devi portare pazienza con lui, ha difficoltà di apprendimento e ti picchia per sfogare la frustrazione.”

“Non mettetevi la gonna, se non volete che i maschi cerchino di guardarvi le mutandine.”

“Con i maschi bisogna avere pazienza.”

“È il suo modo di esprimersi.”

“Se vuoi fare giochi da maschi, tanto vale che ti abitui.”

“Voi femmine siete più mature, cerca di capirlo e vai tu a chiedergli scusa.”

“Sicura di non avere fatto niente per provocarlo?”

Sono alcune frasi che probabilmente abbiamo sentito e forse anche detto, magari senza renderci conto che erano tanti mattoncini della cultura dello stupro che ci circonda e che dietro ogni frase si nascondeva il bisogno di giustificare la violenza maschile, perché è su quella violenza che poggiano le basi del potere in una società patriarcale. Possono sembrare innocue, ma sono frasi pericolose, perché abituano le bambine a essere dalla parte sbagliata del potere, a dubitare prima di tutto di se stesse, le convincono che il valore e la maturità di una donna si misurino anche con la sua capacità di sopportare. Lo dimostra il fatto che dietro quelle frasi si nasconda spesso la paura di crescere un maschio “debole”, che scivoli troppo lontano dalla propria posizione di privilegio. E sì, certo, esiste anche la violenza femminile, ma non fa parte del sistema di potere in cui viviamo e proprio per questo si è spesso molto più rapidi e meno esitanti al momento di condannarla.

Grazie come sempre alla community della pagina Facebook Rosapercaso, da cui arrivano questi esempi.