Manuale di NON scrittura creativa/16

 

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Foto Isidre García Puntí

Quando una storia non funziona, c’è quasi sempre un grande assente. La metafora. È la metafora infatti a fare la differenza. È lei, spesso, a trasformare ciò che si voleva raccontare in un racconto, le idee in una storia, le figure in personaggi. Come una bacchetta magica degna della fatina di Cenerentola, trasforma la zucca dello spunto iniziale in una carrozza, in grado di trasportare di gran carriera la fantasia verso il palazzo e il romanzo verso il lieto fine.

Sostituzione di un termine proprio con uno figurato, similitudine sottintesa, trasferimento di significato… Qualunque sia la definizione che preferite, sarà la metafora  a far spiccare il grande salto alla storia. Soprattutto se ci ricordiamo di usarla quando iniziamo a delineare i contorni di quello che racconteremo.

Nella stragrande maggioranza dei romanzi che aspirano a essere pubblicati manca un tema. E nella stragrande maggioranza dei romanzi in cui il tema è presente, viene messo in bella mostra così com’è stato concepito dalla mente dell’autore. Nudo e puro, quasi l’autore avesse paura di rovinarlo. Senza passaggi intermedi. Senza, appunto, diventare metafora.

Eppure le grandi storie nascondono tutte qualche metafora. Il taxista di Taxi Driver è una metafora della solitudine; la peste di Camus è una metafora del male; gli alieni dei romanzi di fantascienza sono spesso una metafora della diversità; gli zombie una metafora dell’alienazione; il mare di Baricco è una metafora della vita, il labirinto del Nome della rosa è una metafora della ricerca della verità… E gli esempi potrebbero continuare quasi all’infinito, sterminati e affascinanti.

Ma torniamo al nostro manoscritto, quello che il Manuale di NON scrittura creativa è qui per smontare impietosamente e sottoporre alla prova del fuoco. Riprendiamo in mano il nostro testo, già quasi pronto per essere spedito, e aggiungiamo un’altra domanda a quelle elencate nei post precedenti: dov’è la metafora?

Se l’intenzione era parlare della solitudine, ho introdotto un lungo dialogo del protagonista davanti allo specchio o l’ho raccontata attraverso una metafora, come l’autismo, la prigionia, l’isolamento, il gelo? Se il tema che mi stava a cuore era la vulnerabilità, ho tratteggiato una protagonista lamentosa e spaventata o mi sono affidata a metafore come una porta che non si chiude, una bambola senza un braccio, una mosca intrappolata in una ragnatela?

Ci saranno metafore più riuscite e altre meno, alcune più originali e altre più banali. Qualche metafora arriva sulla pagina per caso o trascinata dalla nostra ispirazione, senza bisogno di chiamarla. Qualche altra forse avrà bisogno di un lavoro più consapevole, nel momento in cui la storia prende vita. Non ha importanza. L’importanza è che non ci dimentichiamo di cercarle. E di usarle. E non solo perché arricchiscono il romanzo, non solo perché ci evitano di essere troppo diretti e didascalici. Soprattutto perché sono la bacchetta magica che darà vita alle nostre pagine nella mente del lettore. Perché non importa quanto siamo bravi, non importa quanto è interessante quel che abbiamo da dire. Senza la magia, senza qualche topolino come cavallo e un cavallo come cocchiere, la nostra fantasia non correrà mai a briglia sciolta e le idee non si trasformeranno in storie.

Manuale di NON scrittura creativa/8

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Le emozioni sono la nuova frontiera della pornografia. L’ultimo modo rimasto per spogliarci, dopo aver già visto centimetri di pelle a sazietà. E le emozioni positive, la felicità, la speranza, la gioia improvvisa, arrivano perfino più in là di quelle negative, ormai abusate. Se non credete a me, date retta ai pubblicitari, che ci si sono buttati a capofitto, con spot che strizzano l’occhio ai reality, il bello della diretta aggiornato al ventunesimo secolo.

Le aspirazioni letterarie, come i sogni in generale, sono uno strumento particolarmente raffinato di invasione della privacy. Ma non è mica solo Masterpiece a mettere a nudo i sogni altrui fra sorrisetti condiscendenti, anzi, quasi sempre facciamo tutto da soli. Nell’epoca dei social il pudore è diventato anacronistico, quasi asociale. Ogni giorno ci si ritrova circondati dalla messa in scena del processo creativo altrui. Baricco scrive in diretta il proprio romanzo e la sensazione è quella di sbirciare nell’intimità della sua camera da letto, cosa di cui personalmente farei volentieri a meno.

Facebook è diventato una tabella di marcia per aspiranti scrittori, con statistiche accuratissime sul numero medio di pagine che possiamo scrivere al giorno, un occhio sempre puntato sui computer altrui. Conosciamo i volti dei personaggi prima ancora di trovarli sulla carta, la loro casa, sappiamo come si vestono e dove si troveranno, i luoghi in cui si muoveranno, il tutto fra confronti accesi e preoccupati circa le proprie fatiche di scrittore. E a poco a poco, nell’indifferenza generale, la scrittura perde la propria anima, si riduce a un susseguirsi di numeri, prestazioni, tempistiche, tutto si uniforma e si appiattisce, anche ciò che per definizione è individuale e irripetibile, come il processo creativo.

Non solo tendenzialmente non frega niente a nessuno di quante pagine abbiamo scritto oggi, di quante ne abbiamo cancellate, se abbiamo messo la parola fine o scritto un nuovo numero di capitolo nel nostro manoscritto. Non solo. Credo che ci sia qualcosa di impudico. Che sia sbagliato. Sbagliato come raccontare le emozioni dei vostri figli a loro insaputa (sto aspettando con ansia la vendetta dei futuri diciottenni, quando scopriranno di essere diventati virali mentre ballavano in pannolino insieme al gatto di casa). La vostra storia è innocente. Ha bisogno di silenzio e discrezione. E il vostro dovere è proteggerla.

Ecco allora che in questo improvviso affollamento di scrittori potrebbe essere utile affidare loro un nuovo compito, quello di custodi delle emozioni, del loro segreto. Nella speranza che aiuti a tracciare una linea fra storie e storytelling, fra le trame che nascono dove nascono le emozioni e l’atto di raccontare che si fa merchandising.

Riprendiamoci il silenzio, nel caos entusiasmante del digitale. Fra tante voci, lasciamo che la scrittura almeno cresca nel silenzio.

Ogni tanto, tacciamo.